Vi fu un tempo,
in quei secoli ingiustamente chiamati “bui”,
in cui uomo e natura non erano in concorrenza.
La caccia, rito antico imbevuto di simbolismo ,
non era praticata con armi da fuoco bensì col coraggio
e tra cacciatore e preda esisteva un profondo e fraterno
legame di rispetto reciproco
Alpi rocciose di Langobardìa.
Titani a guardia di valichi impervi.
Vette imponenti, oscurate da nubi temporalesche.
La tempesta infuria sui picchi scabrosi
del Sasso Corbaro; s’infiltra fra i salti del Lema, flagella il
capo corroso del monte Nudo: l’estesa catena, massiccio scistoso
che cede il passo soltanto alle piogge e al vento sferzante.
Ai piedi dei precipizi, a perdita
d’occhio si stendono i boschi: distese selvagge di fronde
sconvolte, paiono branchi d’alci assopiti che esalano sbuffi dal
fondovalle.
Italia dei secoli bui. L’estate si
veste di pioggia incessante.
Il Mòrghenrab scroscia. Impetuoso,
scivola a valle scavando solchi profondi; il suo corso, un serpente
biancastro che si apre la via portandosi dietro tronchi e macigni.
Protende i suoi liquidi artigli, incuneandosi nel cuore della
foresta; con l’abilità di un demiurgo modella colate d’argilla,
quasi fossero d’argento liquido. Il fiume è da sempre un mago, un
alchimista capace di trasfigurare la materia grezza.
Grande spirito della foresta, i druidi
ti rispettavano! Vedevano in te un sovrano immortale cui consacrare
offerte propiziatorie…
Fu il tempo in cui il fiume si ergeva a
difesa dei primi popoli. Paziente, svelava i suoi arcani: la pesca,
il lavoro dei campi, mestieri che i padri trasmisero ai figli… ma
un giorno quel sogno s’infranse.
Squadre di legionari: schierati a
quadrato, per folte centurie.
Uomini senza dei, in cerca di terre da
conquistare. Placato l’orgoglio dei celti, i romani portarono nuovi
modelli di civiltà.
Tabula rasa. Boschi interi schiantati
al suolo.
Abbattuti per farne coltivi, attorno ai
quali fondare i primi grandi nuclei urbani. La linfa dei tronchi
caduti pianse i suoi lutti, finché un giorno la terra rimase del
tutto nuda.
Fu allora che tu, antico fiume, spirito
inquieto della foresta, perdesti il senno e con esso tutti i tuoi
poteri.
Latrando di rabbia, affogando il dolore
tra i gorghi, con denti di pietra sfondasti le chiglie delle
imbarcazioni. Obliasti per sempre i segreti sepolti!
Ora i romani sono spariti: le loro
città di marmo e mattoni, mutate in rovine di rampicanti. Quale fu
la causa? La guerra infinita con gli ostrogoti, o la pestilenza?
Stizzoso e collerico, tu, Mòrghenrab,
non sei più in grado di dirlo: adesso sai solo schiumare di rabbia.
La "Vallis Cum Via", strada romana che un tempo lambiva il tuo corso
roccioso, è stata inghiottita dai rovi di rosa selvatica. Sotto il
peso di zoccoli ferrati a caldo, al passaggio dei nuovi invasori il
vecchio selciato è andato in frantumi.
Se solo potessi ancora pensare, antico
fiume, saresti sicuro di una cosa sola: dopo seicento anni di
mutamenti, il tuo reame d’acqua è tornato agli albori. Alla foce
del lago le fronde degli olmi e dei salici sfiorano le acque blu,
sognando in silenzio i primi uomini: i loro figli perduti.
Arcaico paesaggio di tronchi verdastri.
L’intrico arboreo appare privo di
vita; in realtà, nei recessi più bui, il silenzio tradisce presenze
in agguato. Rami di quercia intrecciano arcate che portano
all’imboccatura di grotte oscure. Sono le tane degli uomini-bestia:
ulfhednar, presenze che ai primi raggi dell’alba si eclissano come
il delirio di un vecchio eremita.
Suoni sospetti, aldilà del fiume.
All’inizio si tratta soltanto di
un’eco, vaga e sfuggente come l’ombra di una lince schiva. Poi,
implacabile, il suono del ferro vibrato sui rovi si fa sempre più
nitido.
Scramasax.
