martedì 5 febbraio 2019

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Alle origini del ciclo arturiano. Itinerario tra i luoghi storici dell’antica Britannia.


Copyright Terra Insubre 2018
Marco Corrias



“Alle origini del ciclo arturiano” si prefigura come un viaggio tra i luoghi storici e i siti archeologici più significativi dell’antica Britannia, presentati nel rispetto della tradizionale sequenza logico-temporale degli eventi: accadimenti di un’epopea che, pur avendo segnato l’immaginario europeo, presenta passaggi talvolta nebulosi e in buona parte leggendari, ma simbolicamente profondi e sintomatici di fatti realmente accaduti.
Premesso che, quando archeologia e storia si intrecciano con il mito, trovare una risposta univoca costituisce un lavoro arduo se non addirittura impossibile, trattare le oscure origini del ciclo arturiano in questa occasione ci porterà assai lontano: oltre i confini della realtà visibile, forse nel cuore della fantasia stessa. Eppure, contando sulle fonti e sulle testimonianze materiali a disposizione ci prefiggeremo di avvicinarci, dove ciò non sia impedito dall’ininterrotta stratificazione culturale e letteraria sedimentatesi nel corso di innumerevoli secoli, a risposte più o meno plausibili. Il motore da cui prende avvio l’intero ciclo, ossia il personaggio piu celebre è quel “King Arthur” che, nel corpus della tradizione bretone, incarna la figura indigeno: nobile difensore della libertà nazionale dai barbari anglosassoni, invasori d’oltremare, che secondo la realtà storica sbarcarono in Gran Bretagna tra il 450 e il 510 d. C.
Quella di re Artù è una personalità attualmente dibattuta, generata da suggestioni legate ad uno più personaggi realmente esistiti: tra le numerose ipotesi sono state vagliate quella del capoclan britannico Ambrosius Aurelianus e dell’ufficiale romano, o sarmatico, Lucius Artorius. Da questo, o da questi personaggi prese il via il primo corpus letterario di tradizioni più autenticamente bretoni, gallesi e corniche, ovvero di origine più genuinamente celtica: passando per autori come l’abate Gildas (VI sec.), Nennio e Beda il Venerabile (VIII sec.), si arrivò a un punto di svolta con la “Storia dei Re di Britannia” di Goffredo di Monmouth (1135-38): seppur non esente da intenti politici, opera dove, in un mix calibrato di storia e leggende celtiche e cristiane, la saga arturiana apparve per la prima volta nella sua sostanziale interezza.
I lavori di Goffredo di Monmouth e del suo successore, il chierico normanno Wace, che introdusse per la prima volta il concetto di Tavola Rotonda, sarebbero stati ripresi e coltivati dai futuri sovrani con l’intento legittimante di dotare anche lai Britannia di un eroe nazionale pari al franco Carlo Magno e di una sede del culto che potesse rivaleggiare con Aquisgrana e Saint-Denis: trattasi di quella stessa Glastonbury identificata con la leggendaria terra di Avalon, dove nel 1191 i benedettini “scoprirono” le tombe di re Artù e della consorte Ginevra.
Personaggi ed episodi altrettanto importanti nell’economia complessiva del ciclo arturiano, come Parsifal, Lancillotto o la mistica cerca del Sacro Graal, entrarono nella saga solo dal “Perceval”, poema incompiuto del francese Chrétien de Troyes, datato 1190: punto di non ritorno per la definitiva sovrapposizione, ai primordiali temi celtici, di una sempre più evoluta revisione estetica di gusto francese, mirata soprattutto alla valorizzazione del modello letterario e romanzesco, anziché epico, di perfetta e inimitabile cavalleria. Celebrando la vita eroica degli svariati cavalieri arturiani entro trame sempre più complesse e cicliche, la materia non soltanto assunse proporzioni tali da diramarsi per numerose vie, ma si rivestì anche di nuovi significati umani e lirici, per evolversi verso valori complessi di natura religiosa, mistica e simbolica.
Introdotta la questione, in questa sede lo scrivente si prefigge, dove possibile, di rimuovere parte delle sovrastrutture letterarie per arrivare ai luoghi del mito e, possibilmente, al cuore della Britannia arturiana.

Dynas Emrys: un recinto per draghi antichi come la terra



In questo senso, il primo passo va indirizzato verso un sito poco noto ma più idoneo di altri a introdurre, tra storia e leggenda una più profonda riflessione sulle origini del grande ciclo arturiano: la collina fortificata di Dinas Emrys, dal gallese “fortezza di Ambrosio” o “dell’imperatore”, introduce quella che è l’’ambientazione introduttica, oltre al deus ex machina dell’intera saga: Ambrogio Aureliano, la cui problematica figura di bardo, stregone e guerriero, risultato della contaminazione reciproca tra più personaggi leggendari e storici, va trattata con cautela estrema.
Partiamo dai fatti concreti: Dinas Emrys, che oggi si presenta come un suggestivo insieme di ruderi sparsi su un colle roccioso del Galles nord-occidentale, un tempo fu una fortezza collinare in pietra e legno di notevoli dimensioni. Dal punto di vista archeologico, le origini dell’insediamento risalgono ai resti di un castelliere celtico dell’Età del Ferro: un recinto dell’ampiezza di ben 10.000 m², con bastioni in pietra spessi tra i 2,5 e i 3 metri che seguono le irregolarità del terreno. Al suo interno vi sono le fondamenta di un mastio del X-XI secolo d.C., forse eretto dai signori del Gwynedd a guardia della via per il valico di Snowdonia.
Sempre all’Età del Ferro risalirebbero una piattaforma e il sottostante pozzo artificiale: situati all’interno del recinto, dovettero verosimilmente fare parte di un luogo di culto; lo stesso luogo dove, secondo Goffredo di Monmouth, autore nella prima metà del XII secolo delle “Profezie di Merlino” poi incluse nella “Storia dei Re di Britannia”, si sarebbero incontrati Vortigern, tiranno di Britannia e il giovane “Ambrosius Aurelianus”, alias Merlino: il pozzo dei draghi.
Vortigern fu un potente capoclan gallese del V secolo, forse realmente esistito e descritto già dalle fonti più antiche come crudele e privo di scrupoli al punto da assoldare, attorno al 449 d.C, masnade di mercenari sassoni, angli e Juti pur di unificare sotto il suo controllo l’isola di Britannia. Sebbene gli storici concordino nel considerare Vortigern come un personaggio realmente esistito, quasi tutto ciò che lo riguarda è scaturito da leggende e racconti epici. Gildas (VI sec.) e Beda il Venerabile (VIII sec.) furono tra i primi a dipingere a tinte fosche la figura dell’orgoglioso tiranno, accusato tra le altre cose di incesto e inganno, spergiuro e inammissibile amore per una donna pagana. Il suo stesso nome, non più reale di quanto lo fosse quello del gallo Brenno o dell’etrusco Porsenna, in realtà è indicativo di attributi gerarchici legati a una carica di condottiero (“Wawr-Tigherne”).
In un contesto in cui l’impero romano, impegnato su più fronti e prossimo al collasso, cercava ancora di mantenere la Britannia nella propria orbita, con la celebrazione del matrimonio con la figlia del re dei Sassoni nel 449 d.C. Vortigern avrebbe incoraggiato lo sbarco dei barbari in Britannia. Analizziamo l’episodio: quante volte le invasioni sono state spiegate dalle fonti come fantasiosi, quanto inopportuni inviti alla conquista di nuove terre? Basti pensare alla leggenda del generale Narsete che, dopo aver scacciato i Goti dall’Italia, deluso per essere stato messo da parte dall’imperatore Giustino e umiliato dall’imperatrice per via della sua condizione di eunuco, nel 568 si vendicò con la chiamata dei Longobardi in Italia.
Nel 450 Vortigern perse il controllo sui Sassoni, che diedero il via all’occupazione su vasta scala della parte orientale dell’isola: quando si ritirò in Galles per sfuggire all’invasione, caso volle che il re decaduto scegliesse il monte poi detto Dinas Emrys per incastellarsi in tutta fretta: proprio in quella circostanza i costruttori, nel reiterato tentativo di erigere la prima di numerose torri, ogni mattina l’avrebbero trovata rasa al suolo. Presto, per porre rimedio all’arcano, il concilio dei saggi consigliò Vortigern di sguinzagliare i soldati in cerca di un ragazzo “non concepito da mortali”, si dice, da sacrificare alle forze della natura: più credibilmente il predestinato, Myrddin, ossia Merlino, figlio di una principessa e di uno spirito, fu convocato in virtù dei suoi poteri di chiaroveggenza, utili a svelare al tiranno che il terremoto era provocato dall’aspra lotta fra due draghi rinchiusi nel pozzo nascosto sotto la collina: il drago bianco, creatura infausta giunta di recente e apparentemente più forte, contro il drago rosso, antico abitatore dell’isola di Britannia, che alla fine avrebbe trionfato.
Lo scontro simbolico tra i potenti rettili imprigionati nel sottosuolo, riferibile alla guerra in corso tra i predoni Sassoni e gli antichi Gallesi, armatisi per difendere la propria terra, si intreccia con reminiscenze ancora più antiche, legate al folklore celtico: il Mabinogion, famosa raccolta di testi gallesi, narra di un tempo remoto in cui ruggiti misteriosi avevano causato terrore, caos e sterilità del terreno in tutto il regno di Britannia. Il male fu debellato solo quando il capoclan Lludd non scoprì i draghi, li imprigionò in un calderone pieno di idromele e lì seppellì a Dinas Emrys.
Liberati i draghi, nonostante la conclusione dei lavori al castello si dice che i mercenari sassoni avrebbero presto avuto la meglio sulle truppe di Vortigern che, qualcuno scrisse, morì in un agguato presso Stonehenge. Secondo altre fonti, il tiranno sarebbe arso vivo in una torre, come predetto dallo stesso Merlino. Conseguentemente, il forte sarebbe stato donato al “re supremo” uccisore di Vortigern:  ”Emrys Wledig”, ossia imperatore, epiteto da cui la fortezza trasse il suo nome. Chi era costui?
Ambrosio Aureliano, capoclan gallese noto per aver sconfitto i sassoni in numerose battaglie, poi considerato fratello del mitico Uther Pendragon, ossia il padre di Artù...oppure lo stesso “king Arthur”, difensore per eccellenza dei popoli romano-britannici dall’invasione sassone? Forse, si tratterebbe addirittura dello stesso Merlino, il più famoso “mago” di tutti i tempi, che di nome faceva anche lui Ambrosius, e che si palesò ai posteri per la prima volta proprio a Dinas Emrys?

