Agli inizi del Medioevo, dopo il crollo
dell’Impero Romano (476 d.C, data canonica) il re degli Ostrogoti Teodorico il
Grande, messa insieme un’orda di popoli barbari stanziati in Europa dell’est attraversò
i Balcani con il consenso dell’imperatore d’Oriente Zenone e, collezionata una
vittoria dopo l’altra, approfittando della crisi generale in cui versava
l’Occidente penetrò con facilità in Italia.
Nel 493 il condottiero affrontò il
nemico Odoacre, re degli Eruli, degli Sciri e di altre genti delle steppe in una
serie di scontri; sull’Isonzo, a Verona e sul Fiume Adda (489) e a seguire in
un epico assedio sotto le
mura di Ravenna: forse proprio quello che i bardi delle saghe germaniche cantarono
per secoli col nome di “Battaglia dei Corvi”. I due si erano già
incontrati una
volta, quando Teodorico aveva sterminato la gente di Odoacre nei
Balcani. Il re degli Eruli, vistosi continuamente sconfitto si
asserragliò
nella città, invano: Ravenna fu presto espugnata da un’orda 20.000
guerrieri
ostrogoti armati fino ai denti di scudi tondi, lance e cotte di maglia
ad
anelli. Per il bene del Paese, il senato romano propose ai contendenti
di
governare in coppia, secondo un modello simile a quello antico
consolato: all’aristocrazia
italica importava stabilire una tregua tra nemici in casa propria, non
certo di
assistere impotente a una carneficina che avrebbe coinvolto anche i
romani. Ma Teodorico non restò a guardare:
l’anonimo cronista Valesiano riferì che nel corso del banchetto della
riconciliazione l’Ostrogoto si sbarazzasse del concorrente trafiggendolo alle
spalle con la sua spada. Proprio in quel frangente il futuro re d’Italia esclamò:
“pare che la canaglia non abbia ossa in
corpo”. Da quest'episodio sarebbe derivato un celebre proverbio,
rimasto in vigore per diversi secoli: “a tavola non si invecchia!”
Ravenna, S. Apollinare Nuovo: palazzo di Re Teodorico
Il nuovo rex gentium dovette apparire terribile agli occhi degli italici: era un uomo imponente, molto più alto della media e dalle spalle ampie, coperto di pelli di fiere non conciate su cui spiccava un pettorale d’oro lucente, una cintura di cuoio borchiata e fibbie, a sostenere una spada riposta nel fodero di cuoio con inserti di placche e pietre preziose di moda unna. I capelli ricciuti gli cadevano sulle spalle; una folta barba gli incorniciava il volto facendo risaltare gli occhi dallo sguardo penetrante, mentre reggeva le briglie del suo possente cavallo da battaglia.
“Io vengo a parlare con voi che siete dominatori del mondo, e intendo costruire insieme un assetto pacifico”. Queste le prime parole del re, tramandate dai posteri. In effetti, il civilissimo “barbaro” conosceva il greco e il latino alla perfezione: li aveva appresi negli anni dell’infanzia, che aveva vissuto come ostaggio politico alla corte di Costantinopoli. Da quando iniziò ad assaporare il sogno del potere, non più soltanto sui un clan di popoli in continua marcia, bensì sull’antico e prestigioso impero Romano, si iniziò a sussurrare che Teodorico avesse dismesso anche troppo presto gli usi e i costumi del suo popolo, per indossare la porpora degli antichi Augusti. Fu cosí che Teodorico si proclamò coraggiosamente "re dei goti e dei romani". Rimasto senza concorrenti e stabilito il proprio regno in Italia, il re ostrogoto fu accolto pacificamente e riconosciuto dal vescovo pavese Epifanio, che fece atto di sottomissione nel nome dell’imperatore d’Oriente. Tutto ciò accadde senza che Teodorico disconoscesse il paganesimo odinico e l’eresia, tanto diffusa tra i barbari, dell’arianesimo, che considerava Cristo solo un uomo, sebbene profeta, e non il figlio di Dio, negandone la consustanzialità. Sotto di lui vi era libertà di professare qualsiasi credo: nelle città più importati del regno, al tempo situate in nord Italia per motivi strategici, Teodorico fece erigere cattedrali gemelle: una destinata al culto ariano, l’altra ai cattolici (allora chiamati ortodossi o niceni, per via del primo concilio di Nicea). In quest’epoca di pace tra germani e