domenica 24 luglio 2016

Giovanpaolo Lomazzo: genio ribelle al tempo dell'inquisizione

Parte 1a. Dagli esordi a cecità sopravvenuta: castigo divino?

G. P. Lomazzo, Cappella Foppa (Milano, S, Marco, 1570) 


Fra il quinto e il sesto decennio del ‘500, persa la propria autonomia a causa dell’annessione spagnola, il Ducato di Milano aveva vissuto grandi mutamenti per opera del governatore mantovano Ferrante Gonzaga: particolarmente famose per fasto furono le feste per lo sposalizio della figlia Ippolita con il nobile romano Fabrizio Colonna, celebrate nel 1548 in presenza dell’imperatore Filippo II di Spagna.
In quest’età di mezzo il “Manierismo” imperante, ossia uno stile rinascimentale colto e perfezionato dalle scoperte forestiere di Michelangelo e Raffaello, ma ormai dilatato verso esiti estremi e imprevedibili, visse uno scontro diretto con le istanze artistiche lombarde che artisti milanesi come i figli del Luini, il Figino e avevano ereditato da Leonardo, da Gaudenzio Ferrari e dagli artisti del nord Europa.

                       G. P. Lomazzo. Autoritratto in veste dell'abate dell'Accademia della val di Blenio (Milano, Brera, 1568)

Trattatista e pittore, Giovan Paolo Lomazzo (1538 - 1592), personaggio tra i più bizzarri della nostra Storia dell’Arte, visse in prima persona proprio questo conflitto storico e artistico, che vide come sua prima espressione la “decorazione a grottesche”.

Allo scopo di emulare il lusso dei nuovi signori, la nobiltà cittadina fece affrescare i propri palazzi con la ripresa di tematiche mitologiche alla moda, contornate da ricche “decorazioni a grottesca”: coloratissime rappresentazioni costituite da arpie, chimere e altre creature mitologiche, trattate a mo’ di schizzi compendiari entro decorazioni geometriche e naturalistiche, allo scopo di riempire gli spazi lasciati vuoti con intrecci geometrici. Questi riempitivi pittorici, sperimentati per la prima volta da Raffaello nella loggia romana di Psiche, il “gran pittore ruinante” le aveva apprese a sua volta attraverso lo studio di antiche pitture romane: in primis, nella “Domus Aurea” dell’imperatore Nerone. 


Aurelio Luini - Sperimentazioni grottesche sulla fisiognomica leonardesca

L’adesione e la commistione di nuove idee portò alla proliferazione, in ambito lombardo-piemontese, di una nuova pittura azzardata: il manierismo, di cui appunto la grottesca fu una delle manifestazioni esteriori più appariscenti. Inteso dal Vasari, primo grande critico d’arte e pittore fiorentino del ‘500 come “Maniera Moderna” ossia quella pittura scaturita da Michelangelo e Raffaello, grandi maestri del Rinascimento, presto il Manierismo assunse una definizione più corretta proprio grazie al Lomazzo: inteso non tanto come un nuovo stile, quanto come tendenza pittorica tesa alla continua ricerca di grazia ed eleganza artificiosa, con esiti decisamente innaturali ma raffinatissimi. Espressione tipica di questo stile era la figura "serpentinata": un modo di rappresentare il corpo umano contrapponendo le membra in torsioni a vite, che esaltava come non mai l'espediente classico del contrapposto. Il Lomazzo stesso osservò che "le figure somigliano alle tortuosità di una serpe quando cammina, che è la propria forma de la fiamma nel foco che ondeggia: il che vuol dire che la figura ha di rappresentare la forma de la lettera S".


Agnolo Bronzino - Allegoria del Trionfo di Venere (Firenze, Uffizi, 1540–46)

Nulla di più azzeccato. Sperimentata inizialmente da Michelangelo e poi ampiamente riutilizzata, la figura serpentinata rappresentava la "licenza" rispetto alla regola normale, poiché le membra umane, pur trattate in maniera verosimile, raggiungevano pose innaturali.

