martedì 8 gennaio 2019

La caccia nel medioevo: dal rito arcaico alla moda cortese



Medioevo Misterioso 2017
Marco Corrias

L’alba del Medioevo fu un’epoca piena di insidie, dominata da preoccupazioni costanti: prima fra tutte, la lotta per la sopravvivenza. Con l'arrivo dei Longobardi, il più feroce tra i popoli barbari, dal 568 d.C. nobili ”farae” calate in Italia dalle Alpi nord-orientali si presentarono agli italici superstiti come tribù animate da un’etica fondata sul coraggio e l’esaltazione ferina. Se presso l’Italia costiera occupata dai bizantini, dediti all'allevamento intensivo e alla pesca, l’interesse per la caccia era pressoché ininfluente, nell'entroterra germanizzato l'attività venatoria fu parte integrante di una quotidianità fondata su riti tribali volti ad esaltare gli antichi dei della guerra: la sua centralità nella formazione dei giovani arimanni affonda le radici nei primordi della tradizione indoeuropea. Lo spazio consacrato alla caccia era la foresta: luogo di tenebra materiale e astratta, rifugio di belve e paure inconsce riservato all’avventura e al superamento di riti di passaggio. Chi ne usciva trionfante diventava guerriero, oppure riacquistava l’onore che per qualche motivo aveva perduto. Chi, invece, pur sopravvivendo ai tranelli del bosco, vi soggiornava per troppo tempo, rischiava di perdere la sua umanità. L’anonimo autore del “Beowulf”, noto poema sassone del VII secolo, riferendosi al destino dell’eroe narrava: “ora lotta coi draghi e coi lupi, ora con gli orchi che stan tra le rocce; ora con tori, orsi, cinghiali e giganti che dagli alti dirupi lo inseguono”.  Tutto ciò significava che, a forza di inseguire belve, prima o poi il guerriero stesso avrebbe rischiato a sua volta di tramutarsi in “orso della sera o lupo mannaro” ossia in qualcosa di incontrollabile. Il rapporto complesso e ambivalente quando non addirittura simbiotico con la bestia selvaggia è descritto in maniera efficace nella Völsunga saga, dove il rito iniziatico consisteva nell’impadronirsi di pellicce che una volta indossate, permisero agli eroi di divenire lupi mannari. Anche lo storico longobardo Paolo Diacono narrò dei cinocefali, guerrieri dalla testa di lupo bevitori di sangue umano, invincibili quanto temuti e perciò emarginati dalla società civile.
La stima nutrita dai barbari verso il lupo e l’orso era tale da chiamare i propri figli con nomi composti da una doppia radice: l’appellativo totemico di “Beo + Wulf”, per esempio, era destinato ad attirare sul nascituro le qualità delle due belve ammirate, nonché il favore dei loro spiriti tutelari.
Il rapporto tra caccia e guerra nel Medioevo risulta chiaro: l’una è sorella dell’altra. Soprattutto in tempo di pace, la caccia funge da palestra in attesa di battaglie imminenti: il suo esercizio costante è finalizzato al farsi trovare preparati nel giorno un cui i corni da guerra chiameranno le schiere in rassegna davanti al sovrano.
Nell’Europa del millennio più lungo, cavalieri uniti in consorterie armate stringevano sodalizi rinsaldati da imprese condivise; assaporavano esistenze fatte di guerre, caccie e banchetti, scalpitando in attesa di un buon destriero, per ripartire al più presto al galoppo verso l'ignoto. La necessità di ostentare valore, talvolta, li spingeva a disdegnare la caccia estiva, quando la selvaggina è stanca e più facile da abbattere, a favore di quella invernale. Col favore di un terreno reso insidioso dalle nevi e dal fango, le bestie, feroci e affamate, avrebbero opposto una resistenza tenace, tale da permettere agli avventurieri più temerari di identificarsi con gli eroi dei tempi antichi, capaci di forgiare il proprio destino attraverso la “caccia eroica”.
La ricerca esasperata dello scontro fisico in circostanze proibitive coinvolgeva perfino i re, desiderosi di confermare periodicamente, sotto lo sguardo degli infidi sudditi, la loro leadership: documenti del IX secolo testimoniano l’abitudine dell’imperatore Carlo Magno di ingaggiare scontri “extracta spada”, ossia corpo a corpo, niente meno che con i bisonti. Sulla scorta di questa e altre testimonianze del tempo è facile intuire perché la percentuale di decessi durante le battute di caccia fosse tanto elevata!