Corta spada a una lama, brandita come
un machete. Una sagoma si apre un varco tra liane e agrifogli.
Indossa una ringha di ferro brunito: maglia metallica ad anelli
scuri. Saldati alla forgia, tintinnano appena.
Un guerriero. Antico ceppo germanico.
Nuova stirpe di conquistatori, temprata da inverni infiniti.
Le sue spalle larghe sono coperte da un
manto di lupo. Legata alla schiena spunta una lancia dalla punta
aguzza.
Volto virile. Lineamenti pallidi,
incisi nel ghiaccio, delineano fattezze barbariche; la barba, bionda
e ferina, rende il suo sguardo ancora più duro.
Fiero d’aspetto, è di corporatura
robusta e slanciata. Una striscia di piccoli anelli doma la treccia
lunghissima del suo crine d’oro; la chioma esprime l’orgoglio
dell’uomo libero, in grado di portare le armi e combattere.
Scruta il paesaggio con occhi di
acciaio. È ancora giovane, ma non più un ragazzo; alla sua età si
è uomini esperti, per certi versi già vecchi: chi si appressa ai
trenta può già dirsi baciato da rara fortuna.
Fortuna: i longobardi la chiamano
“urtheil”: ordalia: destino spesso già scritto, prestabilito.
Talvolta, però, perfino il Fato può
farsi piegare dalla tenacia dei grandi guerrieri.
Il barbaro riprende il cammino; procede
a zigzag tra i faggi argentati, indossando calzoni di pelle aderente.
Hosis.
Legati e intrecciati, agevolano il suo
rapido passo. Quando il bosco lo avvolge, la striscia del fiume è
soltanto un ricordo. Il guerriero s’inoltra verso sud,
mimetizzandosi alla perfezione fra i tronchi e gli arbusti che
crescono tutt’attorno. Il suo passo è talmente leggero da cogliere
di sorpresa anche i figli del bosco: volpi, caprioli, lepri e
fagiani. Tenace, batte una strada prestabilita, tracciata nella sua
mente. Brucia le tappe: migliaia di pertiche di terra incolta,
lasciate alle spalle. Scendendo di quota, i faggi ferrigni si fanno
più radi, ben presto sostituiti da castagneti e da snelli noccioli.
L’uomo si piega, ispeziona il terriccio: è in cerca d’indizi, di
tracce fresche. L’humus è smosso, odoroso e scuro.
Radici sottratte alla terra. Stanotte i
cinghiali hanno fatto razzia nel sottobosco.
Riposta la scramasax, il guerriero
biondo accarezza l’impugnatura della sua spada lunga, riposta nel
fodero di pelle conciata. Il suo gesto tradisce un lieve disagio.
Inquietudine.
Si trova a un bivio; le tracce si
mischiano. Alcune si perdono a est, nelle profondità della selva;
altre procedono ancora più a sud, verso le distese umide del fondo
lago.
Riflette. Per propria scelta si trova
da solo a combattere un ambiente ostile, con una missione da portare
a termine. La sopravvivenza è affidata alla forza e all’astuzia:
lezione di vita che, anni prima suo padre, quand’era ancora vivo e
in grado di battersi, non si stancava mai di rammentargli.
Prima di proseguire dà un ultimo
sguardo alle orme. Deve guardarsi dai rischi incombenti; non dai
cinghiali, ma da qualcos’altro.
Qualcosa di ben più inquietante.
Avverte il soffio del vento tra i rami.
Il profumo delle foglie morte dell’autunno scorso che scricchiolano
sotto i suoi piedi; il fruscio di quelle verdi, danzanti sui rami
ritorti: suoni che lo rassicurano, facendogli compagnia. Occhi
socchiusi, si lascia guidare dal proprio olfatto: per chi ha fatto
della caccia una regola di sopravvivenza, le tracce nell’aria sono
ancora pungenti.
Sbuca in una radura, sostando sotto gli
ombrelli di lievi betulle dalle foglie argentate.
Alberi runici, sacri. “Bianche
fanciulle dei boschi...”
Il suo popolo usa chiamarle così.
“Chissà se oggi le figlie degli elfi
mi porteranno fortuna”.
Ne avrà bisogno, lo sa.
Si guarda intorno con circospezione.
Cammina tra i fusti zebrati di bianco e di nero, finché uno scenario
inatteso si para davanti ai suoi occhi.
