Medioevo Misterioso 2017
Marco Corrias
L’alba del Medioevo fu un’epoca piena di
insidie, dominata da preoccupazioni costanti: prima fra tutte, la lotta per la
sopravvivenza. Con l'arrivo dei Longobardi, il più feroce tra i popoli barbari,
dal 568 d.C. nobili ”farae” calate in Italia dalle Alpi nord-orientali si
presentarono agli italici superstiti come tribù animate da un’etica fondata sul
coraggio e l’esaltazione ferina. Se presso l’Italia costiera occupata dai
bizantini, dediti all'allevamento intensivo e alla pesca, l’interesse per la
caccia era pressoché ininfluente, nell'entroterra germanizzato l'attività
venatoria fu parte integrante di una quotidianità fondata su riti tribali volti
ad esaltare gli antichi dei della guerra: la sua centralità nella formazione
dei giovani arimanni affonda le radici nei primordi della tradizione
indoeuropea. Lo spazio consacrato alla caccia era la foresta: luogo di tenebra
materiale e astratta, rifugio di belve e paure inconsce riservato all’avventura
e al superamento di riti di passaggio. Chi ne usciva trionfante diventava
guerriero, oppure riacquistava l’onore che per qualche motivo aveva perduto.
Chi, invece, pur sopravvivendo ai tranelli del bosco, vi soggiornava per troppo
tempo, rischiava di perdere la sua umanità. L’anonimo autore del “Beowulf”,
noto poema sassone del VII secolo, riferendosi al destino dell’eroe narrava:
“ora lotta coi draghi e coi lupi, ora con gli orchi che stan tra le rocce; ora
con tori, orsi, cinghiali e giganti che dagli alti dirupi lo inseguono”. Tutto ciò significava che, a forza di
inseguire belve, prima o poi il guerriero stesso avrebbe rischiato a sua volta
di tramutarsi in “orso della sera o lupo mannaro” ossia in qualcosa di
incontrollabile. Il rapporto complesso e ambivalente quando non addirittura
simbiotico con la bestia selvaggia è descritto in maniera efficace nella
Völsunga saga, dove il rito iniziatico consisteva nell’impadronirsi di pellicce
che una volta indossate, permisero agli eroi di divenire lupi mannari. Anche lo
storico longobardo Paolo Diacono narrò dei cinocefali, guerrieri dalla testa di
lupo bevitori di sangue umano, invincibili quanto temuti e perciò emarginati
dalla società civile.
La stima nutrita dai barbari verso il
lupo e l’orso era tale da chiamare i propri figli con nomi composti da una
doppia radice: l’appellativo totemico di “Beo + Wulf”, per esempio, era
destinato ad attirare sul nascituro le qualità delle due belve ammirate, nonché
il favore dei loro spiriti tutelari.
Il rapporto tra caccia e guerra nel
Medioevo risulta chiaro: l’una è sorella dell’altra. Soprattutto in tempo di
pace, la caccia funge da palestra in attesa di battaglie imminenti: il suo
esercizio costante è finalizzato al farsi trovare preparati nel giorno un cui i
corni da guerra chiameranno le schiere in rassegna davanti al sovrano.
Nell’Europa del millennio più lungo,
cavalieri uniti in consorterie armate stringevano sodalizi rinsaldati da
imprese condivise; assaporavano esistenze fatte di guerre, caccie e banchetti,
scalpitando in attesa di un buon destriero, per ripartire al più presto al
galoppo verso l'ignoto. La necessità di ostentare valore, talvolta, li spingeva
a disdegnare la caccia estiva, quando la selvaggina è stanca e più facile da
abbattere, a favore di quella invernale. Col favore di un terreno reso
insidioso dalle nevi e dal fango, le bestie, feroci e affamate, avrebbero
opposto una resistenza tenace, tale da permettere agli avventurieri più
temerari di identificarsi con gli eroi dei tempi antichi, capaci di forgiare il
proprio destino attraverso la “caccia eroica”.