Il più grande compagno dei barbari era il destriero: la cultura del guerriero a cavallo, poco sviluppata in età romana, si consolidò con l’irruzione, nell’Europa del V secolo, di implacabili predoni nomadi, originari delle steppe centro-asiatiche, ricordati dai posteri con il temuto nome di Unni. La cosiddetta “orda” era costituita da guerrieri instancabili e arcieri infallibili: esperti allevatori che vivevano a stretto contatto con i loro cavalli per tutta la vita. Ogni uomo libero, proprietario di almeno sette capi, raggiungeva una simbiosi tale con le sue bestie da non scendere quasi mai di sella e farsi addirittura seppellire in loro compagnia. Durante la cerimonia dell’ultimo addio ai guerrieri, quando i loro tesori più prestigiosi erano stati gettati sulle pire infuocate e i membri del clan bollivano le carni del banchetto nei calderoni, si brindava in onore dei morti svuotando coppe ricolme di latte di giumenta fermentato e pregando che i fidati destrieri sacrificati con essi li portassero sani e salvi nell’aldilà. Fu così che, al tramonto dell'Impero, mentre i delicati purosangue romani nati dall’incrocio di razze selezionate si estinguevano alla stregua dei loro padroni i tenaci Unni, seguiti dagli Ávari (VII-X sec.), lanciati a più riprese alla conquista dell'Europa in sella ad agili cavalli semiselvaggi portarono con sé tecniche d’equitazione ed equipaggiamenti sempre più sofisticati. Le prime preziose novità introdotte dai popoli dagli occhi a mandorla, ossia la staffa e vari tipi di briglie, trovarono i più sensibili estimatori nei biondi popoli germanici. Presto, perfino i capiclan goti, franchi, gepidi e longobardi sarebbero stati sepolti in compagnia dei propri destrieri.
Lo stesso Carlo Magno, imperatore dei Franchi, nell’issare i figli in sella con le armi in pugno, trasmise ai posteri quel senso di urgenza ancora genuinamente barbarica, tramandata da un proverbio carolingio: “chi senza montare a cavallo è restato a scuola fino a dodici anni, non è più buono ad altro che a fare il prete”.
Eppure, con l'avvento dei sovrani carolingi qualcosa cambiò radicalmente. All’alba della conquista dei regni barbarici le necessità di riordino amministrativo, portando alla creazione di grandi riserve curtensi e parchi recintati, causarono una mutazione profonda: sia nella gestione fondiaria, sia nello stile del vivere e intendere l’attività venatoria. Se nell'alto medioevo la caccia grossa non era stata ancora preclusa alle popolazioni rurali, d’ora in poi cacciare nel bosco di un feudatario non era considerato soltanto un furto, ma anche un vero e proprio gesto di sfida rivolto un’autorità superiore e alla sua proprietà privata.
Se è vero che la caccia, in quanto prodotto culturale, si è resa sempre portatrice degli aspetti militari, rituali, didattici ed agonistici di ogni tempo, è altrettanto fondato sostenere che, al sopraggiungere del basso medioevo, il ridimensionamento delle pratiche paganeggianti indotte da una società più laica portò inesorabilmente alla ribalta un aspetto prima trascurato: quello ludico, aristocratico e profano. Fu così che le scenografiche caccie regali presero l’aspetto di lussuose escursioni cortesi nel cuore di grandi riserve, popolate da superbe mute di cani di razza e cacciatori esperti, pronti a compiacere e impressionare ospiti d’alto rango.
Che dire, in questo frangente, del rapporto tra caccia e Chiesa? Nell’attività venatoria, il clero scorgeva soltanto l'esercizio gratuito di una violenza fine a se stessa, priva di ogni nesso con la morale cristiana; a nulla valse la regola di San Benedetto, che vietò ai suoi monaci di mangiare carni di quadrupede. Per di più, quando il cavalier cortese entrava nella foresta, gettava alle spalle la sua morale per riavvicinarsi, più o meno inconsciamente, a quella dimensione precristiana che la Chiesa aveva combattuto per secoli. Il morboso appagamento insito nella pratica della violenza compiuta nella foresta poteva perfino sfociare in altre forme di piacere nascoste, sospese tra magia ed erotismo: ecco perché il bosco, pur avendo perduto la sacralità di un tempo, si era tramutato in un tempio profano ad uso e consumo di signori feudali violenti e libertini. Questo ambiguo retaggio si palesa anche attraverso i personaggi letterari dei poemi di Chrétien de Troyes: i nobili Lancillotto e Yvain, vittime di amori proibito e autodistruttivi che li avevano portati sull’orlo della follia, scelsero proprio il bosco come luogo di espiazione. Che dire poi del famoso “Sonar bracchetti”, scritto alla fine Duecento da Dante Alighieri, che in linea con la mentalità guelfa del tempo rivelò di non amare l’eccessivo entusiasmo per la caccia, da sempre ad appannaggio della nobiltà del contado perché ritenuta una “selvaggia dilettanza”, incompatibile con la “leggiadria di gentil core”?
