Il diavolo sconfitto: scultura lignea del XVIII secolo (Abbazia dei Fieschi di Cogorno, Ge.).
“Dicono che quando passava lei, il sole si ritirasse, e un'ombra nera la seguisse. Tutto diventava scuro; i muri si crepavano, le rose perdevano i petali e le donne incinte abortivano solo a vederla. Ma gli uomini la seguivano e, come attratti da un magnetismo irresistibile, diventavano preda della sua magia, schiavi della sua straordinaria bellezza. Aveva capelli lunghi e corvini che le scendevano lisci sulle spalle bianchissime, e occhi neri e profondi. Il suo volto era inespressivo, statuario, le mani sottili. Vestiva in abiti lunghi, di una stoffa pesante come i sai dei frati: io la vedevo sempre passare, la mia strega, e mi sarei venduto l'anima per lei.”
Le case arroccate di Triora accoglievano così il visitatore: sporgendosi come per spiarlo.
Il borgo di Triora, distante
circa 47 km dal mare e dal capoluogo Imperia, sorge a 780 metri d’altezza su un
costone montuoso delle Alpi Marittime, che digradano verso un selvaggio fondovalle
percorso dallo spumeggiate torrente Argentina. Triora è il prototipo del
perfetto borgo medievale: un conglomerato di case d’ardesia arroccate le une
sopra le altre, dove i vicoli, detti in ligure “caruggi”, sono
sovrastati da numerosi archi di sostegno che impediscono il collasso totale a
spericolate strutture sospese nel vuoto. E’ un labirinto edilizio attraversato
da vicoli oscuri, incastonati tra muraglioni e scalinate scivolose che
precipitano come serpi verso una rete di caverne sotterranee. Presso le dimore
nobiliari, quasi per magia, si aprono i tipici portici, provvisti di stemmi
araldici d’ardesia rappresentanti motivi sacri e apotropaici come
Annunciazioni, agnelli mistici ma anche simboli di eredità pagana come
buoi, teste di pietra e personaggi misteriosi, solo in parte scampati alle
distruzioni napoleoniche.
Il primo ambiguo mistero del
borgo di Triora fa capolino a partire già dal suo stesso nome: dal latino “Tria
Ora”, ovvero “tre bocche”, proprio come quelle del Cerbero raffigurato
nello stemma…
Triora, museo della stregoneria: maleficio sul bestiame e le bestie selvatiche
Secondo alcuni il segugio a tre
teste, mitico custode dell’Ade, starebbe a indicare i tre fiumi alla cui
confluenza sorge il borgo di pietra con il suo territorio. Per certo, il luogo su
cui sorge Triora in tempi preistorici costituì il centro d’irradiazione di riti
ancestrali in diretto contatto con l’Aldilà: tutto ciò, ben prima che nascesse
il mito delle streghe. In un’area già costellata di menhir e cerchi di pietre
(Passo delle Porte), le origini del primo centro abitato, non ancora del tutto
note, andrebbero fatte risalire prima ancora della conquista romana, all'Età
del Ferro. Non per nulla, la tradizione ci fa risalire alle tracce di una
cultura matriarcale che traeva origine dal misterioso rito celto-ligure
della dea Madre “Baubo”, raffigurata su antichissime statuette di
pietra, d’osso e avorio come una donna dalle forme molto procaci, con una
doppia fila di seni e la parte più intima a forma di fauci di lupo. Le
statuette finora trovate, sacralmente oscene ai nostri sguardi giocoforza ormai
suggestionati da secoli di cristianizzazione, anticamente venivano portate al
collo per difendere le sacerdotesse liguri da una società maschile, dedita alla
guerra, in violenta ascesa. Fu così che la dea Baubo, col passare dei
secoli e poi dei millenni, fu volgarizzata nelle vesti di “una simpatica
vecchietta” che avvertiva le fanciulle in età da marito a proposito degli
inganni insiti nella malizia sessuale del genere maschile. Da questi presupposti
si è originata una nutrita serie di storie e dicerie legate a numerose streghe
che avrebbero infestato il Ponente ligure: donne dotate di poteri stregoneschi
tramandati secondo una logica rigorosamente matrilineare. Tutte le streghe
neonate portavano come segno di riconoscimento un neo peloso in fondo alla
schiena e sembra che, quando allattate, mordessero i seni delle loro madri fino
a farli sanguinare. Di tutta la Liguria, per secoli Triora incarnò il cuore
pulsante di questi superstiziosi luoghi comuni.