Schegge di legno, ovunque. Fusti
spezzati cospargono il suolo, come fossero carcasse sbranate.
Qualcosa ha straziato la dura corteccia, scoprendo il midollo delle
betulle. Non le ha violate la scure del boscaiolo, non si è trattato
di opera umana.
“Mascelle implacabili”.
Traccia evidente di ciò che sta
cercando. Coglie nell’aria un odore pungente: proviene da un tronco
rimasto in piedi come per miracolo. Gli steli d’erba tra le radici,
imperlati d’urina, non lasciano dubbi. Una creatura incredibile e
rara ha segnato il territorio.
“Wisunth”.
Ombra indistinta. S’incunea, evocata
da impulsi ancestrali; una macchia nerastra si amplifica, nei suoi
pensieri.
Ora la vede, è di fronte a lui. La
mette a fuoco con gli occhi dell’anima. La chiazza si espande,
ingigantendosi.
È un corpo taurino, color
dell’inchiostro, due tonnellate di pura violenza. Muscoli ampi e
gibbosi, di pietra, sotto uno strato di cuoio spesso: un paio di
corna incurvate, letali.
Grazie al dono innato della doppia
vista, il guerriero instaura un contatto mentale con l’entità
primitiva: avverte la sua presenza. Si tratta di un wisunth: bisonte
della foresta, un maschio adulto privo di branco. Collerico e
ombroso, è un colosso errante, istinto puro in moto perenne. Ha già
ucciso molti uomini della sua fara: il guerriero lo sta cercando per
vendicarli.
Occhio per occhio, dente per dente.
Faida!
Tracce dapprima indistinte iniziano a
prendere forma. Il cacciatore ha scovato le orme. Campeggiano, scure
e profonde, sul prato imbevuto di rugiada; simili a buche di talpa,
si sperdono nella brughiera. Arbusti di primula acquatica, piccole
orecchie curiose che emergono dai fontanili; i fiori dorati segnalano
un nuovo cambio di clima. Il fitto bosco prealpino va ritraendosi,
per cedere il passo alle cupe torbiere: paludi boscose, insondabili e
infide, piene di fosse scavate dalle acque stagnanti.
Il disegno del Fato si sta delineando.
Il suo inconscio ferino ha tracciato la
via che dai valichi svizzeri porta a una conca verdastra; il tratto
in cui il grande Ticino, rifluendo dal lago Maggiore, riprende il suo
corso: confine selvaggio, pressoché invalicabile, fra le Prealpi e
la pianura del Po.
Un labirinto di latifoglie: pioppi
grigi, ontani neri, salici bianchi. Bacche di frangola, felci
aquiline e sambuco, pennacchi sfrangiati di canne acquatiche,
equiseti che fischiano al vento.
Le piante strisciano all’ombra di un
bosco sospeso tra cielo e terra. Il cacciatore ripensa alla preda,
alle sue armi letali.
“Se avrò forze per ucciderlo,
esporrò le sue corna in pubblico”.
A dimostrazione del pericolo
affrontato, riceverà grandi onori presso i clan di mezza Neustria.
Eppure non lo fa per la gloria, ma per dare giustizia ai suoi uomini;
forse anche per altri motivi, reconditi, che non sa spiegarsi:
questione di puro istinto.
Il cacciatore oltrepassa i tronchi
muschiosi delle querce palustri; giganti le cui radici affondano in
fondi melmosi. Viluppi di liane scivolano a terra, intralciando il
passo del barbaro; la torba, che pare letame fumante, crea cumuli di
terriccio, nero come carbone.
Sabbie mobili, ai bordi dei fossi;
tutt’intorno scorrono rivoli d’acqua che portano via resti
animali e relitti di legno. Il barbaro salta da un tronco all’altro:
la sua agilità è sorprendente. Nella torbiera è facile perdere
l’orientamento, ma il castelliere dove risiede la sua corte non è
lontano: sorge a una cinquantina di pertiche verso nordest, in linea
d’aria.
Il cacciatore potrebbe benissimo
tornarsene illeso alla dimora di pietra grigia: eppure non è tipo da
cambiare idea. Sogni di gloria e pericoli, lungo vie ignote: forse il
suo Fato è già stato tracciato dal Woden, dio altero e guercio che
vieta lo scacco.
“Ora capisco. Lui mi ha condotto fin
qui, di proposito”.
Nel sepolcreto dei tronchi di pietra.