Tintagel: magia, tradimenti…e commerci marittimi



Del leggendario castello di Tintagel, in lingua cornica “Dintagell”, situato presso il villaggio di Trevena nella Cornovaglia settentrionale, grazie a indagini archeologiche effettuate tra il XIX e il XXI secolo sappiamo che sorse su un’area occupata da un emporio marittimo che nell’alto medioevo ebbe legami commerciali non trascurabili con il Mediterraneo: anfore d’olio, vino e altri manufatti di svariata provenienza, databili al IV-VI secolo d.C abbondano sotto i ruderi del castello ricostruito nel XIII secolo da Riccardo I, conte di Cornovaglia.
Prima dei probabili insediamenti voluti dai signori di Dumnonia e della ricostruzione basso medievale della rocca, proprio nella delicata fase di passaggio fra età tardo antica e alto Medioevo a Tintagel sorse il castrum indicato dal folklore come luogo del torbido antefatto pregno d’intrighi, tradimenti e passioni che avrebbe portato alla nascita del ciclo arturiano. La fortezza, leggendaria dimora di Gorlois duca di Cornovaglia e di sua moglie Ygraine, è legata allo scabroso episodio chiave che ha per protagonista Uther Pendragon, padre di King Arthur: figura segnata da una certa doppiezza di carattere, che da sempre marchia a fuoco l’indole dell’eroe mitologico assetato di potere. Menzionato come fratello di Ambrosio Aureliano e Costante, fantasiosamente indicati come figli di Costantino III aspirante al trono imperiale fra il 407 e il 411, ancora in tenera età Uther avrebbe lasciato l’isola a causa dell’omicidio del primogenito e ascesa al trono da parte del terribile Vortigern.
Sotto il buon auspicio di una stella cadente a forma di drago, dopo una vittoria decisiva contro le  orde sassoni Uther conquistò il regno guadagnandosi il soprannome di “Pendragon”: testa di drago.
Se in guerra e sul trono di Britannia Uther fu descritto come forte e generoso difensore del popolo, non si può dire lo stesso del suo rapporti con gli alleati: lo stesso atto di rivolgere le armi contro Gorlois di Cornovaglia, fedele vassallo, per brama della moglie Ygraine, è indicativo di sentimenti umani contraddittori.
Gorlois, narra la leggenda, decise di affrontare gli eserciti del Pendragon presso l’avamposto di Dimilioc; sua moglie fu messa al sicuro a Tintagel, ossia il rifugio più sicuro: impossibile da prendere, perché circondato su ogni lato dal mare e unito alla terraferma soltanto da uno stretto passaggio roccioso. Per questo motivo il nome della luogo vuol dire “Fortezza della Strettoia” o “Forte della Costrizione”.
Assunte le fattezze di Gorlois con un sortilegio di “mago” Merlino, il Pendragon consumò il rapporto proibito con la castellana che avrebbe portato al concepimento di Artù e a nuove nozze. Proprio a conclusione dell’atto stesso, il vero Gorlois veniva ucciso in battaglia: il concepimento del futuro salvatore di Britannia fra tradimento, sortilegio e sete di potere può davvero inaugurare un nuovo regno sotto auspici favorevoli? Una più cruda e realistica analisi di tipo antropologico, casomai, suggerirebbe un’ordalia tra eroi: una resa dei conti, una guerra intestina tra clan in cui il fato, incarnato dalla magia, avrebbe fatto pendere l’ago della bilancia a favore del combattente più idoneo a legarsi, spesso in seconde nozze, con la depositaria del titolo regale.
Sebbene l’associazione tra Tintagel e i misteriosi natali di re Artù sia stata definitivamente relegata all’ambito del folklore, un rinnovato contesto archeologico derivato dagli scavi effettuati tra 1998 e 2017 porta a non escludere a priori la possibilità che un luogo di questo genere, ricco e popoloso perfino dopo la caduta dell’impero, abbia costituito terreno fertile per lo sviluppo di numerosi elementi leggendari, pur molto spesso inconciliabili perche ereditati dalle più svariate fonti orali. Nell’osservare come Goffredo di Monmouth, pur presentando Tintagel nel mito come luogo del “concepimento” di Artù, non torni mai più sull’argomento, le nebbie del mito si infittiscono: Artù nacque effettivamente a Tintagel? Negli anni successivi, acquisito il regno, vi sarebbe mai più tornato? L’autore, a tal proposito, non fornisce risposte.
Il ritrovamento sull’isola della “pietra di Artognou”, lastra di ardesia recante un’iscrizione incisa in latino (e provvista dell’iscrizione PATERN [-] COLI AVI FICIT ARTOGNOU) oltre a dimostrare la sopravvivenza nell’area dell’alfabetizzazione anche dopo il crollo della Britannia romana, divenne per molti una prova valida, sebbene assai discussa e infine rifiutata, dell’esistenza dell’Artù storico proposto da Goffredo.
Lungo la scia della tradizione del ciclo arturiano, si ricorda che proprio tra le mura di Tintagel nacque “fata” Morgana: creatura fantastica, più comunemente la maggiore di tre sorelle, figlie del duca Gorlois e Ygraine. Il parallelismo e il conseguente contrasto sviluppatosi nei secoli tra fratellastri nasce proprio tra queste rovine: adepta di Merlino, Morgana fu sempre gelosa del destino dii Artù, nonché di sua moglie Ginevra, fino al punto da tramare il loro annientamento con l’appoggio di Sir Mordred, cavaliere della Tavola Rotonda dai natali ancora più incerti di quelli di suo padre Artù:. Il tempo del regno dorato di Camelot era così giunto al suo epilogo.
Incongruenze a parte, in un contesto come quello arturiano dove il mito cristallizzato nel tempo può contare qualcosa di più della scabra realtà, ciò che più conta può diventare l’osservazione stratificata di culture e simboli. La stessa fatalità mitica con cui le maree fanno periodicamente sparire e riapparire l’avita dimora cornica ci ricorda come la figura di Artù, tradizionalmente contesa tra questo mondo e il Sidhe, ossia l’aldilà del mondo celtico o sede degli dei, sia forse destinata a restare intangibile.