In questo ambiente il Lomazzo assistette anche alla nascita delle bizzarrie pittoriche del celeberrimo Giuseppe Arcimboldo: proprio in quegli anni (1560), prima di trasferirsi a Vienna e poi a Praga presso la corte dell’eccentrico Rodolfo d’Asburgo, il suo concittadino stava elaborando un’avveniristica fusione del tutto originale tra la tradizione carnevalesca popolare e gli schizzi grotteschi lasciati da Leonardo: artificiose rielaborazioni del dato naturale attraverso composizioni ritrattistiche composte di fiori, frutta e perfino animali. Erano i famosi cicli comico-allegorici delle “Stagioni” e degli “Elementi”.


G. Arcimboldo, ritratto vegetale di Rodolfo II d'Asburgo in veste di Vertumno (Svezia, Castello di Skoklosters, 1591)

L’incontro-scontro tra arte e natura stava forgiando idee ormai di stampo anti-rinascimentale. Questa contrapposizione, anche dal punto di vista sociale, portò al ripudio di quel sistema di leggi universali ereditato dall’ormai lontano Medioevo: il decentramento della visione religiosa del mondo a favore dell’attenzione verso il particolare, l’infinita verità della natura e la singolarità degli individui della più disparata estrazione sociale, con i loro costumi e affetti.
Con l’interesse per la natura nacque anche quello per la magia, l’esoterismo, l’astrologia e l’osservazione della psiche umana: una complessa ricerca di verità e varietà che avrebbe prima o poi portato verso la maturazione dell’estetica barocca. 



G. F. M. Mazzola detto il Parmigianino, a "Madonna dal Collo Lungo" (Firenze, Uffizi, 1534-40)

Il Lomazzo svolse un ruolo da mediatore tra queste influenze: eppure, non senza incongruenze, lo studioso andò esaltando la presenza di dipinti di Arcimboldo sia per le collezioni imperiali, sia per gli alberghi e le osterie. Alla stessa maniera l’architetto e scultore Pirro Ligorio sdoganò la grottesca come nuovo “linguaggio universale, utilizzato tanto nei luoghi più nobili quanto nelle latrine.”  Perfino le insegne papali, negli anni ’50 del ‘500, erano avvolte da grottesche: ma i tempi stavano velocemente cambiando. 


Villa Litta Borromeo di Lainate  (Milano). Grottesche seguite da Camillo Procaccini (1587-9)

Sotto l’improvvisa pressione della Controroforma, scaturita come reazione all’altrettanto violenta Riforma Luterana, l’Italia nord-occidentale iniziò a vivere un momentaneo periodo d’involuzione culturale e carenza d’inventiva. Divenuto arcivescovo di Milano nel 1564 Carlo Borromeo, uomo dotato di pregi e virtù ma anche di noti difetti, spinto dalle difficoltà dell’epoca mosse un attacco frontale al manierismo e alle grottesche, “pitture ridicole” e dal valore demoniaco e trasgressivo che lo stesso giovane Lomazzo in quegli anni aveva elaborato a bottega presso gli ultimi allievi di Gaudenzio Ferrari.


Villa Litta Borromeo di Lainate  (Milano). Grottesche seguite da Camillo Procaccini (1587-9)

Torniamo indietro, agli esordi del Lomazzo, e capiremo cosa c’entrasse con tutto questo: in verità vi era immerso fino al collo. Dopo aver esordito nel Varesotto con gli affreschi di Caronno Pertusella del 1560 a cui seguì una formativa parentesi piacentina, il milanese tornò a lavorare in pianta stabile nella sua città natale con un gruppo di opere sperimentali quanto poco note (l’Orazione nell’Orto di S. Carlo al Corso e le Stigmate di S. Francesco in San Barnaba, entrambe datate 1568). In queste tele andò collaudando rigidi criteri stereometrici, volti alla creazione di modelli per figure umane già pronte; i suoi sfondi erano già avvolti in un tenebrismo di matrice lombarda, anticipatore delle future soluzioni del Caravaggio!


