mercoledì 31 maggio 2017

Canto Barbarico Cap III: Studion





Afoso tramonto di fine maggio.
Pakomios, giovane neofita in tonaca bianca, osserva i riflessi del sole calante infuocare i tetti di bronzo dell’Urbe d'Oriente. Il cielo è cremisi sopra Byzantion, città edificata nei marmi preziosi. L’acropoli svela i suoi monumenti sulle pendici dei sette colli, creati a immagine e somiglianza di Roma antica. Lungo il tracciato della Città Alta colonne onorifiche punteggiano i Fori con archi trionfali, terme e acquedotti; piazze cintate da propilei di basalto, statue equestri fuse nel bronzo. Da più di due secoli gli imperatori hanno spostato la propria sede in un luogo sicuro, lontano dall’ira dei barbari: un nuovo mondo, ai confini con l’Asia Minore.
Osserva Byzantion, la nuova Roma!
E’ ciò che sussurrano i pellegrini, scorgendo le cupole d’oro splendente attraverso il riverbero della steppa.
Ammira la città splendida. Guardala!
I carovanieri, stremati dal viaggio, lo gridano in lingue ogni volta diverse. Persiano, latino, greco, aramaico. Insidia di sabbia e predoni, la Via della Seta è un ricordo lasciato alle spalle. La megalopoli, avamposto del mondo civile, spalanca i suoi mille portali ai viaggiatori.
Byzantion si schiude come il ventaglio di un faraone.
Qui, dove il Mar Nero si sposa con i flutti del Mediterraneo, Oriente e Occidente mettono al mondo un prodigio inatteso: un immenso teatro affacciato sul golfo, solcato da candide vele.
Le insenature accolgono flotte di navi da guerra alla fonda; dromoni slanciati, trireme dai rostri appuntiti: tendaggi di lino appena agitati dai tiepidi sbuffi dello scirocco, una selva di vele multicolori.
Cultura greca e ingegno romano, disciplinati da leggi divine.
I gabbiani planano, volano in cerchio sulle geometrie pure dei grandi palazzi neoellenici; i raggi del sole al tramonto mettono in luce le sfumature di trenta e più qualità di marmi diversi.
Muraglia zebrata di pietre e mattoni, barriera di torri poligonali: è l’estremo baluardo a strapiombo sul mare. La cima isolata di Belisaryon invia segnalazioni ai naviganti; la sacra cappella di Pharos si nutre del dogma esalato dalle antiche reliquie portate fin qui dalla Terra Santa.
Retaggio della Nuova Roma: come la luce di un faro che illumina il mondo di fede cristiana.
Pakomios sbadiglia. Appoggia i gomiti sul parapetto, osservando dall’alto del ballatoio. La sua posizione è privilegiata; dalle terrazze del monastero, silente dimora dei confratelli, il suo sguardo spazia fino all’insenatura del Corno d’Oro.
Complesso di Studion.