Le prime fonti di Triora
medievale descrivono il passaggio del possedimento dalla potestà degli
Aleramici a quella Arduinici e poi sotto i conti di Ventimiglia. Nel 1260, dopo
un tentativo di difesa armata, Triora fu definitivamente venduta alla Repubblica
di Genova e promossa a capo di una giurisdizione che includeva tutti paesi
della valle Argentina. La popolazione rispose positivamente alle chiamate di
guerra, specie nella famosa Battaglia della Meloria del 1284, dove Triora e la
sua podesteria inviarono nel conflitto navale contro Pisa circa
duecentocinquanta balestrieri a sostegno di Genova. Ecco perché Triora poté
fregiarsi del titolo di Comune autonomo, tanto che nel XVII secolo il
parlamento generale del borgo poté redigere un proprio statuto. Se consideriamo
il gran numero di opere edilizie tuttora visibili, è certo che la dominazione
genovese assicurò per secoli al Comune di Triora un tenore di vita molto
elevato: il borgo poteva vantare la presenza di ben cinque castelli provvisti
di portali di ingresso, mura e fortificazioni. Sulla sommità del paese ancora
svetta l'antico castello voluto dai genovesi (1260), punto di importanza
strategica: il primo luogo di esecuzioni, solo in seguito spostato sulla
collina. Purtroppo, dalla fine del ‘500 Triora fu sfortunatamente segnata da
eventi poco edificanti: lo scoppio della caccia alle streghe confermò una
superstizione già da molto tempo latente.
Levitazione e altre malíe (Triora, museo della stregoneria)
Tralasciando la collegiata,
rimaneggiata nel XVIII secolo, Il numero di chiese è vasto, ma la principale
attrazione è costituita dall'oratorio campestre di San Bernardino, le cui
origini romaniche sono testimoniate dal portico d'accesso a tre fornici. Ed
ecco sopraggiungere il secondo indizio: ciò che esternamente appare come
una pacifica chiesa rustica, con un misto di orrore e incredulità svela
all’interno l’anima più cupa e tormentata di Triora.
Precedentemente dedicata a San
Gerolamo, San Bernardino ereditò il suo nuovo nome per via della furente
predicazione da parte del noto predicatore senese, volta a catechizzare le
popolazioni locali, lontane dai grandi centri culturali e proprio perciò poco
avvezze alla cultura religiosa. Ed ecco riflesse, sui lati lunghi di una
semplice aula rettangolare, frammenti di scene tratte proprio dai suoi sermoni
violenti e visionari: lo spaventoso Giudizio Universale è
un ciclo di affreschi incentrati sui particolari raccapriccianti delle
sofferenze corporali dei dannati torturati dai demoni o che, affamati dal
peccato della gola, si divorano a vicenda (nel supplizio di Tantalo, destinato
ai golosi). Il terrorismo psicologico di queste immagini pittoriche serviva a
fissare nella mente delle popolazioni incolte del Ponente quel percorso di
purificazione che le avrebbe dovute guidare alla salvezza.
Da un lato la scena
raffigurante l’Inferno, suddivisa su tre registri, rafforza l’idea di una nuova
iconografia caratterizzata dall’attribuzione, per ogni peccato, di una precisa
geografia infernale: ed ecco sfilare i “Settenari dei Vizi”, dove a ogni
punizione corrispondeva un determinato peccato. La Superbia e l’Invidia
sono raffigurate ai lati di Satana, quali cause della sua caduta, mentre l’Ira
e l’Accidia vanno a immortalare il registro inferiore, per lasciare quello
mediano a Gola, Avarizia e Lussuria. Punto di partenza di tutto ciò fu
l’antichissima riflessione di Gregorio Magno (VI sec.) per cui il castigo
andava misurato sulla base alla gravità dell’offesa «e ogni dannato sarà
tormentato dal fuoco dell’inferno secondo la grandezza e l’enormità del suo
reato».