G. P. Lomazzo, Orazione di Cristo nell'Orto (Milano, san Carlo al Corso, 1558)

Alla perdita, causata dai bombardamenti della Guerra, di un certo numero di pale d’altare, sopperì la grande impresa realizzata nella Cappella Foppa (1570-1) nella basilica di San Marco, l’opera più complessa del Lomazzo: il banchiere Agostino Foppa aveva scelto il pittore, allora appena trentasettenne, perché affrescasse la prima cappella a destra della chiesa di S. Marco, attualmente a pochi metri da Brera, al fine di trasformarla in un mausoleo di famiglia.
Quivi l’artista mise da parte il suo precoce e innovativo tenebrismo a favore di cromie più intense e vivaci: con un “michelangiolismo” corsivo e colorista, adatto a esibire arditissimi scorci sulle volte e nell’abside della cappella, il milanese seppe reinventare da capo il suo stile pittorico. A dire il vero, le più grandi sperimentazioni dell’artista, quelle teoriche e trattatistiche, erano state messe tutte da parte con l’avvento di Carlo Borromeo quale arcivescovo. In una città come Milano, divenuta roccaforte dell’ideologia controriformata più puritana e intransigente, le idee fuori dagli schemi andavano cestinate. Per far capire meglio che aria tirava, basti dire che Pellegrino Tibaldi, architetto preferito dell’uomo di Chiesa ma anche grande pittore, avrebbe potuto tramandare le meraviglie del suo pennello ai posteri soltanto con il trasferimento nella più moderata Bologna:

“E’ ben vero che messer Pelegrino voleva che si facessero pingere cieli et si facessero li frisi di pittura a tutte quelle stanze che saranno per servitio di Vostra Santità” scriveva a Carlo un suo seguace, a cui egli gli rispose “non vi voglio né pitture né fregi né altri ornamenti”.


Daniele Crespi, Il digiuno di San Carlo (1625, Milano, S. Maria della Passione)


Agli eccessi pauperistici della Riforma la Controriforma rispondeva con la stessa moneta: austerità assoluta.
Di fronte alle regole e alle censure imposte dal Borromeo. Lomazzo dovette mettere da parte non solo le grottesche, ma soprattutto la maggior parte dei suoi celebri Trattati e delle sue idee pazzamente anticonformiste, altrimenti passibili di essere messi all’indice. Aurelio Luini, figlio del famoso Bernardino, era addirittura incorso in una censura, tanto che per alcuni mesi (1581) gli era stato impedito di dipingere. Presto anche la festa di Carnevale, tipicamente di gusto pagano, sarebbe stata vietata: ma ogni azione ha spesso le sue motivazioni, e tutto ciò lo vedremo in futuro, in un articolo dedicato alla personalità controversa e dibattuta di San Carlo Borromeo, spiegata e analizzata da un punto di vista genuinamente storico e politico. 

Tornando al Lomazzo alle prese coi pennelli in quel di Milano, sulla parete di sinistra della cappella Foppa è inscenata la caduta di Simon Mago: l’eretico per antonomasia. La composizione appare violentemente affollata: è un groviglio di corpi compressi in uno spazio ristretto, dove il trattamento dei personaggi, scenograficamente chiusi da monumentali architetture e logge aperte su scorci arditi, accentua il sottinsù della narrazione. Figure dai corpi geometrizzanti mostrano svariate tipologie facciali vivacemente espressive, secondo un repertorio che porta agli estremi la deformazione dei volti, tipica del tardo ambito leonardesco: non va dimenticato l'influsso del lato “grottesco” dell'eredità del grande toscano, cui Lomazzo e compagni spesso trassero ispirazione. Sui pennacchi e sulle volte campeggiano immagini di profeti e sibille; nel catino absidale un fitto vortice di cherubini sovrasta una pala, anch’essa del Lomazzo: una bella Madonna con Bambino, di sapore ancora Leonardesco ma dal fondale tenebroso. Nel catino absidale, nella Gloria d’Angeli, le regole basilari del Rinascimento sono del tutto stravolte, a favore di uno sfondato prospettico e turbinoso che prelude al Barocco. La parete di destra (San Paolo resuscita Eutico), invece, è pressoché illeggibile a causa d’infiltrazioni di umidità dovute al vicino naviglio coperto, che resero necessari seri interventi di restauro al fine di mettere in salvo l’intera cappella. I lavori si sono stati portati a termine tra il 2002 e il 2003.