La ricerca esasperata dello scontro
fisico in circostanze proibitive coinvolgeva perfino i re, desiderosi di
confermare periodicamente, sotto lo sguardo degli infidi sudditi, la loro
leadership: documenti del IX secolo testimoniano l’abitudine dell’imperatore
Carlo Magno di ingaggiare scontri “extracta spada”, ossia corpo a corpo, niente
meno che con i bisonti. Sulla scorta di questa e altre testimonianze del tempo
è facile intuire perché la percentuale di decessi durante le battute di caccia
fosse tanto elevata!
Il più grande compagno dei barbari era
il destriero: la cultura del guerriero a cavallo, poco sviluppata in età
romana, si consolidò con l’irruzione, nell’Europa del V secolo, di implacabili
predoni nomadi, originari delle steppe centro-asiatiche, ricordati dai posteri
con il temuto nome di Unni. La cosiddetta “orda” era costituita da guerrieri
instancabili e arcieri infallibili: esperti allevatori che vivevano a stretto
contatto con i loro cavalli per tutta la vita. Ogni uomo libero, proprietario di
almeno sette capi, raggiungeva una simbiosi tale con le sue bestie da non
scendere quasi mai di sella e farsi addirittura seppellire in loro compagnia.
Durante la cerimonia dell’ultimo addio ai guerrieri, quando i loro tesori più
prestigiosi erano stati gettati sulle pire infuocate e i membri del clan
bollivano le carni del banchetto nei calderoni, si brindava in onore dei morti
svuotando coppe ricolme di latte di giumenta fermentato e pregando che i fidati
destrieri sacrificati con essi li portassero sani e salvi nell’aldilà. Fu così
che, al tramonto dell'Impero, mentre i delicati purosangue romani nati
dall’incrocio di razze selezionate si estinguevano alla stregua dei loro
padroni i tenaci Unni, seguiti dagli Ávari (VII-X sec.), lanciati a più riprese
alla conquista dell'Europa in sella ad agili cavalli semiselvaggi portarono con
sé tecniche d’equitazione ed equipaggiamenti sempre più sofisticati. Le prime
preziose novità introdotte dai popoli dagli occhi a mandorla, ossia la staffa e
vari tipi di briglie, trovarono i più sensibili estimatori nei biondi popoli
germanici. Presto, perfino i capiclan goti, franchi, gepidi e longobardi
sarebbero stati sepolti in compagnia dei propri destrieri.
Lo stesso Carlo Magno, imperatore dei
Franchi, nell’issare i figli in sella con le armi in pugno, trasmise ai posteri
quel senso di urgenza ancora genuinamente barbarica, tramandata da un proverbio
carolingio: “chi senza montare a cavallo è restato a scuola fino a dodici anni,
non è più buono ad altro che a fare il prete”.
Eppure, con l'avvento dei sovrani
carolingi qualcosa cambiò radicalmente. All’alba della conquista dei regni
barbarici le necessità di riordino amministrativo, portando alla creazione di
grandi riserve curtensi e parchi recintati, causarono una mutazione profonda:
sia nella gestione fondiaria, sia nello stile del vivere e intendere l’attività
venatoria. Se nell'alto medioevo la caccia grossa non era stata ancora preclusa
alle popolazioni rurali, d’ora in poi cacciare nel bosco di un feudatario non
era considerato soltanto un furto, ma anche un vero e proprio gesto di sfida
rivolto un’autorità superiore e alla sua proprietà privata.
Se è vero che la caccia, in quanto
prodotto culturale, si è resa sempre portatrice degli aspetti militari,
rituali, didattici ed agonistici di ogni tempo, è altrettanto fondato sostenere
che, al sopraggiungere del basso medioevo, il ridimensionamento delle pratiche
paganeggianti indotte da una società più laica portò inesorabilmente alla
ribalta un aspetto prima trascurato: quello ludico, aristocratico e profano. Fu
così che le scenografiche caccie regali presero l’aspetto di lussuose
escursioni cortesi nel cuore di grandi riserve, popolate da superbe mute di
cani di razza e cacciatori esperti, pronti a compiacere e impressionare ospiti
d’alto rango.