Gli abeti fossili giacciono a cumuli,
inabissati nella palude. Il lagone, tappeto di melma distesa sulle
acque ferme, è un luogo adatto a un vecchio eroe che ha lasciato il
suo branco per andare a rinchiudersi nella solitudine che precede la
morte. Eppure, il viandante armato percepisce che il wisunth non
vuole lasciarsi morire nell’anonimato, come un gatto selvatico.
Un ultimo scontro, una lotta tra re:
onore o morte nella torbiera!
Qualcosa, un nesso profondo lega la
preda e il suo inseguitore; anche il cacciatore sa di andare incontro
a uno scontro impari, forse al suicidio, ma… fosse in agguato
persino la morte, non potrebbe evitare la strada intrapresa.
Il bisonte è il rivale, la belva. La
sua altra metà, il lato selvaggio a cui chiede risposte.
Ecco perché deve stanarlo al più
presto.
Il pomeriggio si attarda, l’umidità
è atroce. Nubi di zanzare si librano in volo, in cerca di sangue
caldo. A valle, dove riposano i figli del fiume.
Una voce sussurra nella sua testa;
dispensa consigli.
Memento.
“È segno di buono o cattivo
auspicio?”
Tumuli acquatici. Resti inabissati di
palafitte, antichi villaggi affondati: liquide tombe trattengono a
fondo i resti consunti di un popolo estinto. Vasi, monili, punte di
lancia. I tesori dei primi celti senza nome riposano qui, sotto lo
sguardo sbiadito dei fuochi fatui. La torbiera è infestata da mute
presenze: mummie di fango si acquattano, emergono a pelo d’acqua.
Daugr, spettri di cuoio avvizzito.
Cadaveri erranti, avvolti in tumidi resti di torba.
Emergono al calar del tramonto, in
cerca di vittime a sangue caldo. Orbite smorte, ghigni agghiaccianti
riflessi nell’acqua ululano la propria follia nel vento. La loro
visione, si dice, è foriera di calamità e morbi. Il cacciatore non
ha paura di queste voci. Per lui sono solo stupide superstizioni.
“Ciò che già è morto morde
soltanto polvere e fango”.
Qualcosa sguscia con rapidità alle sue
spalle. Il guerriero si volta di scatto. È soltanto una lunga
natrice: una serpe d’acqua che, uscita da un buco, s’immerge con
rapidità in una polla stagnante.
“È passato da questa parte”.
Sensi allertati, batte una via aperta
dal bisonte tra gli arbusti spinosi. Raggiunto uno stagno, intravede
la sagoma scura di una nuvola, riflessa nell’acqua al tramonto.
L’ombra si allunga, come una forma dotata di vita propria.
“Forse non è ciò che sembra”.
Una fitta di adrenalina gli attraversa
tutta la schiena, fino alla nuca. Predestinazione.
Il suo sguardo si fissa sulla riva
opposta.
“Wisunth”.
Il re della torbiera, progenie taurina,
è un colosso di membra. Altezza alla spalla: un paio di metri per
due tonnellate di pura forza. È del tutto nero, eccetto una striscia
di pelo bianco, lungo il dorso arcuato. Il torace è possente; le
zampe, tornite e slanciate allo stesso tempo. Il collo, rigonfio di
muscoli, regge una testa munita di corna curve, a forma di lira:
bianche e sinuose, protese in avanti.
A tu per tu col possente uro: il
bisonte arcaico è un nemico invincibile, una macchina bellica.
Un brusco strattone del capo e il
colosso interrompe la propria cena. Dilata le narici, avverte il
pericolo.
“Mmuuuurrrgghhh!”
Il titano muggisce, quasi ruggisce. Di
fronte all’intruso che viola il suo regno, i ciuffi biancastri del
dorso si rizzano; gli occhi si stringono come fessure. Lo specchio
d’acqua melmosa, nel mezzo, è il solo ostacolo a separare i due
contendenti.
Il guerriero è pronto. È giunto il
momento di stringere l’impugnatura della sua arma migliore: pomolo
a forma di cuore con paste vitree in castone, color rosso sangue. Il
contatto con l’elsa dorata gli infonde coraggio.
“Brand.”
Spada lunga, ottenuta forgiando più
lamine a freddo.
Coda che sferza l’aria come una
frusta, il colosso è pronto alla carica. Poi, senza una chiara
ragione, il bisonte arretra e sparisce dietro un meandro della
palude.
