Veduta aerea di Pavia (S. Teodoro - B. Lanzani, 1524)
Pavia città dalle Cento Torri:
titolo accostato, nella nostra Penisola, a una miriade di centri storici, primo
fra tutti a San Gimignano e perfino a quella Milano medievale che poi le
perdette tutte.
Generalmente in età comunale in Italia le torri sorsero in città- stato autogestite, dotate di grande prestigio e benessere economico, tanto che nella stessa Pavia già nel 1000 erano venuti a stabilirvisi piccoli nobili titolari di benefici feudali: i Beccaria, i Bottigella; i Gambarana, i Langosco e i Belcredi, che possedevano rocche e terreni in Oltrepò e Lomellina. Il potere di richiamo della ricca città li portò a procurarvisi casa, inaugurando una politica di compromessi politici, tipici dell’ambito centrosettentrionale d’Italia.
Generalmente in età comunale in Italia le torri sorsero in città- stato autogestite, dotate di grande prestigio e benessere economico, tanto che nella stessa Pavia già nel 1000 erano venuti a stabilirvisi piccoli nobili titolari di benefici feudali: i Beccaria, i Bottigella; i Gambarana, i Langosco e i Belcredi, che possedevano rocche e terreni in Oltrepò e Lomellina. Il potere di richiamo della ricca città li portò a procurarvisi casa, inaugurando una politica di compromessi politici, tipici dell’ambito centrosettentrionale d’Italia.
Torre del Maino (51 mt.) le due “dell’Università” (38 e 39 mt.)
Già nel 1121 l’elezione dei primi consoli, di fatto, ufficializzò il periodo di
gestione comunale della città. Fu così che nacque un governo comunale: non una
democrazia, bensì un’oligarchia allargata, promossa da piccoli nobili fattisi
cittadini. Situazione del tutto diversa da quanto accadeva Oltralpe, dove
comuni borghesi (e fondamentalmente, fittizi) furono fondati e sovvenzionati
nientemeno che da re e imperatori.
Le torri pavesi sono oggetti inspiegabili, quasi “metafisici”: a differenza di altre città come Bologna, la documentazione sul loro conto è pressoché inesistente. Il primo autore a parlarcene è d’epoca tarda: Opicino dè Canistris (1330), bizzarro chierico e miniaturista al servizio della corte pontifica avignonese, nel suo “Libellus descriptione Papiae” elencò chiese, monasteri e mercati urbani nella pavia medievale. La ben più celebre testimonianza di Francesco Petrarca, ospite di Ottone Visconti presso la ricca biblioteca del castello (1353-9), ci tramanda una personale impressione di Pavia come città turrita affiorante sulla pianura alluvionale del fiume Ticino. Importante ricostruzione d’epoca, resta la visione a volo d’uccello degli affreschi di Bernardino Lanzani, in San Teodoro (1524).
Le torri pavesi sono oggetti inspiegabili, quasi “metafisici”: a differenza di altre città come Bologna, la documentazione sul loro conto è pressoché inesistente. Il primo autore a parlarcene è d’epoca tarda: Opicino dè Canistris (1330), bizzarro chierico e miniaturista al servizio della corte pontifica avignonese, nel suo “Libellus descriptione Papiae” elencò chiese, monasteri e mercati urbani nella pavia medievale. La ben più celebre testimonianza di Francesco Petrarca, ospite di Ottone Visconti presso la ricca biblioteca del castello (1353-9), ci tramanda una personale impressione di Pavia come città turrita affiorante sulla pianura alluvionale del fiume Ticino. Importante ricostruzione d’epoca, resta la visione a volo d’uccello degli affreschi di Bernardino Lanzani, in San Teodoro (1524).
Mappa cinquecentesca di Pavia
Ben cinque baluardi, rimasti integri, segnano ancora lo skyline pavese
in modo enigmatico e netto. Si ricordino le tre celebri torri di piazza
Leonardo da Vinci: la più alta detta del Maino (51 mt.) dal nome dei nobili che
a lungo la possedettero, e le due “dell’Università” (38 e 39 mt): molto vicine
al limes murario settentrionale, forse esse ebbero il ruolo di vedette
sull’aperta campagna.