italici anche gli ebrei erano benvoluti e rispettati, senza alcun attrito. Desiderando accrescere il nome di Roma antica ed essere ricordato dai posteri, Teodorico si fece fautore di molte opere pubbliche di restauro in tutta Italia e confermò Ravenna capitale, promuovendo la costruzione di opere pubbliche come il grande Palazzo Reale, Sant'Apollinare Nuovo e il noto mausoleo e la ristrutturazione di altre. Anche Pavia e Verona, sedi alternative del regno, erano provviste dei rispettivi palazzi. A proposito di Pavia, detta allora “Ticinum” per via del noto fiume che ancora lambisce la sua sponda sinistra, il leggendario sovrano ne intuì da subito l'importanza strategica e commerciale, in prossimità della confluenza col fiume Po e al centro di una delle più ricche aree agricole della pianura Padana. Grazie agli opportuni restauri promossi dal saggio sovrano, la città dalla rosse mura cominciò a prosperare. Il luogo più prestigioso dell’antica Ticinum restava il centro: quello stesso nucleo, inizialmente delineato dai Romani con un foro, un cardo e un decumano e che in seguito sarebbe divenuto cittadella longobarda: quasi una contrada privata, poi conosciuta col nome di "faramannìa" e accessibile solo ai guerrieri di nobile stirpe germanica, esperti nell'uso delle armi. Ma questa un’altra storia…
Tornando ai nostri Ostrogoti, tutt'attorno
a Pavia essi avevano riparato la cinta fortificata di mura tardoromane,
restaurandole con uso di materiali di reimpiego: cippi, miliari e lastre funebri dalla
città morta. I frammenti di spoglio furono rozzamente incastonati tra le mura
laterizie, esibiti a memoria di un passato ricco e glorioso, ma anche al fine
tutelarsi dagli improvvisi assalti dei Romani d’Oriente: quegli stessi bizantini che
avevano dato a Teodorico l’ordine di calare in Italia e che ora lo minacciavano
con i loro cruenti mercenari orientali. Una cinta tanto imponente impressionò
molti autori ancora nel tardo Medioevo, tanto che il pavese Opicino de'
Canistris descrisse meravigliato il suo notevole spessore, intervallato da nove
grandi porte urbiche.
I
quartieri a ridosso delle mura dovevano essere terra di nessuno: la città
alto-medievale si presentava come un dominio senza padroni né leggi, dove ratti
e altre creature senza nome scivolano nei rifiuti e tra liquami di scolo usciti
dall’impressionante labirinto delle fogne romane, miracolosamente rimaste in
funzione. Con la complicità della decadenza urbana, la selva di viuzze e
mattoni a ridosso delle mura antiche era diventata un regno d'ombre, territorio
di caccia per volpi, furetti, faine e altre bestie selvatiche in cerca di cibo:
quasi una seconda casa per le bestie della brughiera. Il lupo stesso costituiva
un possibile incontro in città, nelle ore notturne…
Elmo ostrogoto, varietà "spangenhelm"
Al calar della sera, infatti, ben pochi
avevano il coraggio di uscire dalle loro capanne. Bestie, briganti e spettri
dell'inconscio erano in agguato, ovunque. Murato nella cinta esterna si ergeva
un baluardo poligonale, dotato di scabre feritoie: la torre delle Carceri (II-III sec. d. C).
"Desueta"
e "strana", come la ricordano gli affascinati osservatori del
Rinascimento, la torre era parte di un vero e proprio castelletto e presentava
enormi statue virili su più livelli: collocati sugli spigoli, con le braccia
alzate sul capo, i telamoni ignudi del terzo piano sostenevano i filosofi
panneggiati che si sporgevano dal quarto; l’insieme delle figure marmoree,
pallide e verdi di muschio come larve, alimentava un forte senso
d'ansia agli occhi di chiunque vi passasse accanto. Secondo alcune
ipotesi la torre delle Carceri sorgeva a nord, presso l'agro Calvenzano, allora
soltanto una paludosa area infestata dalla malaria. Il corpo di fabbrica
presentava affinità con altre torri tardoromane dell’Italia settentrionale,
come quella di san Secondo d'Asti e porta Palatina a Torino. Proprio la sua
resistenza nei secoli le valse il leggendario nome di "Torre di
Boezio." Perlomeno, prima dell’abbattimento, effettuato nel XVI secolo.