Che dire, in questo frangente, del
rapporto tra caccia e Chiesa? Nell’attività venatoria, il clero scorgeva
soltanto l'esercizio gratuito di una violenza fine a se stessa, priva di ogni
nesso con la morale cristiana; a nulla valse la regola di San Benedetto, che
vietò ai suoi monaci di mangiare carni di quadrupede. Per di più, quando il
cavalier cortese entrava nella foresta, gettava alle spalle la sua morale per
riavvicinarsi, più o meno inconsciamente, a quella dimensione precristiana che
la Chiesa aveva combattuto per secoli. Il morboso appagamento insito nella
pratica della violenza compiuta nella foresta poteva perfino sfociare in altre
forme di piacere nascoste, sospese tra magia ed erotismo: ecco perché il bosco,
pur avendo perduto la sacralità di un tempo, si era tramutato in un tempio
profano ad uso e consumo di signori feudali violenti e libertini. Questo
ambiguo retaggio si palesa anche attraverso i personaggi letterari dei poemi di
Chrétien de Troyes: i nobili Lancillotto e Yvain, vittime di amori proibito e
autodistruttivi che li avevano portati sull’orlo della follia, scelsero proprio
il bosco come luogo di espiazione. Che dire poi del famoso “Sonar bracchetti”,
scritto alla fine Duecento da Dante Alighieri, che in linea con la mentalità
guelfa del tempo rivelò di non amare l’eccessivo entusiasmo per la caccia, da
sempre ad appannaggio della nobiltà del contado perché ritenuta una “selvaggia
dilettanza”, incompatibile con la “leggiadria di gentil core”?
In Italia, un ruolo rivoluzionario nella
pratica della caccia interessò dapprima i Normanni del sud, poi gli Svevi.
Proprio nella prima metà del XIII secolo, durante la permanenza siciliana
dell’imperatore Federico II di Svevia, massimo fautore dell’evoluzione ludica
dell’attività venatoria, fiorì in via definitiva la tendenza a contrapporre
alla guerra la nuova moda del “plaisir” o piacere della caccia, intesa come
svago mondano riservato esclusivamente alle élite regali e nobiliari. In questo
contesto, la tendenza ad avvalersi di tre inseparabili compagni di caccia come
il succitato cavallo, il cane e l’uccello rapace conobbe nuovi e complessi
sviluppi: l’elevato apprezzamento dei tre animali fece di essi emblemi virtuosi
di tale rilievo che il loro valore affettivo spesso ebbe la meglio perfino sui
legami familiari.
Con questa tendenza si inaugurò la
grande epoca dei manuali e dei trattati venatori. Giordano Ruffo, uomo della
corte di Federico II, dietro suggerimento del sovrano, patrocinatore di
scuderie costosissime, compilò l’opera intitolata “De Cura Equorum”. Dopo
secoli di citazioni occasionali di molossi e mastini impiegati dai barbari per
la guardia e la caccia al lupo, la trattatistica “cinegetica” bassomedievale
incensò il levriero come il più nobile e veloce tra i cani. Federico stesso si
uniformò al parere del domenicano francese Vincenzo di Beauvais, che
considerava il levriero indispensabile: Non per caso, la società cavalleresca
dedicò a questo splendido cane emblemi araldici e ritratti tombali, ai piedi
delle statue funebri dei nobili di cui incarnava la virtù cavalleresca della
fedeltà.
Anche la caccia col falcone, complessa
attività che richiedeva grande passione nell'addestrare i rapaci alla cattura
di altri volatili, diventando col tempo esclusiva dell’immaginario
tardomedievale cortese, ne oscurava le origini: essa era stata introdotta in
Europa dagli ostrogoti attraverso il sodalizio con i popoli delle steppe. In
seguito alla trasformazione della caccia in privilegio, anche i rapaci, da
simbolo sacro e totemico quali erano stati un tempo, incarnarono nuove
allegorie araldiche: in virtù della raffinata complessità delle tecniche di
allevamento e caccia che la caratterizzano, la falconeria fu addirittura
ritenuta la forma di caccia più idonea a incarnare il significato simbolico
della nobiltà e del predominio.