Sede del culto, fortezza del radicalismo cristiano più intransigente e ortodosso. Il novizio sgranocchia una focaccia calda.
“Miele e semi di sesamo…eccezionali”.  Frumento caldo appena sfornato, trovato per caso giù alle cucine.
“Non è un furto” Pakomios cerca di persuadersi. “Res nullius, primi possidentis”.  Aforisma latino, parte del corpus di leggi imperiali: le cose prive di proprietario spettano al primo che le ritrova.
Il sole calante gli illumina il volto. Pelle liscissima, sguardo rapito, Pakomios non pare votato alla vita claustrale. Il suo aspetto è da giovane amasio, di quelli che si offrono a carissimo prezzo al trastullo dei ricchi mercanti del porto antico.
Byzantion, sensuale miraggio di porpora e oro.
Città di mare, assuefatta all’avorio e alle spezie, profuma d’incenso, mirra e legni combusti di sandalo e cedro; talvolta i quartieri alti esalano perfino aromi d’oppio e di altre essenze inebrianti.
L’ambra, invece, arriva per vie di terra: dal freddo mar Baltico, con schiavi e pelli trattate. I bizantini sono grandi maestri negli affari e si sa, dove fiorisce il commercio prosperano anche il vizio e la corruzione.
Lo sguardo del giovane è abbagliato dai raggi dell’immensa cupola di Hagia Sophia e dai mosaici del palazzo proibito della Magnaura.
Porte bronzee, sempre sbarrate.
Soldati barbarici montano la guardia a turno, di fronte ai battenti dipinti col volto splendente del Cristo pantocrator.
“E’ lì che risiede l’imperatore”.
Delegato di Dio in terra, è il tredicesimo apostolo. Il basileus.
Oltre l’acropoli, un gruppo di giovani donne avvolte di seta, sfilando a braccetto si lascia le terme di Zeuxis alle spalle; scivolano lungo la via della Mése, che taglia in due la città. Pakomios contempla le vesti fruscianti; respira a pieni polmoni le essenze pregiate che arrivano fino alla  terrazza.
“Si dirigono verso le stoài”.
Porticati di marmo a due piani, dove la gente s’incontra al calar della sera; spazi in cui si commercia e contratta sul prezzo di spezie, tessuti e profumi.
Istrioni italioti declamano rime; schiave d’Irkania dalla pelle bronzea volteggiano al suono dei flauti efthaliti. Veggenti decrepite, in mezzo alla via, predicono il fato ai superstiziosi.
Plebei, aristocratici, servi affrancati. Tutti si danno ritrovo all’ombra di antichi cipressi, sotto le candide stoài colonnate.
Un fachiro ghassanide incanta i crotali del deserto: afferra le serpi cornute a mani nude e premendone i denti spilla il veleno mortale in ampolle di vetro.
“Quanto darei per sguazzare nel sudicio caos della gente libera…”
Il giovane sogna a occhi aperti. Vorrebbe librarsi nel vento tiepido, oltre le mura del monastero, per assaporare il suo desiderio più grande.
La libertà.
Eppure qualcosa lo ferma. Lo ostacola.
Perso lo slancio, abbassa lo sguardo sulla sua tonaca bianca.
Casto candore, alimenta i dolori: riflette una realtà dura, imposta per regole austere. La colpa non è solo dei voti presi nel chiostro; spesso la veste talare, ambiguo pretesto di canapa e lino, cela misteri più oscuri.



La folla si scosta: apre la via a una quadriga falcata, trainata da sei purosangue. Il carro è scortato da un gruppo di cavalieri che tengono alto il vessillo giallo e cremisi del patriarca d’Armenia.
«Àghios o Theòs, kài patèr tòn olònnnn”. . .
Santo è Dio e padre di tutte le cose…
In quello stesso istante, alle sue spalle si eleva un coro di voci. I confratelli del monastero di Studion innalzano lodi: notte e giorno, celebrano a turno l’ufficio divino.
«Àghios o Theòs, ou è boule teleitai apo tòn idiòn dunameònnnn”.
Santo è Dio, la cui volontà si compie per mezzo della sua potenza. Cantano, senza sosta. Pregano insieme, per sé e per gli altri: unico modo per assicurarsi la protezione del Cielo sulla città sacra.
«Àghios o Theòs!» ribadisce una voce stentorea, sul ballatoio. Il novizio si volta; di fronte a lui spicca una sagoma.
Theodoros.
Theodoros studita, l’egumeno. Uomo guida del monastero: retto e severo, campione indiscusso dell’ortodossia.
«Si può sapere dove ti eri cacciato?»
Barba a cassetta, ferrigna; capelli rasati. Theodoros indossa una candida veste trapunta di emblemi con i Sacri Testi. Nella mano destra stringe un bastone rituale di legno scolpito: la palitsa.
«I tuoi confratelli effondono mirra, il rito è imminente» lo avvisa. «Senza di te chi effonderà le note più alte?»
Pakomios è il virtuoso del coro di Studion: senza il suo avvio di due ottave la messa cantata non può avere inizio.
Passi lenti sul ballatoio. L’egumeno avanza, si appoggia anche lui alla balaustrata. Osserva i riflessi del sole calante sulle acque marine del Corno d’Oro. Il giorno ha ceduto il suo trono alla sera, fragrante di gelsomini in fiore. Torce e lucerne prendono vita, Byzantion si accende: come ogni notte, il mondo galante delle stoài è pronto al risveglio.
Theodoros scorge il gruppetto di etherai: puttane di lusso, lungo la via. Il linguaggio dei loro corpi sinuosi e adorni d’argento attira i clienti come  api sul miele.
«Ragazzo, guardavi le lucciole?»
Tutto ad un tratto Pakomios si accascia. Non sa cosa dire.
«E chi non le noterebbe?» Theodoros si affligge. «Il loro inganno è talmente sensuale da indurre in peccato perfino un santone”.
Vestite di seta e gioielli, doni preziosi di ricchi amanti.
Byzantion, adagiata sul mare dei tuoi peccati...sei la nuova Babilonia!