Dozmary Pool: sott’acqua, spade piegate e regni incantati



Dozmary Pool è un piccolo lago, unico specchio naturale d’acqua dolce della Cornovaglia, situato nella brughiera di Bodmin: un luogo abitato fin dall’età della Pietra che si caratterizza per i cosiddetti “tors”, blocchi di granito levigati dagli agenti atmosferici, e per la presenza di siti megalitici.
La tradizione vuole che Dozmary Pool fosse la dimora della Dama del Lago: lo specchio incantato dove Re Artù avrebbe ricevuto la spada Excalibur e alla fine della saga il fidato Griflet, (sostituito dal cugino Bedwyr/Bedivere solo nell’opera quattrocentesca “Le Morte d’Arthur di Mallory) la restituì per ordine del re, che dopo la battaglia di Camlann giaceva ferito a morte. Si diceva anche che il lago non avesse fondo e portasse direttamente al mare: attualmente, invece, è profondo solo qualche metro e talvolta si asciuga del tutto.
Una paziente ricostruzione della cosiddetta geografia dell’immaginario arturiano potrebbe svelare che la battaglia di Camlan, fatale per Artù, probabilmente si combatté presso il ponte di Slaughter Bridge presso il fiume Cam, dove peraltro è situata una delle sue presunte tombe: essa dista appena una decina di chilometri da Dozmary Pool; Tintagel, il luogo in cui Artù nacque, e situata a venti chilometri. Come i luoghi siano connessi tra loro, risulta piuttosto chiaro.
In origine, la Dama del Lago dovette essere una divinità celtica: forse una “gwraig annwn”, ninfa acquatica del folklore locale. Rimarcando la sua duplicità, due testi relativamente tardi come la ”Post-Vulgata” francese (1230-40) e la succitata “La Mort de Arthur” sostituirono la Dama con due personaggi distinti; uno in parte positivo, che donò al futuro re la spada Excalibur dopo che aveva spezzato la sua, in cambio di una  futura richiesta dagli esiti imprevedibili: la condanna a morte del cavaliere Balin, che sarebbe invece costata a lei la testa a e a lui l’allontanamento dalla tavola.
A tal proposito è il caso di accennare che Excalibur e la Spada nella Roccia non sono la stessa arma: a differenza della semplificazione attuata da Mallory quella che, secondo la predizione di Merlino sarebbe stata estratta dalla roccia o  da un’incudine, soltanto dal futuro re, si ruppe malamente e proprio l’intervento provvidenziale della Dama del Lago portò alla sua sostituzione.
Il secondo personaggio, Viviana, il cui habitat pare più legato al mondo arboreo piuttosto che all’acqua, incontrò Merlino nella foresta di Brocèliande, sacra ai Celti e oggi assimilabile alla foresta di Paimpont: qui cedette alle alle lusinghe dello stregone innamorato solo dopo avergli sottratto i segreti della magia, per poi imprigionarlo nel tronco di un albero o al di là di una cortina invisibile.
Fondamentalmente, la tradizione orale tramanda il ricordo della Dama del Lago come quello un personaggio originario dell’aldilà fatato, di conseguenza imprevedibile. Altri nomi che le furono attribuiti sono Nimue, Niniane, Nyneve e Coventina.
L’opera del celebre francese Chrétien de Troyes, “Lancillotto il Cavaliere della Carretta”, fu la prima a menzionare l’educazione del famoso Lancelot du Lac presso la Dama del Lago; questa versione è chiarita nell “Lanzelet” del tedesco Ulrich von Zatzikhoven, dall’approccio più arcaico, dove il neonato Lancillotto sarebbe stato portato via e cresciuto da una fata acquatica a “Meidelant”: la Terra delle Fanciulle “, isola di perenne felicità che ricorda la Avalon di Goffredo di Monmouth.
La spada di King Arthur richiede una menzione speciale. La sua storia fu narrata per la prima volta proprio da Goffredo di Monmouth, con il nome latinizzato di “Caliburn”: una spada forgiata “ex calibro” ossia in perfetto equilibrio, ma più credibilmente legata alla lingua celtica che si riferisce “all’acciaio lucente e indistruttibile”.
“Una spada forgiata nell’isola di Avallon”, scrisse Goffredo di Monmouth, eppure senza alcun potere magico: difficile a credersi. Evidentemente, in tempi di inevitabile cristianizzazione si preferì celare i veri motivi della straordinaria forza del re, scaturiti dalla magia e dal suo totem animale di riferimento (il nome Artù deriva dal celtico “Arthios”, ossia “orso”), edulcorandola con il medium della fede cristiana a cui il sovrano, nel corso del suo regno, si sarebbe votato. Solo nelle leggende successive Excalibur fu “indennizzata” delle sue proprietà straordinarie, tipiche di molte spade dai poteri magici della mitologia irlandese: poteri che nel caso di Excalibur erano tali da guarire le ferite di chi la impugnava: solo con il furto decisivo del fodero da parte di Morgana, Artù fu ferito mortalmente da Mordred nella battaglia di Camlann.
A conclusione di questo excursus, va assutamente ricordato il valore di archetipo rivestito dalla spada fin dall’età del Ferro: un’arma che occupò sempre un ruolo privilegiato nella cultura dei signori della guerra celtici di classe aristocratica. La prova più celebre dell’importanza, anche rituale, rivestita dalla spada nella cultura celtica è costituita dall’utilizzo e dalla deliberata manomissione dell’arma all’interno di determinati cerimoniali, che portò ad abbondanti ritrovamenti di spade ritualmente deformate e deposte in luoghi di culto: una pratica che non si limitò alle lame, piegate e attorcigliate, ma coinvolse perfino i foderi metallici. Fin dall’età del Bronzo il possesso di armi di tale tipo indicava capacità belliche e status aristocratico; i detentori di armi preziose, dal forte valore simbolico, erano considerati alla stregua di principi e re: veri e propri predecessori di re Artù.
Atto finale: Prima di morire ed essere sepolto, il re ordinò al fidato Griflet di gettare Excalibur nel lago. In una delle tante versioni, poiché indeciso a gettare via un’arma così preziosa e decisiva in battaglia, il cavaliere esitò per due volte. Infine, quando decise di obbedire, una mano uscì dall’acqua per impugnare l’arma, e portarla per sempre nelle profondità del lago. Degna reminiscenza dei riti dell’età del Ferro, la spada tornò ai luoghi d’origine, dove la tradizione sostiene che essa tutt’ora luccichi.