Rigorosamente a pianta quadrata, le torri sono collocate fuori asse rispetto al
reticolo viario della città, e perfino tra loro; prive di aperture per tutta la
parte superiore, quasi come obelischi, sono anche le uniche torri, a Pavia, ad
avere accesso al livello del terreno. Per tutte le altre si entrava attraverso
ingressi posti a diversi metri da terra, tramite scale di legno.
Nell’area sudest si protendono altri due “obelischi” in laterizio, meno celebri ma altrettanto spettacolari: murate tra antichi palazzi, la torre di San Dalmazio (41 mt.) e la Belcreda, la più alta in città, che svetta all’invidiabile altezza di 60 metri. Proprio il dislivello che porta al Ticino fa apparire i baluardi a guardia del fiume meno alti di quanto siano realmente.
Nell’area sudest si protendono altri due “obelischi” in laterizio, meno celebri ma altrettanto spettacolari: murate tra antichi palazzi, la torre di San Dalmazio (41 mt.) e la Belcreda, la più alta in città, che svetta all’invidiabile altezza di 60 metri. Proprio il dislivello che porta al Ticino fa apparire i baluardi a guardia del fiume meno alti di quanto siano realmente.
Torri di san Dalmazio (41 mt.) e Belcreda 60 mt.
L’angusta struttura interna esclude la validità bellica di tutte le torri
menzionate, per mancanza di aperture e spazio per viveri e armati: I buchi che
le contraddistinguono non sono feritoie, ma solo buche pontaie create dai
“muratori” per erigerle. L’altezza eccessiva metteva certamente i proprietari
in sicuro, rendendo però impossibile scagliare frecce dall’alto con precisione:
il confronto con le torri di cinta, (non più esistenti) basse e larghe, metteva
allo scoperto l’inefficienza strutturale delle famose torri.
Altre sopravvivenze, sparse nell’antico tessuto urbano, vanno cercate pazientemente tra i vicoli: ed ecco apparire la torre di casa Lacchini e di S. Margherita in piazza Borromeo, di S. Tomaso, dei Catassi, di casa Parona e Martignoni, della Rocchetta, di piazza Cavagneria, della Zecca e molte altre ormai obliate. In concomitanza con la crisi del libero comune (XIV secolo), molte di esse subirono gravi manomissioni; altre andarono distrutte, finché se ne perse il ricordo. Talune torri sono state individuate come caseforti, formate da un voltone unito alla torre e destinate a sbarrare le vie agli angoli delle strade: è il caso di Torre degli Aquila, di Sant’Ennodio degli Isimbardi.
Altre sopravvivenze, sparse nell’antico tessuto urbano, vanno cercate pazientemente tra i vicoli: ed ecco apparire la torre di casa Lacchini e di S. Margherita in piazza Borromeo, di S. Tomaso, dei Catassi, di casa Parona e Martignoni, della Rocchetta, di piazza Cavagneria, della Zecca e molte altre ormai obliate. In concomitanza con la crisi del libero comune (XIV secolo), molte di esse subirono gravi manomissioni; altre andarono distrutte, finché se ne perse il ricordo. Talune torri sono state individuate come caseforti, formate da un voltone unito alla torre e destinate a sbarrare le vie agli angoli delle strade: è il caso di Torre degli Aquila, di Sant’Ennodio degli Isimbardi.
Torre di S. Margherita (18,70 mt.) e di casa
Lacchini (mt 34,50), accorciate.
Le torri pavesi non sono certamente le più alte d’Italia, bensì le più antiche:
tutte databili agli albori del XII secolo, con spessori murari arditamente
sottili e graduali restringimenti a “riseghe”, tendenti a salire. Questi
baluardi, attenendosi a uno slancio nemmeno cercato ma comunque ottenuto, in
un’epoca in cui si facevano cose semplici e belle senza volerlo, furono ideate
per scelta in tutta la loro disadorna semplicità: talmente diverse dall’estetica
deliberatamente ornata e quasi centro italiana di quelle bolognesi.