G. P. Lomazzo, Madonna dell’Apocalisse (Santuario di Busto Arsizio)


La presa di posizione del pittore, solo apparentemente allineato sui temi scelti dalla Controriforma, è apparentemente chiara: la caduta dell’eretico, che si staglia in cielo in tutta la sua drammaticità, contrasta con la scena a lato del vero credente, che vince la morte per mezzo della Fede. Perché la rappresentazione s’incentrò proprio sulla caduta di Simon Mago? A chi spettò la scelta iconografica?

Spieghiamoci meglio: chi fu Simon Mago? Secondo tradizione fu il primo grande eretico che, colpito dalle abilità oratorie dei primi seguaci di Gesù Cristo, dopo aver ottenuto il battesimo cercò di comperare da Pietro apostolo il potere di amministrare anch'egli con la semplice imposizione delle mani lo Spirito Santo; da questo antico tentativo di commercio di cose sacre deriva il termine simonia: uno dei più gravi reati della Chiesa del Rinascimento, che San Carlo non a caso voleva stroncare.

G. P. Lomazzo, Cappella Foppa (Milano, S, Marco, 1570) 

Ma Simon Mago fu anche il primo fondatore di una setta “gnostica”, (dal greco “gnosis” ossia conoscenza). Gli gnostici sostenevano che Simone fosse la vera reincarnazione di Dio, inviato a salvare il mondo dal cattivo governo degli angeli, primo fra tutti il Dio dell'Antico Testamento, il severo e impietoso Jahvè. Per spiegare la crocifissione di Gesù, Simone affermò che tale avvenimento era stato solo apparente, perché Gesù non fu mai crocifisso, così come Simone sosteneva di se stesso, di essere uomo solo in apparenza, ma Dio nella realtà.

Al centro della fede vi era un nuovo livello di conoscenze che mescolavano misticismo, filosofie greche e pratiche orientali di origine persiana, alla ricerca di una “vera conoscenza” che trascendesse la caducità della vita umana: quella stessa conoscenza che il malefico Jahvè aveva impedito ad Adamo ed Eva, impedendo loro di mangiare il frutto ed esiliandoli dal Paradiso perduto. Forse proprio per questa ricerca di conoscenza mista a edonismo, intesa come vivere la propria vita fino all’ultimo invece di sprecarla, Simone e i suoi seguaci furono accusati anche di oscenità per via di presunti riti a sfondo sessuale.

E che dire del Lomazzo che eseguì tale scena affrescata? Il suo ravvedimento non deve trarci in inganno. Figlio di un’epoca bizzarra e fantasiosa tutta tesa alla ricerca di “un nuovo livello di conoscenza”, Lomazzo si finse un convinto praticante controriformato soltanto per convenienza; anzi, lui stesso era capogruppo di una “società segreta” dionisiaca, goliardica e filosofica di artisti di diversa provenienza, nascosti dietro maschere e pseudonimi. Ma chi erano? Come si chiamavano e dove praticavano i loro riti misterici?
All’età di quarant’anni, da poco conclusa la cappella Foppa, il destino del Lomazzo come pittore era già segnato. Nel 1572 un amico, il noto chirurgo Gerolamo Cardano, gli diagnosticò una grave malattia oftalmica a causa della quale Giovan Paolo avrebbe per sempre perso il dono della vista. Forse Dio l’aveva punito, proprio come Simon Mago il quale, nel suo delirio d’onnipotenza, durante una dimostrazione di levitazione al Foro Romano dinanzi all'imperatore Nerone, precipitò nel vuoto rompendosi le gambe e fu pubblicamente lapidato dalla piazza? Oppure visse una seconda vita, ottenebrato nella vista ma illuminato dalla vera conoscenza?



                                                                                                  Marc Pevèn (pseud. Marco Corrias).

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