Lo sguardo severo del padre dei monaci torna a posarsi sul ragazzino. Il suo aspetto, aggraziato, ha un che di femmineo.
«Ragazzo, non hai più voce? Hai perso la lingua?»
La lingua c’è ancora, in fondo alla bocca. Ciò che il novizio ha perduto per sempre è di altra natura.
Pakomios non ha più i genitali.
Androgino, glabro…il fanciullo è un eunuco; in quanto tale, non ha più facoltà di concupire, né di concepire.
Il padre di Studion riconosce il suo sbaglio. «Beati coloro che si sono fatti angeli per la salvezza delle nostre anime». Appoggia due dita sulla fronte del neofita.
Eunuchi: voci apprezzate fin dall’infanzia. Il canto claustrale è una virtù da coltivare; così accade che a Oriente, col benestare dei parenti, la lama tagliente del castratore infranga un dono virile ancora innocente, imponendo la mutilazione dei genitali.
Soprano leggero, solista. La crescita non potrà più alterare il tuo dono prezioso. Manterrai una voce paradisiaca, per tutta la vita.
Fragore di zoccoli sul lastricato, nella via sottostante. Il carro-lettiga si ferma all’ingresso del monastero.
Stendardo giallo e cremisi. Theodoros, spiazzato, aggrotta la fronte.
“Domiksios d’Armenia?”
L’anziano patriarca del regno autonomo è il nunzio imperiale; il basileus ordina, lui esegue. In questo periodo però Domiksios è lontano da dalla capitale. "Chissà in quale terra straniera". Forse la Persia, sussurra qualcuno.
«Vieni con me, è tardi”.
L’egumeno porge la mano al neofita. Scendono insieme al piano inferiore; un’aula sorretta da colonnati di marmo bianco. Qui gli studiti hanno eretto una biblioteca in cui esercitare lo studio e la lettura dei Sacri Testi.
Oltrepassano lo xenodochion: l’ospizio per i malati. La carità a Studion è praticata su larga scala, in forma di pia ospitalità ai derelitti e assistenza agli infermi.
Rinuncia, preghiera, obbedienza: armi di fede contro il demonio e le sue tentazioni.
Il complesso è gremito di adelphoi. Ospita fino a trecento confratelli greci, siri, copti e latini. Comunità mista di soli uomini.
Al passaggio del padre i monaci s’inchinano in segno di deferenza. Ognuno interrompe le proprie mansioni, unendosi al gruppo. Scendono insieme nel refettorio: un ambiente ampio e spartano, scavato nel tufo.
E’ qui che consumano i pasti in comune; è qui che si celebra l’eukharistìa, in memoria dell’Ultima Cena.
«Kiriakos, Euphemios, Talasios, Elias…»




Theodoros si siede su un piccolo trono. Conta le vesti, esamina i volti: pallidi, neri, abbronzati, olivastri. Tutti i colori del Medio Oriente.
«Targastes, Euphronios…Pakomios! Corri in mezzo agli altri”.
Poi, rivoltosi a tutti «s’innalzino canti celesti!»
La cerimonia può avere inizio.
«Àgios o Theòs, kài patèr tòn olòn».
Pakomios dà inizio alla litania. Le ugole bianche degli altri coristi gli vengono dietro.
«Kyrie eleison - Christe eleison - Kyrie eleison».
Signore Pietà. Cristo, pietà. Signore, pietà. In alto le voci, scandiscono in coro l’invocazione.
«Àgios o Theòs, ou è boule teleitai apo tòn idiòn dunameòn».
Salterio miniato alla mano, l’egumeno detta i tempi, indicando quando cambiare tonalità.
«Kyrie eleison - Christe eleison - Kyrie eleison».
Preghiera rivolta al Creatore e a suo Figlio, esprime pietà e riconoscenza.
Il pathos aumenta. Occhi socchiusi, Theodoros sussurra.
«Perdona gli errori commessi, assolvi i peccati. La strada è tortuosa, per noi che scontiamo le pene di questo mondo attraverso l’ascesi e la continenza”.
Muro di voci ipnotiche, l’ufficio prosegue. Il padre bisbiglia a mezza voce.
“Il male: una scelta che nasce da noi, dal nostro libero arbitrio”.
Subentra un vuoto assordante: il silenzio della riflessione.
Eukharistìa.
«Il Signore prese il pane, lo spezzò e disse: prendete e mangiatene».
L’egumeno osserva i suoi figli sfilare in silenzio. «Questo è il mio corpo, offerto per voi. Fate questo in memoria di me».
Spezza forme di pane azzimo per distribuirle ai neofiti, ai cellerari, agli archimandriti: a tutti i ranghi dell’ovile di Dio. Versa sorsi di vino puro nelle coppe di terracotta.