Boezio.
Chi fu costui? Lo vedremo tra poco.
Ritorniamo a Teodorico, detto anche l’Amàlo,
in virtù della schiatta germanica di sangue blu a cui apparteneva: fu più romano
o più barbaro? Fu re o imperatore? Egli fu tutte queste cose insieme. Forse, più correttamente, Teodorico il
Grande fu l’ultimo imperatore e il primo re d’Italia. Perfino il suo stesso
tragico destino mescola i tratti della tragedia greca a quelli un
guerriero germanico.
Giunto ormai alla veneranda età, si dice
che il sovrano, incanutito, fosse diventato sempre più cupo e diffidente: privo di
eredi maschi, non era riuscito a concludere una serie di ambiziose e
lungimiranti alleanze diplomatiche con gli altri regni barbarici del
continente; i numerosi matrimoni combinati tra le sue numerose figlie e i re
dei Franchi, dei Burgundi, dei Vandali d’Africa e dei suoi stretti parenti
Visigoti di Spagna si erano tramutati in un fallimento. Il sogno di dare vita a
un grande impero Romano - barbarico si era spento per sempre, come la fiammella
di una lucerna di terracotta. Teodorico lo sapeva, la fine era prossima: il suo
regno, un castello di carta. Forse il “calabrese” Cassiodoro, fine letterato, fidato
consigliere e cronista delle sue gesta eroiche, in quel di Ravenna iniziava già
a sussurrargli all’orecchio malevoli voci di palazzo: progetti legati alla sua
morte imminente: sospetti d’intrighi e cospirazioni…
Il nuovo imperatore d’Oriente, Giustino
I, che aspirava a una nuova politica imperiale anche col pretesto delle questioni
religiose che agitavano il Cristianesimo, proprio allora aveva inaugurato una personale
crociata contro l'arianesimo, visto come fede inconciliabile e pericolosa per
il crescente potere della Chiesa romana. Fedele a questa linea di ostilità nei
confronti dell'eresia ariana, nel 524 decretò che i luoghi di culto ariani
fossero chiusi e consegnati al papa. Il complotto tra il vescovo di Roma,
l’imperatore bizantino e l’aristocrazia latina d’Italia era ormai nell’aria.
Fibbie alveolate ad aquila: tipica oreficeria ostrogota
Non
a caso, proprio in seguito a una retata pavese il magistrato Cipriano riuscì a sequestrare
per conto del re un plico di epistole: corrispondenza segreta, diretta alla corte
di Costantinopoli. Era la prova schiacciante di un vero e proprio complotto,
tramato dal patrizio romano Albino ai danni del regno e del suo sovrano. Prestò
Teodorico riuscì a risalire all’identità di tutti gli altri cospiratori, o
presunti tali.
Tra di essi risultó anche Simmaco, brillante uomo di lettere e suddito
tra i più cari al sovrano: la pena prevista per i casi d'alto tradimento
era la morte.
A quel punto intervenne Manlio Torquato Severino Boezio:
forse fu il più grande letterato e filosofo di tutto l'alto Medioevo, aveva
fatto parte egli stesso di quell’élite di politici, letterati e consiglieri
romani di cui il nuovo sovrano amò circondarsi negli anni più splendidi del suo
dominio (480-525 d.C).
Boezio espose se stesso e tutto il
Senato nella difesa dei suoi amici e colleghi. Tutto fu vano. Nuove accuse basate su ulteriori
lettere inchiodarono Boezio come fervente sostenitore della necessità di "restaurare
la libertà di Roma". Accusati di simpatizzare per l'imperatore bizantino
Giustiniano e sospettati di tramare ai danni del re, gli insigni uomini di
Stato furono messi dietro le sbarre.
Nel tempo in cui, si usa dire, ai Goti
spettavano le armi di ferro e ai Romani quelle della Legge, Teodorico,
lasciando Boezio al giudizio dei suoi stessi connazionali, se ne lavò le mani.