In Italia, un ruolo rivoluzionario nella pratica della caccia interessò dapprima i Normanni del sud, poi gli Svevi. Proprio nella prima metà del XIII secolo, durante la permanenza siciliana dell’imperatore Federico II di Svevia, massimo fautore dell’evoluzione ludica dell’attività venatoria, fiorì in via definitiva la tendenza a contrapporre alla guerra la nuova moda del “plaisir” o piacere della caccia, intesa come svago mondano riservato esclusivamente alle élite regali e nobiliari. In questo contesto, la tendenza ad avvalersi di tre inseparabili compagni di caccia come il succitato cavallo, il cane e l’uccello rapace conobbe nuovi e complessi sviluppi: l’elevato apprezzamento dei tre animali fece di essi emblemi virtuosi di tale rilievo che il loro valore affettivo spesso ebbe la meglio perfino sui legami familiari.
Con questa tendenza si inaugurò la grande epoca dei manuali e dei trattati venatori. Giordano Ruffo, uomo della corte di Federico II, dietro suggerimento del sovrano, patrocinatore di scuderie costosissime, compilò l’opera intitolata “De Cura Equorum”. Dopo secoli di citazioni occasionali di molossi e mastini impiegati dai barbari per la guardia e la caccia al lupo, la trattatistica “cinegetica” bassomedievale incensò il levriero come il più nobile e veloce tra i cani. Federico stesso si uniformò al parere del domenicano francese Vincenzo di Beauvais, che considerava il levriero indispensabile: Non per caso, la società cavalleresca dedicò a questo splendido cane emblemi araldici e ritratti tombali, ai piedi delle statue funebri dei nobili di cui incarnava la virtù cavalleresca della fedeltà.
Anche la caccia col falcone, complessa attività che richiedeva grande passione nell'addestrare i rapaci alla cattura di altri volatili, diventando col tempo esclusiva dell’immaginario tardomedievale cortese, ne oscurava le origini: essa era stata introdotta in Europa dagli ostrogoti attraverso il sodalizio con i popoli delle steppe. In seguito alla trasformazione della caccia in privilegio, anche i rapaci, da simbolo sacro e totemico quali erano stati un tempo, incarnarono nuove allegorie araldiche: in virtù della raffinata complessità delle tecniche di allevamento e caccia che la caratterizzano, la falconeria fu addirittura ritenuta la forma di caccia più idonea a incarnare il significato simbolico della nobiltà e del predominio.
Dopo essere stato educato alla falconeria da esperti arabi, Federico II fece stilare il suo capolavoro: il “De arte venandi cum avibus” (“Sull'arte di cacciare con gli uccelli”): il più importante trattato d’arte venatoria della storia, tra le cui pagine miniate era illustrata la differenza tra falconeria “di alto” e “basso” volo, a seconda del tipo di rapace impiegato e dell’ambiente di caccia che ci si prefiggeva di battere. Federico, convinto che la falconeria fosse la più nobile tra tutte le “venationes”, vi impiegò capitali ingenti e studi talmente approfonditi, al punto da tramutare tale pratica in un connubio tra attività venatoria e studio della moderna “etologia”: disciplina scientifica che studia il comportamento animale nel suo ambiente naturale.
Il trattato di Federico II non solo rimase incompleto, ma anche incompreso: la sua opera si manifestò da subito troppo geniale e moderna per poter ricevere il meritato riconoscimento presso i posteri. In questo insuccesso, qualche studioso volle scorgere il riflesso dell’intera politica del re detto “stupor mundi”, talmente lungimirante da patire la condanna di non poter raccogliere frutti del suo operato se non nel lungo termine: ossia, fino a più attenti e approfonditi studi, inaugurati soltanto nel XX secolo.