Bevetene tutti, questo è il mio sangue.
Il sangue del patto, versato per molti,
in remissione dei vostri peccati.
Tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me.




Rendono grazie al Signore, in ricordo della Passione e della sua Morte. Concluso il Vespro, a fine giornata il pathos si scioglie. Gli adelphoi, divisi per gruppi, si scambiano massime, scherzi e facezie. Eppure stasera qualcosa non é destinato ad andare come al solito.
Sbigottimento, paura inattesa. I confratelli studiti non sono da soli...
Estranei nel refettorio. Nessuno finora li aveva notati: disposti in silenzio come ombre funeste, si appoggiano lungo le quattro pareti dell’aula. Criniere selvagge, barbe affilate. Visi pallidi come la morte.
Lupi nell’ovile di Dio. Barbari!
Elmi, usberghi, anelli di ferro. Lance appuntite, kontharia.
La vista delle armi nel chiostro suscita orrore, tracciando espressioni allarmate sui volti dei monaci.
Fruscio di tessuti, sul pavimento: fasciato di porpora e oro alla stregua di un mago persiano, un giovane dall’incarnato bronzeo procede in mezzo alla stanza. Una mitria preziosa, a cingergli il capo, rivela il suo alto rango sacerdotale.
Dall’alto della sua cattedra l’egumeno valuta il nuovo arrivato. È d’aspetto atletico e raffinato: a prima vista rispecchia l’immagine del tipico uomo di corte, elegante e frivolo.
Arcidiacono.