Caerleon e Winchester: tavole rotonde di pietra e di legno



La mitica Tavola Rotonda del ciclo arturiano, attorno alla quale Re Artù avrebbe riunito i cavalieri migliori del regno, nella mentalità collettiva incarna il sogno della corte ideale: Camelot, vagheggiata quasi quanto il sacro Graal. Come in ogni altro scenario del ciclo arturiano, anche quello da cui scaturì il mito dei Cavalieri della Tavola Rotonda andò costituendosi progressivamente. Comparsa per la prima volta nel “Roman de Brut” compilato nel 1155 dal chierico Wace, l’idea mosse i primi passi da più antichi miti bretoni secondo cui Artù, in cerca di una soluzione per prevenire liti tra i nobili, nessuno dei quali era disposto ad accettare un posto subordinato rispetto agli altri, propose una tavola dove non era previsto un capo: ognuno, incluso il re, si sarebbe potuto così garantire un seggio uguale a a tutti gli altri. A tal proposito non va persa di vista la relazione tra la Tavola, così come la descrissero i primi cronisti, e la più antica consuetudine celtica che vedeva i guerrieri sedersi in cerchio attorno al capoclan, nella sede del potere.
Goffredo di Monmouth affermò che Artù, dopo aver stabilito la pace in tutta la Gran Bretagna, avesse aumentato il suo seguito invitando alla tavola nobili provenienti da reami lontani. Nel “Merlino” di Robert de Boron, scritto intorno al 1190, tra magia pagana e miracolo cristiano lo stregone creò la Tavola Rotonda con la magia, ad imitazione del desco dell’Ultima Cena: dodici scranni più uno, detto il “seggio periglioso”, da lasciare vuoto fino all’arrivo del cavaliere che avrebbe trovato il Graal: Parsifal, o Galahad, tredicesimo apostolo, a seconda della versione.
Eppure, a detta di alcuni cicli in prosa del XIII secolo la Tavola Rotonda esisteva già da tempo; dopo la morte di Uther Pendragon, essa sarebbe stata custodita da re Leodegrance di Cameliard, padre di Ginevra, per essere consegnata come dono di nozze ad Artù. Per una particolare tradizione, scherzo del destino vuole che Artù fosse più volte simbolicamente associato a svariate suppellettili magiche: il mistico altare galleggiante di San Carannog, infruttuosamente riadattato a tavolo, la Camera da letto e perfino il Forno di Artù.
A tal proposito, di Camelot , per lungo tempo di essa non vi è neanche l’ombra. La prima menzione della leggendaria fortezza arturiana, in verità, è registrata assai tardi, da una fonte straniera: solo dal poema ”Lancillotto o il cavaliere della carretta” in poi, con il francese Chrétien de Troyes la meravigliosa tavola veniva collocata nella sala principale del castello di Camelot, dove sovrano e cavalieri sedevano per discutere di tutte le questioni di maggior rilievo per il destino del regno. 
Considerata la mancanza di informazioni chiare e univoche sia a proposito della vera locazione di Camelot, di volta in volta identificata da pseudo-studiosi in cerca di notorietà  tra i resti di qualche forte romano minore piuttosto che in un castelliere celtico, sia circa ildestino della Tavola Rotonda: in questa sede si propone di collocarle entrambe in Galles, e più precisamente, a Caerleon.
La gallese “Caerllion” ossia “la Città della Legione”, luogo privilegiato da numerose tradizioni bretoni, già a detta di tale Gerardo del Galles, nel suo “Itinerarium Cambriae” del 1191 fu il luogo in cui “gli ambasciatori romani ricevettero udienza alla corte del grande re Artù”. Un secolo dopo, anche il chierico Wace e Goffredo di Monmouth indicavano, sempre a Caerleon, l’esistenza di un non ben definito “palazzo arturiano” riedificato con tanto di tribunale regio sulle rovine di un castrum romano.
Cosa dire, invece, della Tavola Rotonda? Lungi dall’essere un vero e proprio ripiano, essa potrebbe identificarsi nel verde anfiteatro romano di Caerleon. Basti pensare al ruolo assunto da architetture ellittiche e concentriche di teatri e circhi in occasione di episodi storici come l’incoronazione di Adaloaldo, figlio di Agilulfo re dei Longobardi nell’anfiteatro di Milano: proclamazioni che si svolgevano all’aperto, di fronte all’assemblea dei guerrieri più fidati che, cozzando le lance contro gli scudi, manifestavano il proprio consenso. Una traccia ulteriore dellla presenza di Camelot a Caerleon è testimoniata dalla leggenda della grotta nascosta nel bosco, dove migliaia di cavalieri arturiani dormono il sonno dei secoli  in attesa del giorno in cui il Galles avrà bisogno del loro ritorno.
Ben presto, con la mediazione della letteratura francese l’esempio di ordine cavalleresco ideale scaturito dalla Tavola Rotonda, fondato su criteri di eccellenza e uguaglianza, sarebbe stato assunto dalla cultura dell’occidente europeo a modello cortese definitivo. Fu così che la ”Table roonde” divenne punto di partenza ideale per tutte quelle avventure che, moltiplicandosi nello spazio e nel tempo, andarono sempre più celebrando la vita eroica di ogni cavaliere arturiano entro trame complesse e cicliche, che assunsero proporzioni sempre più vaste e nuovi significati umani e lirici, di natura religiosa, simbolica e mistica.
Per quanto non si tratti dell’originale, una Tavola Rotonda ancora oggi può essere ammirata: essa è appesa alla parete centrale della Sala Grande del Castello di Winchester, costruito sotto Enrico III: testimonianza superstite del castello originariamente voluto da Guglielmo il Conquistatore nel 1067. La tavola, del diametro di 5 metri e mezzo per un peso di una tonnellata e più, fu ricavata alla fine del XIII secolo dalla lavorazione di assi di legno di quercia, per celebrare un torneo legato a un fidanzamento reale. Le decorazioni pittoriche furono aggiunte nel XVI secolo, con intenti auto-celebrativi, per volere di Enrico VIII: dalla rosa dei Tudor al centro, fino a Enrico stesso in trono in veste di Artù, circondato da 24 luoghi, ognuno recante il nome di uno dei leggendari Cavalieri della Tavola Rotonda.

Glastonbury: quando le leggende tramontano.