Dall’altro lato la visione,
unitaria ed escatologica, ha per protagonista l’arcangelo Michele, impegnato
alla pesa delle anime accanto a demoni che si affannano sghignazzanti a
squartare, mutilare e amputare corpi tra fiamme e schizzi di sangue, mentre nel
pozzo infuocato cuociono immersi nel brodo ardente “fatucerie e gàzari”:
fattucchiere ed eretici catari, sullo fondo di una moltitudine di bambini
pallidi e dagli sguardi angosciati che si stringono all'ombra delle ali
spiegate di un enorme e demoniaco pipistrello. È il “sepolcro degli infanti
morti senza battesimo, detto “Limbo”, ed essi sono i bambini rapiti dalle
streghe, morti senza battesimo e sepolti nel sagrato di San Bernardino. Questa
lugubre iconografia fu ampiamente diffusa tra il Ponente ligure e le Alpi
Marittime, tra il XIV e il XV secolo, lungo le vie commerciali, da numerosi
pittori che si spostavano tra il basso Piemonte verso il territorio ligure -
nizzardo. Chi fu l’autore del ciclo? Inizialmente si propese per il pinerolese
Giovanni Canavesio, che sul finire del ‘400 dipinse tematiche analoghe a Pigna
e a Briga, sconfinando nell’attuale Costa Azzurra; attualmente gli studiosi
sono invece più propensi ad attribuire il lavoro al toscano Taddeo di Bartolo e
la sua bottega, che già avevano destato scalpore e ammirazione con scene
infernali dalla collegiata di San Gimignano.
San Bernardino di Triora, scene infernali (inizi XV sec.).
Ma soprattutto noi ci
chiediamo: com’è possibile che le streghe, raffigurate un secolo prima della
Controriforma, a Triora fossero già protagoniste? Dall’altra parte del borgo le
lunghe ombre dei muri e delle arcate che sovrastano i vicoli vanno sparendo
proprio in prossimità della “Cabotina”: luogo evitato per
eccellenza da chiunque dopo il tramonto. L’estrema propaggine meridionale del
borgo, situata a ridosso di un orrido al limitare della foresta, dove la via è
sbarrata da fitti boschi di conifere e dalla massa imponente delle Alpi
marittime, era il luogo dei sabba, delle orge in onore al demonio e delle
formule segrete. Cabotina, terrore delle madri: se allo scoccare dell’Ave Maria
i loro bambini si fossero trovati ancora fuori dalle mura, sarebbero stati
preda delle streghe e palleggiati a calci con le loro colleghe della
sottostante località dei Mulini di Triora. Di quel presunto incubo oggi resta
uno spazio cinto da case in pietra diroccate, residenza di povere contadine
che, dal tempo della grande tragedia (1587), nessuno tornò mai più ad abitare.
Delineati i contorni di un luogo tragico e mitico, accennati gli indizi e i
presunti colpevoli, spetterà ora, con gli atti del processo di Triora,
scoprire chi davvero fossero i carnefici e chi le vittime di questa truce
vicenda:
Nell’ottobre del 1587 il Parlamento locale, con approvazione del Consiglio degli Anziani e del Podestà stanziò cinquecento scudi per iniziare un processo: una cifra enorme in relazione alla condizione economica del borgo stesso. L’autorità ecclesiastica non tardò a intervenire, per mezzo del vicario dell’Inquisizione e Albenga, Gerolamo Del Pozzo. La prassi del tempo consisteva nel celebrare messa nella chiesa parrocchiale, invitando il popolo alla denuncia.
Il processo di Triora non
stupisce inizialmente per il suo corso che ricalca nella sostanza molti altri
con tutte le ripercussioni del caso. Si confiscarono alcune abitazioni private
da adibire a prigione e non tardarono ad arrivare le prime vittime della giustizia:
tra le prime venti donne incarcerate morirono la sessantenne Isotta Stella e
un’altra donna, quest’ultima nel tentativo di calarsi da una delle finestre del
carcere. Di streghe morte la storia ne è piena, ma ciò che lascia perplessi è
l’evolversi della situazione.
Scorcio di Triora
Il Consiglio degli Anziani,
essenzialmente composto dai proprietari terrieri, mostrò le sue perplessità
verso il processo quando le prime “matrone” di Triora furono incarcerate. La
delazione, gli odi e le invidie personali dilagavano a tal punto da mettere
sullo stesso piano, di fronte alla macchina della giustizia, le nobildonne come
le prostitute e le emarginate che “sopravvivevano” alla “Cabotina”: un
quartiere composto da misere abitazioni, vista precipizio, che si ergeva all’esterno
delle mura del paese.