Un nuovo affiliato all’élite ecclesiale.
“Non trovo nulla di ascetico in  questo cicisbeo di palazzo,  arrampicatore sociale”.
«Beatissimo egumeno» esordisce l’intruso «non scomodarti”.
Accento straniero: voce soave, oscure intenzioni. I suoi occhi, mobili e gialli, appena sfumati di resina ambrata.
«Vedo che a Studion si mangia bene!» esclama, con insolenza. Con un balzo felino scavalca le panche, esibendo un’agilità inusitata per un sacerdote.
«Sìsighis, e voi altri» rivolgendosi ai soldati «non privatemi della vostra buona compagnia!»
Il tourmachos, caporeparto, indossa una maglia di ferro e una spada lunga legata alla cintola. Il suo ghigno mostra il biancore dei denti aguzzi, sotto una barba di fuoco. Un semplice gesto del suo pugno ferrato e i guerrieri conquistano la tavola con irruenza: i lineamenti del padre di Studion s’irrigidiscono come pietra.
Questi uomini non vengono in pace.
«Come osate?» Timore e biasimo nella sua voce. «Armi e infedeli in un luogo santo!»
L’arcidiacono balza giù dalla panca, sfoderando un sorriso velenoso.
«Santo, tu dici? Il tuo chiostro, tanto meno gli arredi con cui celebri i riti sono mai stati consacrati”.
Detto questo, si toglie la mitria dal capo, dando sfogo a un tripudio di riccioli neri.
Profilo da giovane auriga.
Eppure nel crine corvino s’insinua una spruzzatina di fili d’argento.
«Tu e i tuoi adelphoi» sorride con spregio «non avete mai pronunciato voti validi di fronte al Clero”.
Il brusio si diffonde tra gli studiti. Sempre più forte, diventa frastuono.
“La sua lingua punge come le ortiche di mare” osserva Theodoros.
Studiti, nient’altro che laici.
Comunità autonoma in lotta perenne col mondo corrotto. Campioni di Fede, hanno compiuto una scelta di campo: i fratelli non vivono più nel deserto, bensì tra la gente.
Nell’Urbe, in aperto conflitto con la Chiesa ufficiale: il patriarcato.
«Siamo laici, e ne andiamo fieri”. Il tono dell’egumeno è sprezzante. «Tu, invece, che hai l’ardire di irrompere a Studion con le armi in pugno, chi mai saresti?»
Il giovane mostra le dita della mano destra, cariche d’anelli d’oro.
«A Byzantion usate chiamarmi nella vostra lingua» l’arcidiacono risponde, senza scomporsi «ma il mio vero nome rimane un mistero per chi non conosce i più antichi idiomi”.
Sorriso beffardo, stampato sui denti bianchissimi: la sua arroganza alimenta nuovi brusii. Theodoros si liscia la barba a cassetta; ripensa alle voci che girano a corte…
Già, adesso ricorda. Heraklios di Mren, il giovane armeno ordinato arcidiacono. Poeta e filosofo, artista. Eclettico, esperto di storia e mitologia.
Pronipote del patriarca Domiksios, il ragazzo ha speso la sua adolescenza sui libri; messosi in luce tra i ranghi del clero, il brillante straniero ha dato inizio alla propria scalata alle gerarchie di palazzo, suscitando non poche invidie.
“Sete di gloria, lo infiamma come una torcia imbevuta nell’olio di pietra”.
«Sul tuo conto circolano storie inconsuete”. Il vecchio solleva la brocca del vino eucaristico. «Molti mettono in dubbio la tua sincerità in materia di Fede…»
Assiduo lettore di testi proibiti. Eretico, spia, ciarlatano.
«Altri diffidano perfino della tua integrità…sessuale”.
L’egumeno assaggia il vino. E’ dolce, come il sapore della rivalsa.





«L’invidia si nutre di maldicenze, beatissimo egumeno» Heraklios sorvola «dicerie per la plebe ignorante. Ciò che è necessario sapere di me è sotto la luce del sole”.
Lo studita tracanna un altro sorso, studiando il suo avversario. Giovane e vecchio si concentrano sulle prossime mosse a disposizione.
«Come sta il vecchio Domiksios? Non ho potuto fare a meno di notare che lo zietto ti ha ceduto il suo carro e perfino il vessillo episcopale!»
Come dire, sei un raccomandato senza talento.
Le malelingue insinuano, giorno e notte, come tagliole invisibili.
Lo scribacchino che, giunto alla soglia dei trenta, scribacchia libelli di poco conto: racconti privi di gusto per donne frivole e omosessuali.
E’ davvero questo che pensano a corte, nel tempio…tra i dignitari e il clero?
Il giovane perde la pazienza. Il suo sguardo spazia in cerca delle armi delle sentinelle: all’idea del sangue dei monaci sparso sul pavimento, le sue iridi luccicano come il topazio.
«Vecchio, vuoi forse sfidarmi?»
“Attieniti al tuo incarico” sussurra la voce della coscienza. “Desisti dalla violenza, o macchierai la tua reputazione”.
«Proprio Domiksios mi ha inviato qui, con la carica di mystikòs”.
Segretario, maestro di leggi e ministro del fisco imperiale. Theodoros attende in silenzio. Il rispetto delle gerarchie è ristabilito.
Heraklios si guarda attorno «Monaco, ti porto notizie private”.
«Con i miei figli non ho segreti» ribatte l’egumeno. Il disappunto  oscura il volto dell'arcidiacono; Theodoros non gli dà scelta.
«L’esercito si è ammutinato. Priskos dei Priskòi, lo stratego, ha letto alle truppe di stanza in Siria un decreto firmato dal basileus. Li ha messi di fronte al fatto compiuto”.
La crisi impone un drammatico taglio. La decurtazione dei salari.
«I soldati hanno abbattuto le insegne imperiali. Di fronte alla loro reazione Priskos è fuggito al galoppo dall’accampamento”.
Gli studiti restano col fiato sospeso.
«Proprio così!» sibila Heraklios. «Il vigliacco ha lasciato il campo senza comando, in balia dei persiani!»
La sua voce esprime un senso di urgenza. Guerrieri imbattibili spingono da est. I sassanidi avanzano, come un miraggio di morte.
Catafratti.
Cavalleria corazzata, ammantata di piastre di ferro. Scagliano frecce al galoppo come pochi altri al mondo.
Qualcuno sussurra «la fine del mondo è vicina”. Theodoros, invece, sorbisce il suo vino con freddo distacco.
«Ragazzo, delle vostre guerre ci importa poco”.
«V’importa poco, tu dici?» Heraklios sussulta. Il suo pensiero va alla terra natia, che un tempo fu il glorioso regno di Urarthru: ora è soltanto un coacervo di naxharar o feudi sparsi. L’Armenia, sua terra natia pregna di fede e misteri, aspramente contesa e smembrata in province greche e persiane, di fatto, non esiste più.
«I cristiani d’Armenia giacciono sotto il giogo del fuoco persiano e tu ostenti indifferenza?»
«Gli armeni? Bah!» insinua l’anziano «non siete poi meglio dei molli persiani. Avete adottato i loro usi e costumi…per non parlare poi della magia!»
«Vecchio, la tua memoria è labile. Quando voi gioivate del sangue dei martiri del Colosseo, noi eravamo già ferventi cristiani!»
«Giovane stolto, non voglio ascoltarti…per nostra fortuna abbiamo la Trinità dalla nostra parte» contesta l’egumeno. «Abbiamo le nostre preghiere”.
Suppliche al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.