Le leggende che permeano Glastonbury, uno dei luoghi mitologici e sacri più noti d’Inghilterra, attraggono una moltitudine di visitatori ogni anno: il rapimento di Ginevra, la presenza di Avalon e la presunta tomba di Artù, oltre all’avvento di Giuseppe di Arimatea con la fondazione di uno dei primi luoghi cristiani del Paese, contribuiscono notevolmente ad alimentare l’atmosfera mistica del luogo. Glastonbury, popolata da villaggi lacustri già dall’Età del Ferro, per secoli fu pressoché isolata dagli acquitrini. Molto prima della leggenda della tomba di Artù e dell’arrivo dei monaci, il luogo fu oggetto di presenze arturiane legate al rapimento di Ginevra da parte di Melwas, poi Meleagant re del Somerset: dopo un lungo anno di ricerche, Artù e i suoi cavalieri partirono all’assedio dalla roccaforte, su cui si riteneva sorgesse la collina di Glastonbury Tor.
Gli scavi archeologici effettuati in quest’area hanno riportato alla luce vestigia di costruzioni anteriori, costituite da palificazioni e rami intrecciati, coperti di argilla e paglia nonché numerosi edifici di pietra di epoche più tarde, di cui oggi sono riconoscibili solo i tracciati perimetrali. Poiché tra i reperti vi sono crogioli per la lavorazione dei metalli, ossa d’animali da carne e terraglie a indicare un copioso consumo di vino, è certo che, chiunque abbia vissuto fra quelle mura, vi condusse un’esistenza agiata. Tutto questo, finché nell’VIII secolo non vi si stabilirono i primi monaci benedettinii, introdotti da re Ine del Wessex, che dal X secolo diedero il via alla progressiva cristianizzazione di un luogo pagano per vocazione.
Il primo sito su cui i monaci di Glastonbury si concentrarono fu proprio la cima della Tor: luogo imbevuto di forti reminiscenze pre-cristiane, via di passaggio verso Annwn, regno sotterraneo governato da Gwyn ap Nudd, re delle Fate. La tradizione ricorda che, quando nel VI secolo san Collen fece visita a Gwyn sulla collina di Tor, valicò un antro segreto per ritrovarsi all’interno di un palazzo; esposto alle tentazioni del magico Oltremondo, il santo asperse con acqua santa tutto quanto vi trovò, finché il castello scomparve ed egli rimase solo sul promontorio solitario. Il campanile che ancora vi svetta è quanto sopravvive di una chiesa d’età gotica, costruita a sostituzione della precedente.
La leggenda cristiana più nota narra che, prima ancora dei monaci, il cristianesimo fosse stato portato sull’isola da Giuseppe d’Arimatea: colui che nel Vangelo aveva avvolto il corpo di Cristo in un lenzuolo per trasportarlo nella tomba sbarcò misteriosamente a Glastonbury, dove avrebbe fondato la prima chiesa. Trovatosi nei pressi del colle di Wearyall, Giuseppe piantò a terra il suo bastone di biancospino, che fiorì immediatamente: fu così che nacque il mito del Glastonbury Thorn o “Spina di Glastonbury”, che ancora oggi solerti giardinieri fanno fiorire a Pasqua e Natale su terreno consacrato. Frutto dell’agiografia più canonica la leggenda ricorda da vicino quella, altrettanto inverosimile, del nostro san Barnaba che giunto non si sa come da Cipro a Milano, con un analogo miracolo, lungo il suo passaggio faceva sciogliere la neve e sbocciare i fiori.
Oggi Glastonbury è dominata dai notevoli ruderi dell’abbazia principale, costruita in stile gotico tra il XIII e il XIV secolo; all’interno, in luogo di una più antica chiesa distrutta da un incendio del XII secolo vi sono le fondamenta della “Chiesa Vecchia”, che la tradizione attribuisce a Giuseppe stesso. 
Proprio qui non la tradizione, bensì i monaci, nel 1190 asserirono di aver ritrovato i resti mortali di Artù in compagnia di quelli della regina Ginevra. Una strana coincidenza. Recenti scavi archeologici hanno dimostrato che, in verità, Glastonbury non fu edificata agli inizi della cristianizzazione dell’Inghilterra, ma dai benedettini stessi, interessati a diffondere la leggenda sia dell’albero di Giuseppe d’Arimatea, sia della sepoltura di Artù. Le fondamenta del luogo di culto non sono alto medievali; la stessa fossa che avrebbe dovuto contenere il sepolcro è vuota e le sue dimensioni sono insufficienti ad accogliere un corpo inumato. Il tentativo di far sorgere il più antico santuario d’Inghilterra nello stesso luogo in cui fu sepolto il leggendario sovrano costituisce un tipico caso di appropriazione, più o meno indebita, del culto di leggendari sovrani a fini di legittimazione: da parte di chi, e perché?
I protagonisti della mistificazione storica dell’abbazia di Glastonbury, presto identificata nella mitica Insula Pomorum, ossia l’Avalon delle leggende celtiche, furono gli studiosi di corte di re Enrico II Plantageneto e della figlia Maria di Champagne, che non a caso fu anche la protettrice dell’autore Chrètienne di Troyes.
Intrigo internazionale: verso la metà del XII secolo i sovrani angioino-plantageneti stavano costruendo un grande regno costituito dall’Inghilterra e da gran parte della Francia. Il matrimonio tra Enrico II ed Eleonora d’Aquitania, nel 1152, siglò un vasto programma egemonico, volto a promuovere un’inquieta, forzata convivenza tra popoli di Britannia: una terra dove i Germani anglosassoni si erano sovrapposti ai Celti e la più recente invasione normanna aveva nuovamente turbato gli equilibri. Era necessario per la dinastia anglofrancese rintracciare, quando non addirittura inventare un precedente che potesse conciliare tra di loro le tre diverse etnie: creare una simbologia religiosa e inclusiva, capace di nobilitare e avvicinare tutte le stirpi conviventi, costituiva l’obiettivo prefissato.  I re anglofrancesi a quel punto nutrirono l’idea di creare un emulo delle tradizioni tradizioni regali e sacrali continentali, individuandolo in un antico sovrano celtico o celtoromano cristianizzato, verosimilmente esistito nel V secolo. Fu così, come nel caso di numerosi altri sovrani peraltro storicamente più concreti (Alessandro, Teodorico, Carlo Magno) che nacque il mito escatologico del paladino coronato, pronto a tornare a difendere il suo popolo nel tempo dell’estremo pericolo: mito ulteriormente, ed epicamente alimentato dalla scritta sulla tomba del re, descritta da  Malory nella sua “Le Morte d’Arthur”

“Eppure alcuni uomini dicono, in molte parti dell’Inghilterra che Re Artù non è morto, ma per volontà di nostro Signore Gesù si trova altrove...
....Molti uomini dicono che sulla sua tomba c’è scritto questo versetto: Qui giace Artù, re un tempo, re in futuro...”

Bibliografia:
G. Agrati, M. L. Magini, Chrètienne de Troyes, I romanzi cortesi,  5 vol. Oscar Mondadori, 2011
G. Agrati, M. L. Magini, Goffredo di Monmouth, Storia dei re di Britannia, La Fenice, 2005
G. Agrati, M. L. Magini, Thomas Malory, Storia di Artù e dei suoi cavalieri, Oscar Mondadori, 2013
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D. Del Corno Branca, Cantari fiabeschi arturiani, Carocci, 1999
M. Dillon, N. Chadwick, I regni dei Celti, Il Saggiatore, 1968
E. Jenkins, Il mistero di Re Artù, Armenia, 1997
A. Morganti, Nennio, La storia di Artù e dei Britanni, il Cerchio, 2017
P. Walter, Artù, L’orso e il re, Arkeios, 2002

G. Phillips. Re Artù, la vera storia, Mondadori, 2017

martedì 8 gennaio 2019

“Ordal & Tournoi”: evoluzione del torneo nei secoli, da Giudizio degli Dei a disfida cortese.



Per parlare di torneo nel Medioevo è necessario introdurre il concetto di "ordalia”: termine desunto dall'alto germanico “ordaïl” che riportato in latino medievale come "ordalium" vuole dire "giudizio di Dio".  L'ordalia è un’antica pratica derivata da consuetudini in uso presso i popoli barbarici: una serie di prove come quella dell’acqua bollente o gelida, del ferro rovente oppure del duello, al fine di stabilire l’innocenza o la colpevolezza dell'accusato. Gli esiti della prova assicuravano la manifestazione del “iudicium Dei”, ossia della volontà divina: giudizio spettante agli dei del pantheon germanico o “Valhalla”, a cui più tardi si sostituì il Dio dei cristiani.
La risoluzione di contenziosi legali attraverso l’ordalia, nella forma del torneo all'ultimo sangue, trovò larga applicazione presso tutte le popolazioni germaniche: Goti, Longobardi, Franchi, Turingi e Sassoni sono solo alcuni tra gruppi etnici più citati. I primi riferimenti al duello come strumento di risoluzione di contese risalgono agli storici romani che, da Velleio Patercolo a Tacito, sottolinearono l'incompatibilità di tale prassi barbarica con la concezione romana dello Stato. La consuetudine del duello giudiziario, favorita dal carattere combattivo di quei popoli, a contatto con la dottrina cristiana anziché ammorbidirsi risultò ulteriormente rafforzata: il fondamento del giudizio si basava su un giuramento solenne che, invocando Dio in persona come testimone, rimetteva al suo volere non soltanto gli esiti dello scontro, bensì anche le anime dei contendenti.


La più antica, forse l’unica testimonianza di duello atavico tra eroi verificatosi nel corso dell’Alto medioevo europeo è stata identificata dallo scrivente in un episodio di apparente insignificanza, descritto nella “Storia dei Franchi” di Gregorio di Tours: correva l’anno 590 d.C., l’ultimo del regno di Àutari quando un esercito di Franchi, calati dai valichi dell’attuale Svizzera, fu arrestato presso Ponte Tresa, il cui nome da sempre indica la presenza di un passaggio per l’attraversamento di acque profonde. Qui si consumò un'ordalia tra guerrieri barbarici: un duello tra un Franco e un Longobardo, campioni scelti, a cui era stata affidata l’esecuzione del volere divino presso il confine simbolico del regno aggredito. La più antica testimonianza, invece, di un vero e proprio duello giudiziario sarebbe  riportata da Fredegario, altro storico franco, quando nel 624 Pittone, campione della regina Gundeperga figlia di Teodolinda uccise in singolar tenzone tale Adalulfo, che aveva accusato la sovrana di adulterio e tentato omicidio ai danni del re: l’esito dello scontro comportò la completa riabilitazione della regina. Poco più tardi (643 d.C), il duello per giudizio divino sarebbe stato riconosciuto per iscritto dal celebre Editto di Rotari.
La concezione alla base di tale istituto era quella, "barbarica", che vedeva i campi del diritto, tanto pubblico quanto privato,  quelli della morale e della religione come un tutt'uno inscindibile; inoltre, al culto del divino si accompagnava quello, mai sopito, della forza fisica e delle armi.
A proposito di armi è opportuno ricordare che parte dell'equipaggiamento da guerra, necessario nei secoli a venire, fu proprio introdotto nel corso dell’Alto Medioevo barbarico. Popoli nuovi, originari della steppa come gli Unni, di etnia mongolica e gli Alani e Àvari, turco-altaici, cavalieri eccezionali che passavano la maggior parte della propria vita letteralmente sul cavallo, tra il V e il VII secolo misero a ferro e fuoco prima ii confini dell'Impero romano, poi dei regni barbarici. Il ruolo primario del cavallo, che in età romana era stato impiegato in modo assai marginale e l'introduzione della staffa, sconosciuta al mondo classico e più tardi diffusa su vasta scala nell'esercito franco (VIII sec.) avrebbero pesantemente influenzato i futuri equilibri della neonata Europa. Non va nemmeno del tutto esclusa la possibilità che l'armamento da torneo del basso medioevo sia stato in parte ispirato dai catafratti (da κατά, "tutto", "fino in fondo" e φρακτός "coperto, protetto"): i primi corpi di cavalleria pesante della storia, introdotti dai persiani e ripresi dall'impero bizantino, dove il metallo proteggeva allo stesso tempo cavallo e cavaliere.