In assenza di fonti certe, sono queste torri a dar voce ai nobili corazzati e severi che si trasferirono in città in cerca di successo e visibilità: la tendenza feudale a costruire sempre più in alto è una tipica gara per rendersi importanti e potenti agli occhi della cittadinanza.
Eppure, Pavia si distinse da tutte le altre città italiane per la relativa stabilità tra fazioni al suo interno. La conflittualità interna era scarsa; la posizione naturale, difesa dalle mura e dal fiume Ticino, la rendeva tranquilla e pressoché inespugnabile: ricca, in virtù del suo controllo sulle vie di terra e d’acqua, che fin dal regno ostrogoto e longobardo le permisero di commerciare attraverso le vie del Po con Ravenna e Venezia, Bisanzio e la Persia.
In assenza di fonti certe, sono queste torri a dar voce ai nobili corazzati e severi che si trasferirono in città in cerca di successo e visibilità: la tendenza feudale a costruire sempre più in alto è una tipica gara per rendersi importanti e potenti agli occhi della cittadinanza.
Eppure, Pavia si distinse da tutte le altre città italiane per la relativa stabilità tra fazioni al suo interno. La conflittualità interna era scarsa; la posizione naturale, difesa dalle mura e dal fiume Ticino, la rendeva tranquilla e pressoché inespugnabile: ricca, in virtù del suo controllo sulle vie di terra e d’acqua, che fin dal regno ostrogoto e longobardo le permisero di commerciare attraverso le vie del Po con Ravenna e Venezia, Bisanzio e la Persia.
Ponte Visconteo sul fiume
Ticino
In un
tale contesto, nel 1061 l’unità di intenti spinse Pavia a sfidare la rinata e
potente Milano per uno sbocco sul mar Ligure, nella battaglia (dagli esiti
incerti) di Campomorto. L’ostilità all’egemonia ambrosiana e il nobile passato
urbano agevolarono gli imperatori tedeschi a eleggere Pavia città alleata, al
punto che perfino Federico di Svevia qui fu incoronato re d’Italia: proprio
quel Barbarossa che, nel 1158 e nel 1162 rase al suolo Milano, riaffermando il
monopolio pavese.
Purtroppo il simbolo per eccellenza delle virtù cittadine è andato perduto per sempre: la torre Civica, poi campanaria del duomo, eretta nel 1063 e più alta e larga di tutte le altre (73 mt.) al punto da poter ospitare un centinaio di guerrieri sulla sua piattaforma, collassò nel 1989 lasciando dietro di sé dolore per le sue vittime e rimpianti per la mancata ricostruzione.
Testo e foto: Marco Corrias (alias Marc Pevèn)
Purtroppo il simbolo per eccellenza delle virtù cittadine è andato perduto per sempre: la torre Civica, poi campanaria del duomo, eretta nel 1063 e più alta e larga di tutte le altre (73 mt.) al punto da poter ospitare un centinaio di guerrieri sulla sua piattaforma, collassò nel 1989 lasciando dietro di sé dolore per le sue vittime e rimpianti per la mancata ricostruzione.
Testo e foto: Marco Corrias (alias Marc Pevèn)
Ponte Visconteo sul fiume
Ticino
Quando sento parlare di Pavia, mi vengono in mente anche Verona, Milano, Bologna , Ravenna , la stessa Roma e altri grandi centri urbani che devono aver attirato i gruppi continentali in modo irresistibile. Forse la Ticinum tardoantica, a una quarantina di Km. da Milano, (già capitale imperiale) aveva qualcosa in più.
RispondiEliminaGiuseppe
Giuseppe già...città per elezione molto più avvantaggiata tecnicamente di Milano...+ al centro, servita da fiumi e laghi che la collegavano direttamente ad Alpi e mar Adriatico e già sulla via per quello ligure...
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