«Avete le icone, al disopra di tutto» Heraklios storce la bocca «è così, beato egumeno?»
Theodoros guarda dritto in quei suoi occhi ammalianti. Fin dove intende spingersi?
«Colei che vi guida. Dov’è?»
Domanda secca, accresce l’urgenza. I confratelli si alzano in piedi, chiudendosi in cerchio attorno al loro padre spirituale.
Theodoros è allarmato. «Al sicuro, lontana da sguardi indiscreti. Per quale motivo vorresti saperlo?»
«L’imperatore chiede notizie sulla sacra immagine della sua Signora» rivela Heraklios. L’egumeno osserva i barbari: la vista delle armi e delle armature lo nausea.
“Sono laidi e brutali…ma non oseranno”.
Usare violenza nel chiostro provocherebbe reazioni violente da parte del popolo intero: di questo ne è certo.
«Confido nel vostro buonsenso…e nell’assennatezza del basileus» esclama Theodoros, sempre più inquieto. «Vogliate seguirmi».
Monaci e barbari accedono al chiostro. E’ buio, spartito in navate da tre file buie di colonnati. Sull’altare, nel fondo, qualcosa risplende.
Visione divina.
Avvolta di stelle in un manto blu notte.
Vestita di cielo, Hodighitria.
Colei che mostra la via è un’apparizione dolcissima. Bellezza pensosa, tiene nel grembo il Figliolo divino: il suo sguardo di madre oltrepassa i fratelli studiti, posandosi sui mercenari. Di fronte al metallo delle armi i suoi occhi si riempiono di malinconia.
Heraklios trattiene il respiro: la Vergine lo sta fissando. Un brivido gli sale lungo la schiena. L'egumeno si china, in gesto d’ossequio.
«Fratelli, preghiamo».

Tu che sei misericordiosa e hai operato la nostra salvezza
fosti come la bocca e la voce dell’icona.
Così, dopo aver concepito Dio, cantasti per noi l’inno:
d’ora in poi tutte le generazioni ti chiameranno beata.
Noi crediamo davvero che tu abbia detto questo, Sovrana
che sei con noi per mezzo dell’icona.