Con l'evolversi del Regno longobardo, sotto Liutprando (712-44) si cercò di  limitare il “duello di Dio” a favore delle prove testimoniali, documentali e dei conseguenti risarcimenti dei danni, già precedentemente stabilite da Rotari con l’istituto del “guidrigildo”. Gli unici due casi in cui, in assenza di prove, nell’Italia alto medievale il giudice concedeva il duello riguardavano gli omicidi commessi col veleno o a tradimento e ovviamente, il crimine più grave di tutti:  quello di lesa maestà.
Tuttavia la caduta del regno (774) e il tentativo di sostituire la classe dominante longobarda con quella franca, rimasta ancorata alle tradizioni germaniche, restituì ampia diffusione alle vecchie pratiche. Dapprima la dinastia carolingia (VIII-IX sec.), poi quella ottoniana, sassone (X-XI secc.) sostennero apertamente la necessità del "combattimento giudiziario"; al contrario, esso era disapprovato dalla Chiesa come pratica paganeggiante, sanguinaria e portatrice di faide: d'altronde i signori germanici della guerra ritenevano assai più nobile imporre i propri diritti con la spada, agli impedimenti ecclesiastici di deporre le armi pena il rischio della dannazione eterna.
Proprio a partire dai fin qui analizzati Duelli di Dio, entro i confini dell’impero carolingio dal IX secolo iniziò a svilupparsi il concetto di torneo. Derivato dalla parola francese "tourner", (roteare, girare), il torneo nacque come  sorta di “festa in armi”, comprensiva di un’ampia rassegna di esercizi militari destinati all’allenamento dei nobili di più alto lignaggio: quegli stessi nobili armati che, con la nascita della leva obbligatoria, avevano il dovere di rispondere all’adunata annuale convocata dal sovrano presso i “Campi di Marzo”.
Fondamento essenziale della società armata d’età carolingia e, di riflesso, anche del torneo era "la cavalleria": struttura militare organizzata su base gerarchica, il cui famoso e spesso mitizzato codice, prima di  vedere una forma definitiva, richiese secoli di faticosa elaborazione.
Le prime regole del torneo non sono codificate: ci si basa su un codice di comportamento desunto dalle consuetudini. Fin dalle origini i tornei videro battersi opposti schieramenti di cavalieri, in furibonda mischia entro spazi pianeggianti rigorosamente collocati all’esterno dei centri abitati, con tanto di alberi per le imboscate. Nel giorno e all’ora stabilita,  ogni cavaliere partecipante doveva presentarsi con una piccola guarnigione formata da fanti, arcieri e scudieri. Uno  schieramento era formato dai “ténants”, che avevano lanciato la sfida, un altro dai “vénants” che l'avevano accettata; ed ecco delinearsi vere e proprie simulazioni belliche, pensate allo scopo di esercitare attivamente l’arte della guerra anche durante il periodo invernale, onde evitare che i combattenti potessero infiacchirsi.



Da intendersi come dimostrazioni laiche, i tornei erano indetti allo scopo di garantire efficienza militare, ma anche come occasioni per guadagnare onori e visibilità e, di conseguenza, rinsaldare alleanze politiche tra signori feudali. Lo scopo non doveva essere quello di uccidere ma, al contrario, sconfiggere l’avversario, farlo prigioniero e costringerlo a pagare un riscatto allo scopo di aumentare il proprio prestigio personale. Tuttavia è facile immaginare come, fin dalle origini, il torneo contemplasse scontri armati con alto rischio di morte. Per quanto simulato, esso incarnava pur sempre il momento in cui scatenare liberamente l’aggressività del clan, con tutto il bagaglio di significati annessi e connessi al concetto di “battaglia rituale”: la realizzazione di un meccanismo di predazione e ridistribuzione della ricchezza, tale e quale a quanto accadeva in tempo di guerra.
Il torneo conobbe la sua età dell’oro nel XII secolo: nonostante il primato francese, con l’affermarsi di élite cavalleresche all’interno delle istituzioni cittadine esso conobbe un grande sviluppo anche in Italia, dal Nord fortemente aristocratico e feudale, al Centro caratterizzato dalla presenza di un potente ceto borghese, al Sud normanno - svevo e angioino. L’animosità, di cui il torneo fungeva da tramite, era forte; le rivendicazioni politiche fioccavano in continuazione. Il torneo, effettivamente, incarnò l’ideale valvola di sfogo per una gioventù turbolenta, pericolosamente armata fino ai denti, vogliosa di mettere in mostra la propria grandezza familiare e che, quando non aveva una guerra vera da combattere, doveva pur sempre dare prova di ciò che sapeva fare meglio: combattere.



Osserviamo alcuni episodi da vicino.
Nel 1158, nel pieno dello scontro fra l’imperatore Federico I detto il Barbarossa e il papato, i cittadini cremonesi sfidarono i piacentini col pretesto di un "turneimentum" che nella pratica rivelò essere un regolamento di conti fra città rivali con tanto di morti, feriti e prigionieri. Quando il Barbarossa passò per Faenza, espresso il desiderio di vedere in azione i combattenti cittadini dei quali aveva sentito magnificare le abilità, l’esibizione dei cavalieri locali delle loro virtù belliche, per quanto schermata dal pretesto di un torneo, finì per assumere le sfumature di un monito indirizzato il sovrano stesso.
Fu l’arcivescovo Ottone di Frisinga, nel 1157, a dare a questo genere di esercizi militari il nome esplicito di “torneo”. Tuttavia, perché tale definizione si affermasse occorsero altri decenni: basti pensare che ancora nel 1179 il terzo Concilio Lateranense, convocato da papa Alessandro III allo scopo di vietarlo, lo definì genericamente “mischia” e talvolta anche “singolare tenzone”; i cronisti inglesi, chiamandolo “conflitto gallico”, ne certificarono l’area di origine in Francia.
Tra il XII e il XIV secolo, l’assenza di regole e la violenza imperante imposero la necessità di un codice di stampo non solo militare, ma anche morale: il cavaliere avrebbe dovuto battersi con lealtà, nel nome dei più elevati ideali cristiani; soccorrere i deboli, le donne e i poveri. L'ideale del prode cavaliere e i relativi rituali come la conquista della donna amata, elementi caratterizzanti del torneo e della giostra, ispirarono ideali ben presto sublimati dalla letteratura epico-cortese, in particolare delle “Chansons de Geste”: basti pensare ai personaggi del ciclo arturiano o carolingio, come Lancillotto e Parsifal, o il paladino Orlando. Chi non si atteneva al codice d’onore sarebbe stato marchiato con l’onta della fellonia…
…ma in verità, lungi dall’incarnare il perfetto prototipo del cavaliere senza macchia dei romanzi cortesi, quante volte il codice cavalleresco sarebbe stato impunemente violato?