Adrenalina.
Il guerriero è impaziente. Il cuore
gli batte all’impazzata, il sangue gli dà alla testa. Inizia a
percorrere il lungo perimetro dell’acquitrino.
“Urtheil”, ripete tra sé e sé,
cercando di farsi coraggio. Sfidare l’ordalia è una prova di
audace incoscienza.
“Il Fato proibisce lo scacco”.
Per chi, come lui, ha scelto il cammino
più arduo, farsi da parte è disonorevole: affrontare il proprio
destino, equivale a domare il volere del temibile nume.
Woden.
Dio della guerra, campione guerriero
dall’occhio solo, il Creatore del Fato esige un tributo di sangue.
Il barbaro è pronto. Aderendo al mistero iniziatico, si accinge ad
affrontare la sua grande sfida.
Che la caccia selvaggia abbia inizio.
Raggiunta la sponda opposta, dell’uro
non vi è neanche l’ombra: pare essersi dileguato. Il guerriero si
siede su un blocco di pietra; lo stagno è alle spalle, il bosco di
fronte. Scruta i suoni della foresta, i sensi si acuiscono. Il ronzio
degli insetti è un turbinio odioso; il frinire di grilli, di sfondo,
è assillante quanto la frenesia degli uccelli notturni che intessono
lugubri moniti, tra un albero e l’altro. La torbiera pare tornata
alla sua infida calma, ma il cacciatore sa bene che il bisonte
primordiale non batte mai in ritirata. Prima o poi tornerà, e lui lo
sta aspettando.
La notte è calata sulla torbiera. Le
nebbie suppurano effluvi mefitici.
“L’ora dei Daugr è ormai prossima,
per chi vuole credervi”.
L’aria, addensandosi, si fa pesante
come piombo appena cavato. La minaccia incombe.
“Widramn Corvo di Tenebra, tu non sei
un vigliacco d’un arga, che sfugge di fronte al pericolo”.
Faramanno d’Insubria, antico sangue di origini gote: il più nobile
tra i longobardi: maestro nell’uso delle armi, sa bene che questo
dominio di monti, acque e torbiere non può avere due re.
Sciabordio d’acqua, alle sue spalle.
Un brivido premonitore lo scuote fino alle ossa…
"Splassshhhh!!"
Le acque esplodono in un boato
terrificante. Widramn scatta d’istinto, schivando gli schizzi: è
il suo errore peggiore. Il bisonte, balzando, gli è subito addosso.
Lo incorna, scagliandolo in aria come un fuscello; il guerriero
precipita a diversi metri di distanza, tra il fango e i rovi.
La frenesia della lotta scatena la
belva: da vittima rituale a predatore, è uno scambio di ruoli che
gli riesce bene. Il titano smuove la mota con lo zoccolo destro;
sembra un demone dell’oltretomba.
Widramn Corvo di Tenebra scivola via
come una serpe, schermandosi dietro una ruvida quercia. L’impatto
del wisunth disintegra il tronco.
Nel massimo spasmo dell’eccitazione
la belva sbuffa, stantuffa e inizia a incornare qualunque cosa le
capiti a tiro. Non ha percepito che il cacciatore è di nuovo in
piedi e si sta preparando, con la lunga lancia in pugno.
“Gajra, conosci il tuo dovere”.
Il guerriero scaglia l’asta con tutte
le forze contro il nemico. La punta di ferro taglia in due l’aria,
ferendo il bisonte di striscio; Widramn impreca. Il wisunth si volta,
squadrandolo con occhi di fuoco. Punta le corna ad altezza del suolo,
smuovendo zolle di torba nera.
Il suo gesto è un lugubre monito.
Decreta lo scontro all’ultimo sangue.
Il nemico incombe. La sua mole
sprigiona energia primitiva. Schegge, frammenti di spade di mille
guerrieri falciati dalla sua furia luccicano appena, nella penombra:
piantati nel duro cuoio della sua pelle nera.
Trofei d’uomini, incastrati nelle
cicatrici.
Quel corpo immane ha assorbito gli
squarci, non i tormenti che gli hanno inflitto. Widramn rotola nella
torba umida; la ringha ad anelli tintinna, come per rammentargli di
averlo appena salvato. È solo l’inizio di un lungo scontro, dove
veleno e trappole non trovano posto.