I due inquisitori non riuscirono
a concludere il processo causa il
repentino allargamento delle accuse a tutto il tessuto sociale. Il governo di Genova intervenne
personalmente nella questione. Il vescovo di
Albenga, Mons. Luca Fieschi chiese spiegazioni al Del Pozzo sul suo
operato attraverso una missiva: forte del Consiglio degli Anziani, l’inquisitore
sosteneva la presenza del Maligno come elemento portante della sua difesa. A
questo punto gli storici, nel registrare una rassicurazione verbale da parte di
Del Pozzo sulla sorte delle nobildonne e su una sua promessa di non estendere le
accuse ai notabili del posto, ravvisano una fase di stallo.
Nel mese di giugno giunse la vera
e inattesa svolta della vicenda. Il giorno 8 giunse a Triora, mandato da
Genova, il commissario speciale Giulio Scribani: costui dopo un mese,
dichiarando di voler “smorbar di quella diabolica setta questo paese che resta
quasi per tal conto tutto desolato” inviò nelle carceri genovesi tredici donne
e il solo uomo che giacevano nelle prigioni trioresi al suo arrivo. Da qui in
poi sarà un escalation di arresti e torture.
Nei mesi successivi lo Scribani
imperversò in tutta la zona aprendo nuovi casi e facendo morire donne innocenti.
Di fronte alla richiesta del via libera per decine di condanne a morte, il Doge
iniziò a nutrire i primi dubbi sull’operato del commissario: perplessità che
sfociarono in una richiesta allo Scribani di attenersi alle confessioni e soprattutto
di provarne la veridicità con riscontri reali e plausibili. Quando fu chiaro
che lo Scribani era ormai un cane sciolto, Genova affidò la revisione del
processo all’uditore e consultore Serafino Petrozzi che sottolineò come lo
Scribani si fosse interessato a reati
connessi alla stregoneria, materia di esclusiva competenza dell’Inquisizione.
Ma anche il Petrozzi concluse la sua relazione dicendo che la questione era
troppo delicata e la possibilità di commettere errori elevata. In pratica se ne
lavò le mani. Lo Scribani nel frattempo continuava a incarcerare donne e a
difendersi dalla critiche con numerose lettere.
Genova, seguendo una tragica
prassi burocratica, affiancò al Petrozzi due giureconsulti: Giuseppe Torre
e Pietro Allaria Caracciolo. La
situazione divenne paradossale: i due nuovi revisori dopo una breve analisi del
caso si dichiararono concordi con lo Scribani e convinsero anche il Petrozzi.
Lo Scribani si sentì così
autorizzato a proseguire; a Triora e nei borghi confinanti come Andagna, Bajardo,
Montalto Ligure si registrarono le morti di tante innocenti.
Prima di vedere uno spiraglio si
dovranno attendere mesi. Lo Scribani per il suo scellerato operato subì la
scomunica da parte dell’Inquisizione stessa, rimessagli poi, per intervento del
Doge, il 15 agosto 1589.
San Bernardino di Triora, la struttura tardo romanica con vestibolo (XIII sec.).
Il 28 aprile 1589 fu la Chiesa a
dare un segnale di speranza concreto: i cardinale Sauli e quello di Santa
Severina ingiunsero di chiudere i processi e per la prima volta, come si legge
nella loro missiva, le streghe di Triora vennero chiamate “sudditi della
Signoria” restituendo, almeno a parole, dignità alle innocenti. Che fine fecero
le streghe di Triora? Morirono in carcere o furono liberate?
Da qui in poi il loro triste
destino sprofonda nell’oblio del tempo per la mancanza di documenti.
Sulla fine della vicenda gli
storici si sono espressi in maniera differente. Alcuni sostengono che le donne
rinchiuse a Genova furono liberate: Su quelle incarcerate a Triora si sa ben
poco. Alcuni ipotizzano che siano state liberate e che abbiano partecipato alla
costruzione di quel convento di San Francesco i cui lavori iniziarono nel 1592
e terminarono nel 1595.
Triora, museo della stregoneria
Al di là della drammaticità della
vicenda le ipotesi più recenti sul processo hanno portato all’esame di alcune
grandi anomalie che farebbero pensare che dietro all’accusa di stregoneria, il
grande processo servì a nascondere situazioni al limite della legalità che
vedevano il coinvolgimento delle stesse famiglie nobili di Triora.