Dopo essere stato educato alla
falconeria da esperti arabi, Federico II fece stilare il suo capolavoro: il “De
arte venandi cum avibus” (“Sull'arte di cacciare con gli uccelli”): il più
importante trattato d’arte venatoria della storia, tra le cui pagine miniate
era illustrata la differenza tra falconeria “di alto” e “basso” volo, a seconda
del tipo di rapace impiegato e dell’ambiente di caccia che ci si prefiggeva di
battere. Federico, convinto che la falconeria fosse la più nobile tra tutte le
“venationes”, vi impiegò capitali ingenti e studi talmente approfonditi, al
punto da tramutare tale pratica in un connubio tra attività venatoria e studio
della moderna “etologia”: disciplina scientifica che studia il comportamento
animale nel suo ambiente naturale.
Il trattato di Federico II non solo
rimase incompleto, ma anche incompreso: la sua opera si manifestò da subito
troppo geniale e moderna per poter ricevere il meritato riconoscimento presso i
posteri. In questo insuccesso, qualche studioso volle scorgere il riflesso
dell’intera politica del re detto “stupor mundi”, talmente lungimirante da
patire la condanna di non poter raccogliere frutti del suo operato se non nel
lungo termine: ossia, fino a più attenti e approfonditi studi, inaugurati
soltanto nel XX secolo.
Box 1: LE ARMI DELLA CACCIA
Fin dagli albori dell'età del Ferro,
l’arma per eccellenza del duello fu la spada; prediletta già dai celti, essa da
sempre riflette le virtù tipiche del guerriero: coraggio, nobiltà e virilità.
Tuttavia, altre armi da mischia e da getto come asce e lance garantivano
maggior successo nella caccia. Il rapporto con l'arco, invece, rimase ambiguo
per secoli. Se presso i popoli orientali e delle steppe esso era l'arma della
caccia eroica per eccellenza, tale riconoscimento in Europa fu ottenuto tardi e
solo in misura parziale; i popoli barbari, ritenendolo un’arma da vigliacchi,
preferivano delegarne l'uso ai seguaci. Solo nel basso medioevo l’uso dell’arco
fu rivalutato: tanto nella pratica, quanto dal punto vista simbolico, come
emblema d’astuzia e destrezza a discapito della forza bruta.
Box 2: L’AQUILA MISTICA, REGINA DEL
CIELO
“Allora l'aquila, ubbidendo
all'Altissimo, discese sulla terra ingravidando una donna, dalla quale nacque
il primo sciamano. Per questo si suole dire che gli sciamani si adornano delle
sue sacre piume, perché la loro anima possa salire in cielo o discendere negli
inferi”.
Agli albori del Medioevo, a contatto con
la falconeria unna i goti accolsero aquile e falchi come massimi emblemi
tribali di coraggio e saggezza. I loro orafi, sbalzandone i fieri profili e le
forme stilizzate su gioielli aurei, ne diffusero il gusto barbarico in tutta
Europa.
Uccello iniziatico, simbolo solare e
delle quote celesti sul cui becco sono incise rune mistiche, l'aquila odinica
che mai distoglie lo sguardo dinnanzi al sole è l'emblema del fulmine e del
fervore guerriero. Anche il cristianesimo, accostandovi allegoricamente san
Giovanni Evangelista che profetò con acume l'Apocalisse, le attribuì il ruolo
preminente di messaggera del Signore. Il testo biblico dei Proverbi,
riferendosi proprio al re degli uccelli afferma chiaramente: “mia è la via del
cielo”.
Box 3: LA CACCIA SELVAGGIA
Fra i paurosi racconti diffusi tra le
Alpi infuriava la credenza di un possente cacciatore selvaggio e del suo corteo
infernale: tra Natale e Capodanno, 12 giorni all’anno il dio Odino, abiurato
dai cattolici, si dava ciclicamente ritrovo su questa Terra con gli spiriti
inquieti di eroi del passato come re Teodorico e Artù, presso tombe profanate
dagli elfi oscuri. In quelle notti, creature risorte dal mito ingrossavano le
fila di un esercito di orchi e dannati che, spinto dai soffi del folle vento
alpino “Föhn” e dal suono agghiacciante del corni da caccia, sulla scia di una
muta di segugi fantasma turbinava follemente sotto la luce della luna. “La
corsa e la caccia fanno impazzire il cuore dell'uomo” ricordava un filosofo
orientale, indicando il nemico peggiore proprio nelle pulsioni dell’inconscio.
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