Ritratto su tavola, fra tutte le immagini è la “non dipinta”.
La non dipinta da mano umana.
In fin dei conti, soltanto un’immagine. Eppure tutti, perfino i guerrieri percepiscono la sua essenza incarnata, come se fosse lì insieme a loro.
“Soltanto un pennello divino può definire con tale finezza un’entità astratta e allo stesso tempo reale”.
L’ovale del volto santo è dolcemente delineato; lo sfondo risplende d’oro puro.
Maria e il suo ruolo chiave di intermediaria tra Dio e gli uomini.
Studion conserva l’icona sacra della patrona: l’unità della fede è sotto il suo oracolo.
«Hodighitria» sussurra Heraklios. I suoi occhi, lucidi, hanno preso il colore del miele scuro.
«Colei che mostra la via» replica Theodosios, alzandosi da terra.
L’immagine brilla di luce propria. Trasmette un senso di pace interiore, oltrepassando la percezione del mondo reale.
«La via…per la vittoria!» esclama l’arcidiacono.
Sguardi interrogativi. Tra i monaci serpeggia la preoccupazione.
«Beati i vostri occhi perché vedono, e le vostre orecchie ascoltano”.
La voce del mystikòs echeggia nel chiostro buio. «In verità io vi dico che molti giusti desiderano vedere ciò che voi avete ogni giorno sotto gli occhi”.
Una coppia di barbari si apre la strada nel chiostro; portano in spalla un sacco pesante.
«Frussssssssssssschhhh!»




Cascata di solidi aurei sul pavimento: conio imperiale, col impresso il volto stilizzato del divo Maurixios. I nomismata splendono, tintinnano sotto gli occhi degli studiti. Il fragore dell’oro s’insinua tra gli spiragli del loro subconscio: gioca con i riflessi di brame sopite.
«Figli miei, non osate toccarle! Sia maledetto il denaro di Giuda!» Theodoros scuote il suo bastone di legno.
«Taci, vecchio!» irrompe l’armeno. «Quante opere pie realizzeresti con quest’offerta? Pensaci bene!»
Offerta? Corruzione! «La sacra icona è intoccabile!» tuona Theodoros.
Con quale diritto la esigono, a che scopo? Il duo valore non di misura con il vile denaro!
«L’effigie mariana sostituirà la Vittoria-Nike sui nostri vessilli!» rivela Heraklios.
Maria, icona vivente. Condottiera, protettrice di tutto l’esercito.
Vertice di un nuovo pantheon cristiano.
Gli archimandriti non possono credere alle loro orecchie. Lo splendore di un’icona sacra può prostrare i ribelli; il prestigio di un’immagine autentica ha il potere di ristabilire il consenso sotto l’egida di una fede teocratica.
«La porteremo in viaggio: di fronte alle truppe di stanza in Siria”.
«Non potete» si oppone l’egumeno. «La Vergine è nostra….la sua luce alimenta le speranze del popolo!»
«Ah si?» l’arcidiacono sorride «e quando i persiani accerchieranno Byzantion, chi vi salverà dall’ira della gente?»
Theodoros scuote la testa, impaurito. Heraklios scoppia in una risata folle. «Le parole del Signore hanno detto in sogno al suo imperatore: In hoc signo vinces!»
Quando è il simbolo sacro a designare il trionfatore.
Schiocco di dita del giovane armeno. «Krodgang, Aistulf, Fuldrad, Theudulf!» Nomi crudeli da mercenari  Lo sgherro Sìsighis li chiama all'azione: hanno tutta l'intenzione  di rimuovere l’icona dall’altare.
«Nooo!» grida l’egumeno, con tutto il fiato che ha in corpo. «Figli miei, aiuto!»
I monaci insorgono; giovani e anziani creano un cordone, sbarrando la strada verso l'icona.
I guerrieri brandiscono le armi; una tragedia é prossima a consumarsi.
Lo scudo umano dei neofiti s'infrange  sulle punte delle lance. «Arghh!!»
Il primo a cadere è Pakomios. Il suo corpo leggero è trafitto dal ferro.
Beati coloro che si sono fatti martiri per la salvezza delle nostre anime.
Davanti agli occhi dei barbari il pavimento si tinge di rosso: sangue,  negli uomini-lupo provoca uno stato di frenesia estatica legata all'istinto di caccia.
Theodoros va incontro all’icona: la vuole salvare a tutti i costi. Qualcuno lo afferra per i piedi, sbattendolo con violenza contro il pavimento. É Sìsighis. Il barbaro lo tempesta di pugni allo stomaco e al volto: lo sguardo della Madre di Dio si posa sui suoi figli con  rinnovato dolore.
«Aiuto! Percuotono a morte il beato padre! Signore nostro, aiutaci!»
Grida di monaci, cariche di rabbiosa sofferenza. Theodoros si aggrappa all’altare con tutte le forze di cui dispone.
«Kyrie eleison - Christe eleison - Kyrie eleison”.
Signore Pietà. Cristo pietà. Signore, abbi pietà di noi…echeggia da ogni parte, moltiplicando le voci nelle volte buie del chiostro.
«Basta!»
La voce di Heraklios echeggia nel chiostro; non riesce a contare il numero dei corpi riversi al suolo. L’esaltazione nei suoi occhi gialli si è spenta. Non immaginava che si potesse arrivare a tanto.
«Basta così». La madre di Dio é infine  rimossa dalla sua alcova. I barbari la fissano in cima a una lancia, come fosse un'insegna di guerra.