Per la Chiesa non fu facile tollerare lo spettacolo di cavalieri cristiani che si sfidavano, talvolta fino ad ammazzarsi per motivazioni poco onorevoli come l'amore del gioco, del rischio e del denaro; tanto meno gradì le nuove usanze dell’amor cortese, per le quali i duellanti gareggiavano in nome della loro servitù d'amore verso una dama che si concedeva come ricompensa, spesso in senso esplicitamente sessuale, al vincitore. 
Proprio nel momento in cui  la passione per i tornei iniziava a dilagare in tutta Europa, tra il 1130 e il 1131 il concilio di Clermont e quello di Reims decretarono la scomunica per i partecipanti e vietarono la sepoltura cristiana a coloro che avrebbero trovato la morte nello scontro. L'opposizione della Chiesa ai tornei, appoggiata anche, per motivi di ordine pubblico, dalle monarchie nazionali, fu perseguita attraverso una potente propaganda coltivata al fine di allontanare la classe feudale dai suoi ideali originari: i nuovi modelli proposti allo scopo di incanalare tanta violenza gratuita furono le crociate. I papi cercarono anche di imporre periodi di tregua, detti “Paci di Dio”, in concomitanza con le festività cristiane. Ciò nonostante la popolarità crescente del torneo, unita ai numerosi accorgimenti di riforma del regolamento, nel 1281 avrebbe portato la Chiesa ad abolire tali proibizioni.
In conformità con le esigenze del tempo, i tornei diventarono sempre più spettacolari e fastosi: in virtù del pubblico consenso, tra il XII e il XIII secolo essi iniziarono ad ricevere visibilità e spazio anche all'interno delle mura cittadine. Dal punto di vista pratico, il regolamento formalizzò la prassi e la regolamentò sempre più dettagliatamente: le armi da difesa e offesa, i colpi, i vestimenti, le parate, i saluti al pubblico ricevettero una codificazione sempre più complessa, legata a rigidi cerimoniali.
Ciascun cavaliere in gara veniva chiamato dall’araldo al cospetto del pubblico e dell'autorità che aveva indetto il torneo; ne venivano descritte le armi, il blasone nobiliare ed eventuali vittorie. L'esigenza di distinguersi portò alla diffusione dell’uso di colori e di emblemi sugli scudi e le gualdrappe; i cavalli dovevano essere addestrati alla giostra come in battaglia, in sintonia totale coi comandi del cavaliere.



L’incontro si svolgeva entro un recinto provvisto di un paio di ingressi, ai cui margini si accalcavano gli spettatori: frequentemente, su gradinate intorno alla tribuna centrale, nella quale prendevano posto gli ospiti d’onore e le dame. Un palco a parte era occupato dai giudici della gara, incaricati di tenere il punteggio dei colpi dati e ricevuti, di stilare la classifica finale e proclamare il vincitore. Nella prima fase della storia del torneo, lo svolgimento corretto era garantito dagli araldi stessi; in un momento successivo si costituirono apposite commissioni giudicatrici. Se la giostra si svolgeva entro uno scenario urbano, le finestre che affacciavano sulla piazza erano gremite di pubblico e addobbate con di arazzi e di fiori.
Il torneo fu, almeno fino all’affermazione di un ceto medio dotato di cospicue ricchezze, un esercizio a lungo riservato all’aristocrazia: la sola in grado di potersi permettere di sostenere gli ingenti costi che tali competizioni comportavano in termini di cavalcature, di armi e scudieri al seguito. Se nei secoli precedenti aveva prevalso l’uso della cotta di maglia ad anelli, a partire dalla fine del XIII secolo sopra l’usbergo, ossia sulla cotta di maglia completa si iniziò a indossare singole  piastre metalliche, a proteggere ulteriori parti del corpo sia del cavaliere, sia del cavallo. Gli armaioli svilupparono una particolare capacità nell’ideare singole lamine e piastre flessibili. Di conseguenza, il costo di un’armatura su misura di alta qualità era davvero notevole.
L'equipaggiamento dell'animale era comprensivo di sella dall’arcione ampio, per proteggerne il basso addome e a volte anche le gambe del cavaliere; la testiera era molto spessa e copriva gran parte della visuale del cavallo, di modo che non reagisse di propria iniziativa nello scontro.
Il torneo vero e proprio era preceduto dai preliminari o "commençailles", fatti di sfide personali e combattimenti individuali dove i cavalieri più giovani coglievano l'occasione per mettere in mostra le loro capacità. Ad essi seguiva lo scontro di tutti contro tutti, caratterizzato dalla moltitudine dei combattenti e dalle esibizioni dei cavalieri più esperti e famosi.
Nell’attesa dello scontro vero e proprio, nessun dettaglio era trascurato: prima che il cavaliere montasse e iniziasse a duellare, l’equipaggiamento veniva esaminato attentamente. I combattenti erano presentati dagli araldi; talvolta ingaggiavano gare d’insulti e giungevano perfino a invocare Dio per assicurarsi il suo favore: forse si tratta di elementi residui dell’antica ordalia, sopravvissuta ai secoli. Il premio destinato al vincitore del torneo o della giostra era un bene concreto: armi, cavalli, vesti preziose, fino  all’amore di una dama, magari da avere in moglie.
Allo scopo di limitare gli incidenti mortali fu attuata la distinzione tra tornei con armi "à outrance" o armi nude, cioè da battaglia, e armi "à plaisance", o da cortesia, ossia smussate o con la punta coperta. Anche la sequenza nell’uso delle armi prevedeva un codice di regole: lo scontro iniziava con armi lunghe come la lancia, l'asta e la zagara, funzionali a disarcionare l’avversario; seguiva il turno, forse meno spettacolare ma decisivo, del corpo a corpo con impiego di armi bianche come spade, asce, mazze. Il regolamento giunse perfino a considerare il numero di cariche a cavallo e di colpi che ciascun duellante poteva infliggere con ciascuna arma.
Un celebre esempio di cavaliere in carne ed ossa, affermatosi partendo dal nulla, fu quel Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), poi conte di Pembroke, attentamente descritto dallo storico Georges Duby: annoverato tra i più famosi combattenti noti nell’Inghilterra del XII secolo, Guglielmo iniziò la sua partecipazione ai tornei sconosciuto e povero, senza nemmeno avere un cavallo di sua proprietà, ma impressionando fin dall'inizio per la sua capacità di avere la meglio su professionisti più esperti ed equipaggiati: in onore alle sue vittorie sarebbe perfino stato dedicato un poema cavalleresco.
Ben diversa dal torneo, per quanto derivata da esso, è la giostra: la disfida tra due cavalieri che si lanciano l’uno contro l’altro. Preceduta dall’antico "hastiludium", che a partire dall'XI secolo aveva diffuso il concetto di combattimento a cavallo con la lancia, questa pratica di origine tipicamente italica accentuò la tendenza all’esibizione personale, decretandone il successo.
Fuori dal mucchio selvaggio del torneo, che in Italia era definito con l’inconsueto nome di “battagliola”, l’ideale della sfida personale lanciata a un avversario affinché la raccogliesse per non perdere la faccia diventò lo spettacolo più richiesto e più adatto ad acquisire fama, onori e ricchezze.
Approfondiamo le caratteristiche di questa nuova disciplina, originatasi nel corso del XIII secolo.