Il filosofo, infatti, fu giudicato a Roma da un collegio di cinque senatori
estratti a sorte e presieduto dal prefetto Eusebio. Boezio fu presto sostituito
nella sua carica da Cassiodoro e incarcerato a Pavia: sul suo capo pendeva non
solo l’accusa di alto tradimento, ma perfino quella di praticare arti magiche. Nel
giorno della sua incarcerazione, a Boezio la torre delle Carceri presso borgo
Calvenzano dovette sembrare, nella bruma, come un agglomerato di mattoni rossi,
anneriti dagli incendi delle guerre sostenute contro gli eruli e i bizantini.
Macchie d'umidità, puzzo di muffa, ragnatele; scale rotte e crepate. Eppure
l'edificio pareva vivere di vita propria: il suo respiro, lento e regolare, si
muoveva a ritmo con la putrida notte circostante. Il filosofo, forse rinchiuso
all'ultimo piano di quella torre che spuntava come un pallido fungo nella
silenziosa e macabra plaga rurale dovette sentirsi isolato dal mondo: gufi,
civette e altri animali notturni allora ritenuti stregati e forieri di sventura,
nei, si mandavano richiami
continui tra le torri e i sottotetti.
Ravenna, battistero degli ariani
In un anno di prigionia Boezio ebbe
tutto il tempo per soffrire e pensare all'accaduto. Affranto e deluso
dal suo re, invocò più volte le muse nell'irrealizzabile sogno di esser
portato via da quel luogo cupo. Da parte sua re Teodorico, ferito
nel suo intimo orgoglio, non volle mai più rivederlo. L’epoca d’oro che aveva
visto convivere romani e barbari sotto lo stesso tetto stava per giungere al
suo tragico epilogo. Il primo re d’Italia, ingrigito dagli anni e dalle
delusioni, covava ira e dolore nel nobile petto: forse che il furore barbarico
di mille battaglie, quello stesso desiderio di sangue ispirato dal dio Odino
che l’aveva accompagnato agli esordi della sua carriera stesse tornando a
reclamare vittime?
In un giorno di prigionia come tanti altri Boezio
giaceva nella sua cella, senza speranza per il futuro, quando all’improvviso una donna bellissima apparve ai
suoi occhi: reggeva nella mano destra dei libri, nella sinistra uno scettro.
Era la personificazione della Filosofia, potenza consolatrice delle
sventure umane, o forse un angelo?
Probabilmente, entrambe le cose. Fu così che il pugno di Severino Boezio, guidato dalla mano delicata di uno spirito gentile, stilò quella che sarebbe diventata una delle più importanti opere letterarie del medioevo: nel “De Consolatione Philosophiae” la visione greca della filosofia come consolazione razionale, socratica e stoica si sposava alla perfezione con i valori allora nascenti del Cristianesimo.
Probabilmente, entrambe le cose. Fu così che il pugno di Severino Boezio, guidato dalla mano delicata di uno spirito gentile, stilò quella che sarebbe diventata una delle più importanti opere letterarie del medioevo: nel “De Consolatione Philosophiae” la visione greca della filosofia come consolazione razionale, socratica e stoica si sposava alla perfezione con i valori allora nascenti del Cristianesimo.
Pavia, torre delle "Carceres"
Non a caso, l'importanza di Boezio nella
storia della cultura occidentale si legò sicuramente alla funzione di
pacificatore fra mondo antico e Medioevo cristiano, riconosciutagli in ogni
epoca. Boezio aveva inventato la Scolastica: lo stesso Dante Alighieri avrebbe
imparato molto dalla sua opera.
Nel 525 d. C in pugno di sgherri armati
penetrò silenziosamente nella Torre delle Carceri. Solo in quel momento, di
fronte ai carnefici Boezio capì che re Teodorico, suo amico di un tempo, aveva
ratificato in via definitiva la sentenza di condanna a morte.
Come fu ucciso? Per
strangolamento o per compressione della calotta cranica, sostennero alcuni.