Ecco qui di seguito alcuni punti
sui quali gli storici si sono soffermati in questi anni:
- Per anni la causa del processo
fu imputata ad una carestia che perdurava dal 1585; ciò sembrerebbe
improbabile, vista la nomea di “granaio
della repubblica” che Triora godeva a quei tempi. Si è pensato quindi ad una
manovra speculativa dei latifondisti trioresi interessati all’innalzamento del
prezzo delle derrate alimentari da rivendere a Genova, derrate però che non
riuscivano più ad essere acquistate dai propri concittadini. In questo caso le
streghe sarebbero state un capro espiatorio perfetto. Tra le accuse mosse alle
streghe compare spesso quella di infanticidio. Dall’analisi del Liber Mortuorum
et Baptizatorum di quegli anni non si rileva un innalzamento della mortalità
infantile. L’ipotesi più credibile è quella della presenza di esperte levatrici
che spesso si vedevano costrette a somministrare battesimi non ufficiali prima
di dare sepoltura ai bambini nati morti, a loro volta sepolti sul sagrato della
chiesa di S. Bernardino. Questa diffusa
pratica, mal tollerata dalla religione ufficiale, potrebbe essere una delle
cause dell’odio scatenato verso queste donne che conoscevano le proprietà
curative delle erbe medicinali.
Così terminano le tristi vicende della Salem italiana. Nonostante tutto, sul processo grava ancora un alone di
mistero tale da aver materializzato, nei decenni successivi, un’ipotesi
intrigante sulla possibilità che le vere streghe di Triora fossero fuggite in
un paesino dell'entroterra genovese chiamato San Martino di Struppa, poiché nei
primi anni del Seicento nei registri parrocchiali del luogo iniziarono ad
apparire cognomi singolari e forestieri come Bazoro, Bazora, Baggiura o
Bazzurro, che richiamano la forma dialettale triorese della strega.
Triora, ruderi di S. Caterina
“Il suo corpo candido e
innocente talvolta appare tra il castello e il fortino di San Dalmazio. Nelle
notti di luna io andavo proprio lì, alla Cabotina, dove la vedevo sempre, col
suo vestito bianchissimo…quel suo sudario di tortura e sofferenza. Splendeva di
una luce bianca diffusa ed era così bella che sembrava la bellezza sempre
sognata. Mi parlava con il vento e io ascoltavo senza comprendere le sue parole
che avevano un suono dolcissimo: sembrava quasi rivolgersi a tutti quei giovani
di Triora che ancora credevano nell'amore, in quell'amore eterno che può
continuare oltre la vita. Le streghe di Triora sono state i nostri sogni di
gioventù, le nostre illusioni, la nostra forza per superare le guerre e la
morte. Ora sono il ricordo di tante sere d'estate sugli spalti del castello,
davanti al verde senza fine dell'alta Valle Argentina, quando sognavamo una
vita senza distruzioni: il desiderio poter vivere in pace, tra le nostre dolci
streghe che i turisti non potranno vedere mai, perché sono solo dentro di noi.”
Triora, ruderi di S. Caterina
Marco Corrias
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AA.VV – Triora, Pese delle
Streghe e dei vicoli tortuosi, 1998
AA.VV – Quaderni del
Bobbio, Rivista culturale, Rivista di approfondimento
culturale dell’I.I.S. «Norberto Bobbio di Carignano, N. 2 anno 2010
AA.VV – Touring Club italiano, i
borghi più belli d’Italia , guida 2006
M. Centini – La Preistoria
in Liguria, 2008
I.E. Ferrario - Triora, Anno
Domini 1587. Storia della stregoneria nel Ponente Ligure. 2005
F. Ferraironi - Le streghe e l'inquisizione, 1955.I. Manfredini – Il Giudizio universale in San Bernardino a Triora, 2007
F. Ferraironi - Le streghe e l'inquisizione, 1955.I. Manfredini – Il Giudizio universale in San Bernardino a Triora, 2007
M. Ricchetti – Liguria
sconosciuta, 1983
D. Tacchino – Liguria nascosta e
dimenticata, 2008
LETTO TUTTO D'UN FIATO...ARTICOLO DI MARCO CORRIAS...GENIALE MAI PESANTE...CON APPUNTI STORICI ACCURATI E RIFERIMENTI ALLE TRADIZIONI ED ALLA MITOLOGIA DI QUELLE GENTI VERAMENTE ESAUSTIVI...UNA VENA POETICA PERVADE TUTTO L'INSIEME CHE SI PUO' LEGGERE ANCHE COME UN ACCURATISSIMO ROMANZO BASATO SU CRUDE VERITA'...VERAMENTE BELLO...
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