Il termine “giostra” deriva da “juxta” (vicino) e “juxtare” (da cui “giostrare”). Organizzata, rispetto al torneo, entro uno spazio più circoscritto, la giostra consisteva nel duello individuale di uomini a cavallo. Dal XV secolo, in virtù della sua maggiore spettacolarità la giostra fu consacrata come competizione di maggior successo. Apprezzata presso un pubblico sempre più ampio e variegato, essa assunse un aspetto elegante e sfarzoso, codificato da un complesso cerimoniale idoneo alla celebrazione di vittorie, ricorrenze, accordi tra signori, feste religiose ed eventi mondani: occasione favorevole all’esibizione di armature sempre più ricche e personalizzate, con bardature e colori sgargianti.
In queste occasioni i principi delle corti italiane ed europee usavano inviare in rappresentanza i cavalieri del proprio seguito, se non partecipare personalmente alle giostre; talvolta vi prendevano parte anche i capitani di ventura, approfittando dei combattimenti cortesi per dimostrare propagandisticamente la propria efficienza bellica.
Entro il recinto fu introdotta una barriera divisoria tra contendenti che esaltasse lo scontro individuale e abilità atletiche come la coordinazione e la precisione nell’uso delle armi al galoppo: lo steccato, detto “lizza”, termine derivato dall’antico tedesco, è preso in prestito ancora oggi con riferimento alla scesa in campo per qualsiasi contesa.
Essa prevedeva l’uso di uno scudo di legno rivestito di cuoio, fissato sulla piastra pettorale della corazza e di una lancia “in resta", ossia saldamente assicurata alla corazza, sotto il braccio destro, con il compito di reggere il peso e assorbire parte del colpo inferto.
Al fine di consentire al cavaliere un urto ottimale, nella giostra con divisorio era indispensabile che il cavallo fosse ben addestrato a tenere il galoppo sullo zoccolo destro, da cui appunto deriva il nome destriero. Lo scopo era quello di disarcionare l'avversario con l'urto della lancia, senza colpire l'elmo.
La lancia da cavaliere in guerra era formata da un palo di legno lungo circa 4 metri e pesante diciotto chilogrammi; il suo eccessivo ingombro ne consentiva l’utilizzo soltanto a cavallo. La consistenza più leggera delle lance da torneo, appositamente di frassino affinché si frantumassero al contatto, doveva evitare lo sfondamento dell'armatura del contendente colpito; l’elmo, della tipologia a “bocca di rana”, era costituito da una fessura a protezione degli occhi e buchi per seguire l’avversario al momento dell’impatto.  Anche con questi accorgimenti non mancarono gli incidenti;  tra i casi più celebri si annovera quello di Enrico II, re di Francia dal 1547 al 1559, che durante un torneo fu colpito ad un occhio da un frammento di lancia che in poco tempo lo portò alla morte.
Nonostante tutti gli sforzi profusi, un vero e proprio regolamento standard non dovette esistere mai, se in ciascuna edizione si potevano dettare regole diverse per rendere il torneo più spettacolare, fino a permettere i colpi proibiti. Formalmente, nel combattimento a cavallo era vietato colpire l'avversario sotto la linea della sella, così come nella fase a piedi non si poteva colpire altro che la testa o il busto; in tempi successivi si sarebbe potuto colpire l’avversario anche “sotto la cintola”. Le regole della giostra di Foligno, per fare un esempio, in quest'epoca permettevano di colpire nella visiera, nella baviera e nel petto e perfino le parti basse...




Con lo sviluppo del ceto borghese, soprattutto in Francia e in Italia, dal XIV secolo le classi sociali emergenti fecero di tutto per inserirsi nel sistema feudale; lo scopo fu raggiunto attraverso la sponsorizzazione dei tornei stessi. Le spese venivano recuperate attraverso il commercio: l'afflusso in città di spettatori e duellanti forestieri, infatti, oltre ai benefici ricavati dalla città per il solo fatto di essere sede ospitante, incrementavano i guadagni di armaioli, sellai, maniscalchi, sarti e cerusici a livelli esponenziali. Nel 1330 i borghesi di Parigi organizzano una serie di combattimenti su imitazione perfetta di quelli aristocratici e invitando a prendervi parte le città vicine, riscossero un successo strepitoso. Poco più tardi, un ricco mercante di Tournai organizzò una confraternita di trentuno borghesi ricchi quanto lui, tutti ammiratori dei romanzi del ciclo arturiano: ciascuno di essi assunse il nome di un personaggio letterario, con l’impegno di offrire a turno un banchetto domenicale a tutti gli altri. Fu così che la borghesia iniziò a vantare il diritto di avere uno stemma sullo stendardo personale, un araldo e di partecipare a tutte le cerimonie familiari e religiose degli altri: questa nuova nobiltà avrebbe presto duellato in compagnia di quella di più antiche origini, senza provocare particolari obiezioni. Dal XV secolo, a Firenze la giostra finì per aprirsi a tutti i gruppi sociali: quella del 1406 vide il premio assegnato a un mercenario sforzesco; quella del 1415 annoverò tra i partecipanti cittadini di borghesi come banchieri Bardi e Acciaioli, i Soderini che già erano nobili ma si fecero mercanti per guadagno. Lo stesso andava accadendo a Milano con i Borromeo, allora nobili da poco e neppure del tutto meneghini: passati alla storia come il casato che diede i natali a San Carlo, ai primi del '400 si trattava di una consorteria famigliare di banchieri fiorentini e padovani.
Verso il 1420 erano stati sviluppate armature a piastre complete che includevano pezzi di ricambio, a seconda delle diverse esigenze. Un’armatura completa a piastre in acciaio doveva pesare tra i 15 e i 25 chili: eppure, chi lo indossava non era del tutto impedito dal peso dell'armatura, distribuito uniformemente su tutto il corpo, dal collo ai piedi, per mezzo di un sistema di articolazioni. Il XV e il XVI furono i secoli che più di tutti conobbero armorari dotati di grandi abilità artistiche. I più abili d’Europa erano i milanesi (Pompeo della Cesa, Filippo e Giovanni  Paolo Negroli) e i bavaresi. Col termine “armi bianche” ci si riferiva a quelle di produzione italiana, innovative nell’uso di piastre a coprire quelle giunture che precedentemente erano difese soltanto dalla maglia metallica; per contro, i loro concorrenti tedeschi producevano le cosiddette “armature gotiche”, altrettanto richieste per via delle tipiche scanalature, ideate allo scopo di proteggere dai colpi. Dall’unione tra i due maggiori tipi d’armatura, quella lombarda e quella tedesca, nacque la cosiddetta armatura “massimilianea” (1514), che costituì un modello definitivo da giostra e da battaglia. Fatta risalire all'imperatore Massimiliano I d'Asburgo e realizzata dall'armoraro di Norimberga Lorenz Helmschmied, essa costituì l'archetipo per lo sviluppo delle successive armature a piastre d’età rinascimentale (XVI secolo). Alla fine del '400, proprio l'imperatore Massimiliano I d’Asburgo si era personalmente impegnato nel perfezionamento della tecnica, al punto da essere soprannominato "l'ultimo cavaliere".




A tal riguardo è doveroso citare il “Freydal”, manoscritto con disegni e annotazioni sui sessantaquattro tornei a cui Massimiliano aveva preso parte. Le nuove forme di torneo ed equipaggiamento sportivo a cui l’imperatore Massimiliano diede vita avrebbero fatto nascere i ben noti luoghi comuni moderni sulla pesantezza o goffaggine delle armature “medievali". Nel frattempo si mosse anche l’Inghilterra: l'armatura di Greenwich, voluta da Enrico VIII, fu realizzata da un laboratorio reale inglese che aveva ai suoi servizi artigiani italiani, fiamminghi e tedeschi. Un altro modello, più attardato, legato al nome di Massimiliano II d'Asburgo, ultimo grande committente di armatura scanalate (1557) delineò in  maniera definitiva la supremazia del “design italiano” nelle armature da parata.
In epoca tarda la giostra si sarebbe trasformata in una sorta di esibizione dove atletismo e coraggio contavano sempre meno. Tutta l’attenzione ricadde sulle elaboratissime armature da parata, ideate da veri e propri artisti specializzati. Il tripudio di tessuti e gioielli, di stemmi e imprese cavalleresche, nel Rinascimento tramutò la giostra in vera e propria “sfilata di moda”. Nel XVII secolo il cavalier Marino, famoso poeta barocco, si soffermò ironicamente su un gruppo di cavalieri italiani e stranieri protagonisti di un torneo che agghindati, luccicanti e truccati non avevano più nulla a che spartire con ii loro predecessori; nel famoso don Chisciotte a sua volta, lo spagnolo Cervantes, descrivendo le tragicomiche disavventure di un vecchio hidalgo decaduto, descrisse il definitivo tramonto di un’epoca: la fine della cavalleria, dei tornei, delle imprese, della giostra.
L’eredità del torneo sarebbe dignitosamente sopravvissuta come tradizione nell’ambito di ricorrenze e festività tipiche di molti centri storici, fortemente legati al loro passato. È il caso, tra gli altri, della Giostra della Quintana di Ascoli Piceno: rievocazione storica medioevale con giostra equestre che si svolge la prima domenica di agosto in occasione della festa di Sant'Emidio, patrono e primo vescovo della città marchigiana.



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