“Doveva pur succedere” riflette l'arcidiacono. “Non si può disobbedire all'imperatore”.
«Giuriamo sull’icona!» tuona Heraklios. «Imploriamo la sua grazia e la vittoria! E’ il basileus che lo vuole!»
I barbari rispondono in coro «salva te stessa, e noi insieme a te!» invocando un intervento miracoloso. Reclamano guerra: una Guerra Santa.
I monaci si coprono il volto. Piangendo, scandiscono la litania.
Signore Pietà. Cristo pietà. Signore, abbi pietà…!”
…Theodoros di Studion si straccia le vesti sanguinanti. Ha perso lo scontro, non l’orgoglio.
«Heraklios di Mren!» con tutto il suo odio «ciò che si dice di te é vero! Preferisci il demonio al bene, la menzogna al parlar sincero. Tu hai portato la rovina, e presto Dio ti colpirà!»

“I profanatori che avranno oltraggiato le icone e il santo culto che gli viene attribuito - i nemici inorgogliti dalla loro empietà - verranno spezzati e gettati a terra da Dio!”

Parole che echeggiano come una maledizione; Heraklios risponde con un volgare scongiuro. Il drappello esce dal monastero, lasciandosi le imprecazioni degli studiti alle spalle.
“I monaci vanno orgogliosi della sacra icona: io gliel’ho tolta”.
Fuori dal tempio un drappello di guardie imperiali é in attesa.
«Narsêh!»
Un gigante di bronzo, guerriero possente; corazza incrostata di sale, cranio rasato  imperlato di sudore e sciabola alla mano, anche Narsêh è un esponente di spicco della comunità armena di Byzantion. La carica di protospatario, comandante della guardia imperiale, è il giusto premio per una vita trascorsa sulle navi da guerra al soldo del basileus.
«Heraklios, amico mio» i suoi denti sono bianchissimi. «Perché mai quel volto stanco?»
«Mi sono guadagnato nuovi nemici a causa di un ordine imposto da un sovrano straniero» sussurra il diacono. «Avakh paratzes antsavorin!»
Sono lontani i fasti del passato.
«Non dire così» gli assicura Narsêh «l'età dell'oro, per noi, prima o poi ritornerà.
Il protospatario sprigiona energia positiva; lui è il solo di cui il diacono può fidarsi.
Gli incensi s’innalzano al loro passaggio, finché non raggiungono il carro-lettiga di Narsêh.
«Considera pure, amico mio, che ora hai ben altro a cui pensare...”.
L’arcidiacono fissa il guerriero con sguardo interrogativo. Il protospatario si sfila una pergamena da sotto il mantello e gliela consegna; i suoi lineamenti severi tradiscono un'espressione lievemente compiaciuta.
Heraklios rompe il sigillo e apre la pergamena all’istante. La cartapecora è nuova, intonsa: lo stilo non pare averla scalfita.
«Che mistero è questo?»
«Shhtt!» il protospatario sussurra. «Non qui, in mezzo alla strada!»
L’arcidiacono si volta, guardandosi attorno con circospezione. Stretti attorno all’icona rubata, alle loro spalle loro procedono i barbari.
«Non scoraggiarti, sali sul carro» Narsêh sembra esistere apposta per rassicurarlo nei pochi momenti di smarrimento. «Ogni cosa a suo tempo. E posso giurarti, quando saprai che occasione ti si offre, allora me ne sarai per davvero grato…»



Tratto dal capitolo III di Canto Barbarico
Romanzo storico di Marco Corrias: chi fosse interessato può contattare l'autore.



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