Altri giurarono che fosse stato decapitato, e ne erano certi per un chiaro
motivo…
Attualmente le spoglie di Boezio
riposano nella cripta della basilica di san Pietro in Ciel d'Oro: fu fatta
erigere dal re longobardo Liutprando nell’VIII secolo appositamente per
custodirvi i resti mortali del filosofo, nel frattempo diventato martire: sulla
facciata della Basilica una lapide moderna riporta una terzina di Dante:
“per
vedere ogne ben dentro vi gode
l’anima
santa che’l mondo fallace
fa
manifesto a chi di lei ben ode.
Lo
corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso
in Cieldauro; ed essa da martiro
e
da essilio venne a questa pace.”
Ma
siamo davvero certi che Boezio riposi in pace?
Nonostante la sopraggiunta
santificazione, infatti, lo spettro inquieto del sommo filosofo fu visto per
molto tempo aggirarsi a lungo tra le paludi brumose presso borgo Calvenzano…con
la propria testa sotto il braccio. La
leggenda ha tratto linfa anche dalla presenza di una statua romana togata e
senza testa, che generando peraltro nuove leggende diede poi il nome a una via
pavese tutt’ora esistente: la gente lo chiamava il “muto dell'accia al collo”.
E re Teodorico? Il gran re, esasperato, costrinse
papa Giovanni I, suo avversario, a recarsi a Costantinopoli in persona per
chiedere la revoca del decreto contro gli ariani e far sì che i convertiti
forzatamente al cattolicesimo potessero tornare ad abbracciare la loro vecchia
fede. Il Papa ottenne la revoca dell'ordine, ma si rifiutò di cedere alla
seconda richiesta. Per questo motivo, quando tornò in Italia, Giovanni I fu
imprigionato e lasciato morire in carcere nel.
Teodorico morì l’anno seguente (526). Il
regno, apparentemente pacificato sotto la reggenza della figlia Amalasunta e
del nipote Atalarico, sarebbe presto caduto nel caos della guerra greco-gotica
e della pestilenza, entrambe esportate in Italia dal nuovo imperatore, Giustiniano e
dai suoi generali: l’Italia si sarebbe ripresa soltanto mezzo millennio più
tardi. Il nome del sovrano goto fu rimosso da tutte le chiese e i monumenti: Teodorico
subì la “damnatio memoriae”.
Anche il fato del re, ammantato di
mistero, si presta a diverse interpretazioni. Lo storico e stratega bizantino Procopio
racconta che, poco dopo la scia di esecuzioni, gli fu servito un pesce di
sproporzionate dimensioni nella cui testa gli parve di vedere il teschio del
suo amico Boezio che lo fissava minaccioso. Sconvolto da ciò, il sovrano si
ammalò e morì poco dopo in preda ai rimorsi e alle allucinazioni: avvelenamento
o leggenda? Un'altra tradizione, probabilmente diffusa da papa Gregorio Magno e
dal suo entourage in polemica antiariana, narra che dinnanzi a Teodorico, a
caccia di un cervo, si parasse un misterioso cavallo nero, già sellato. Il re ostrogoto gli saltò in groppa e
iniziò a cavalcare freneticamente verso l’ignoto, senza potersi staccare dalla
sella. Il cavallo era il diavolo in persona, che lo aveva rapito per portarlo alle
pendici dell'Etna, dove lo scagliò nel cratere degli inferi.
Verona, San Zeno. Re Teodorico suona il corno da caccia
Questa, la versione “italiana”. La
tradizione “patriottica” germanica vuole invece che l’immagine del re guerriero,
esempio per eccellenza di sovrano severo, giusto e generoso, si cristallizzasse
nel mito e nella leggenda, apparendo insistentemente in numerosi cicli
narrativi. Ed eccolo protagonista di lotte contro orchi e draghi, nelle saghe di
Teodorico ed Ermanarico, dei Nibelunghi, l’Hildebrandslied e soprattutto, nella
Thidrekssaga che tanto ispirò Richard Wagner e che, chissà come mai, non è mai
stata tradotta in italiano. Per i tedeschi, alla fine di queste
imprese il re fu accolto nel cuore dei
monti e avvolto in un sonno magico, in attesa del fatale giorno in cui avremo
ancora bisogno di lui. Ma la propaganda romana avrebbe fatto breccia anche
nell’intimità romantica di questa leggenda, creando un miscuglio ancor più indistricabile
tra realtà e fantasia. Fra i paurosi
racconti ormai cristianizzati, diffusi tra le Alpi svizzere e il Tirolo, si diffuse la credenza di un imponente
cacciatore selvaggio: Teodorico chiamato dai locali “Dietrich von Bern”.