Box 1: LE ARMI DELLA CACCIA
Fin dagli albori dell'età del Ferro, l’arma per eccellenza del duello fu la spada; prediletta già dai celti, essa da sempre riflette le virtù tipiche del guerriero: coraggio, nobiltà e virilità. Tuttavia, altre armi da mischia e da getto come asce e lance garantivano maggior successo nella caccia. Il rapporto con l'arco, invece, rimase ambiguo per secoli. Se presso i popoli orientali e delle steppe esso era l'arma della caccia eroica per eccellenza, tale riconoscimento in Europa fu ottenuto tardi e solo in misura parziale; i popoli barbari, ritenendolo un’arma da vigliacchi, preferivano delegarne l'uso ai seguaci. Solo nel basso medioevo l’uso dell’arco fu rivalutato: tanto nella pratica, quanto dal punto vista simbolico, come emblema d’astuzia e destrezza a discapito della forza bruta.



Box 2: L’AQUILA MISTICA, REGINA DEL CIELO
“Allora l'aquila, ubbidendo all'Altissimo, discese sulla terra ingravidando una donna, dalla quale nacque il primo sciamano. Per questo si suole dire che gli sciamani si adornano delle sue sacre piume, perché la loro anima possa salire in cielo o discendere negli inferi”.
Agli albori del Medioevo, a contatto con la falconeria unna i goti accolsero aquile e falchi come massimi emblemi tribali di coraggio e saggezza. I loro orafi, sbalzandone i fieri profili e le forme stilizzate su gioielli aurei, ne diffusero il gusto barbarico in tutta Europa.
Uccello iniziatico, simbolo solare e delle quote celesti sul cui becco sono incise rune mistiche, l'aquila odinica che mai distoglie lo sguardo dinnanzi al sole è l'emblema del fulmine e del fervore guerriero. Anche il cristianesimo, accostandovi allegoricamente san Giovanni Evangelista che profetò con acume l'Apocalisse, le attribuì il ruolo preminente di messaggera del Signore. Il testo biblico dei Proverbi, riferendosi proprio al re degli uccelli afferma chiaramente: “mia è la via del cielo”.



Box 3: LA CACCIA SELVAGGIA
Fra i paurosi racconti diffusi tra le Alpi infuriava la credenza di un possente cacciatore selvaggio e del suo corteo infernale: tra Natale e Capodanno, 12 giorni all’anno il dio Odino, abiurato dai cattolici, si dava ciclicamente ritrovo su questa Terra con gli spiriti inquieti di eroi del passato come re Teodorico e Artù, presso tombe profanate dagli elfi oscuri. In quelle notti, creature risorte dal mito ingrossavano le fila di un esercito di orchi e dannati che, spinto dai soffi del folle vento alpino “Föhn” e dal suono agghiacciante del corni da caccia, sulla scia di una muta di segugi fantasma turbinava follemente sotto la luce della luna. “La corsa e la caccia fanno impazzire il cuore dell'uomo” ricordava un filosofo orientale, indicando il nemico peggiore proprio nelle pulsioni dell’inconscio.

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