Il condottiero usava darsi incontro con spiriti malvagi, nemici del
cristianesimo, su tombe appena scavate presso cui gli elfi notturni avevano
danzato freneticamente tutta la notte. Spettri e creature infernali e magiche, unendosi all’eterna e ciclica maledizione della caccia selvaggia,
ingrossavano un esercito di dannati che, spinto dai soffi del folle vento
alpino chiamato Föhn e dal suono terribile del corno di Thidrek, sulla scia di
una muta di segugi fantasma turbinavano follemente sotto la luce della luna
pallida attorno alle cime innevate delle Alpi, scivolando tra le ombre delle
valli e sulle distese di rododendri, senza lasciare traccia di sé….
Marco Corrìas
(alias Marc Pevèn)
Bibliografia
H. Wolfram – Storia dei Goti, 1985
C. Maccabruni – Pavia: la tradizione
dell’antico nella città medievale, 1991
P. Heather – I Goti, 1996
M. P. Andreolli Panzarasa – C’era una
volta Pavia, 2004
Barnish, Marazzi – The Ostrogoths from
the Migration Period to the Sixth Century, 2007
C. Lecouteux – dizionario di mitologia
germanica, 2007
F. Crimi, G. M. Facchinetti – Il grande
libro dei misteri della Lombardia, 2008
P. Heather – L’impero e i barbari, 2010
M. Savi Lopez – Leggende delle Alpi,
2011
Fantasmagorica Thidrekssaga..bellissimo e avvincente articolo su uno dei personaggi più carismatici e interessanti della nostra storia. Peccato che se ne parli poco e che a scuola insegnino poco e male.. Grazie a Marc Pevén, per i fortunati che leggeranno, re Teodorico ritorna e rivive, emozionandoci e riempiendoci di malinconia x un'epoca sicuramente più gloriosa e genuina.
RispondiEliminaGretel
Grazie mille molto interessante!
RispondiEliminaRoma, eredi di un impero
Grazie a voi! E' pur sempre un prolungamento della Storia di Roma! :)
EliminaLeggerti è sempre una grande galoppata ricca di emozioni! Mi piace quello che racconti e come lo racconti.
RispondiEliminaAlberto
Grazie Lia! Grazie Alberto! In mezzo a tante gentildonne che ci seguono sei uno dei pochi uomini interessati alla cultura: un valore aggiunto! Ma in media siamo così caproni? Ahuauh ;)
Eliminaè vero. E' un piacere leggerti ed è per me un piacere raro. Grazie.
RispondiEliminaLia
Devo leggere con calma troppo affascinante Teodorico
RispondiEliminaCarmen Rita
E terribile scendea Dio sul capo al goto re. Da 'La leggenda di Teodorico', di Giosuè Carducci.
RispondiEliminaLorenzo
Molto interessante
RispondiEliminaPaola F.
Bravo Marc bell'articolo, Si sa che questi "Barbari" erano affascinati dalla cultura romana, e Amalasunta ne pagò le conseguenze.
RispondiEliminaValentino
Ciao Valentino😉 il tardoantico é la mia epoca preferita, ci trovi di tutto...povera Amalasunta😋
EliminaMolto interessante
RispondiEliminaLiviana
Gog iste Gothus est.<3
RispondiEliminaAlessandro
E io stavolta Alesandro ti rispondo Hail, Hail, Hail & kill mahuahuahu ;)
EliminaSempre lì si va a parare ;)
EliminaAlessandro
Molto buono!
RispondiEliminaSandra
Ahahab grazie Sandra!
EliminaBello ed interessantissimo!
RispondiEliminaSandra M.
come mi piace la frase "spettri dell'inconscio in agguato"...unica
RispondiEliminaPaola M
Paola come l'inconscio genera mostri 😁
EliminaTeodorico come Ponzio Pilato!
RispondiEliminaAzzurra
Ahaha Azzurra perché ho scritto "se n'è lavato le mani?" Quest'attenzione alle parole mi fa piacere😁
EliminaLe parole sono importantiii!!!!!!
Elimina