È un duello tra pari: un duello alla
pari
L’ostentazione di brutalità e
astuzia esclude ogni tipo d’inganno. Il rispetto è assoluto,
reciproco: disprezzano entrambi gli sfregi e i dolori, mettendo in
gioco le proprie vite finché uno dei due non soccomberà.
Queste, le regole della caccia
selvaggia: dura la legge della torbiera.
“Gottengheld!”
Widramn invita il nemico a farsi sotto,
estraendo la spada a due tagli e facendola roteare sopra la testa.
“Dono divino” è ferro temprato, duro come acciaio e ornato con
fregi d’oro puro. Il cacciatore barbarico stringe l’impugnatura,
balzando in avanti. Colpisce il bisonte a ripetizione, di taglio e di
punta. Non basta: la resistenza del bufalo nordico, immensa, richiede
ben più di un paio di colpi ben assestati. Le corna affondano
ancora, Widramn le schiva. Con la coda dell’occhio scorge un
groviglio di liane; rinfodera l’arma, gettandosi a lato. Afferrato
il capo dei rampicanti, si accinge a scalare un viscido tronco di
frassino.
“Ce l’ho quasi fatta”.
Sfinito, si mette a sedere all’incrocio
dei rami.
Piegalo al Fato, figlio mio. Piegalo!
Woden, “Colui che aggredisce”,
bisbiglia tra i suoi capelli come brezza notturna: lo spinge al
coraggio, forse al suicidio.
Il goto d’istinto accarezza
l’impugnatura della sua scramasax, legata all’altezza della
coscia destra. Corna ritte come giavellotti, il bisonte, sotto di
lui, sembra aspettare ogni suo minimo errore.
“Ti accontenterò”.
In un impeto d’ira, Bosco del Corvo
si getta dall’alto piombando di peso sulla schiena del bisonte. Il
bestione gonfia i muscoli, assestando terribili colpi verso l’alto.
Widramn afferra le corna dell’uro, alla disperata.
Per volere della Lunga Barba, piegalo
al Fato! Come ferro ancora tenero, forgiato al calor rosso!
Tauromachia barbarica: lotta furiosa
tra la vita e la morte. Il guerriero stringe i fianchi dell’uro che
scalcia e salta come un demonio. Slancio violento, centrifugo: un
uomo comune non potrebbe resistere a una tale impresa. Il colosso
s’impenna, senza guardare dove sta andando; il suolo, morbido, cede
di schianto. Il bisonte affonda nel fango col suo cavaliere.
“Questo è il momento!”
Widramn estrae la sua scramasax.
Affonda la lama nei fianchi del suo avversario, squarciando in
profondità; lacera il cuoio, penetra a fondo nella carne spessa.
“Ulfswut!”
Furore barbarico. L’uomo che a viso
aperto affronta la belva feroce scorge in essa il suo lato oscuro. In
stato di trance primordiale infierisce, infliggendo un numero di
colpi tale da perderne il conto.
Sente il vigore del wisunth esaurirsi.
Lo spirito abbandona il suo grande corpo; l’anima viene meno, per
scivolare dentro di lui. Il sangue dei contendenti si mischia, si
fonde col fango della palude. Widramn estrae la sua lama, a fatica.
“Mmuuuurrrgghhh!”
Il bisonte sanguina dalle narici,
esalando sospiri di vita che non torneranno. Un frullo d’ali sulle
fronde degli alberi scandisce un macabro requiem in onore all’eroe
morente. Di fronte all’ultimo boato, gli uccelli di tenebra
abbandonano i rami, spiccando il volo. Lo sguardo del colosso si fa
vitreo: il re della torbiera è spirato.
Widramn fa per colpirlo ancora una
volta, la scramasax gronda sangue. A quel punto, si ferma, arresta i
suoi affondi. Il signore d’Insubria non è un giustiziere. Il suo
cuore si riempie di commozione: pietà per la vita spezzata del suo
avversario.
Rispetto, immedesimazione.
Tragedia preistorica.
È una lotta interiore che soltanto un
barbaro riesce a comprendere, e al tempo stesso una grande vittoria:
sopravvivere all’uro è già di per sé un’anomalia, trionfare
vuole dire sconfiggere i tranelli del Fato.
Dolore e sofferenza: ciò che il dio
cacciatore esige dai figli del lupo.
Biondi capelli imbrattati di sangue,
Widramn Bosco del Corvo si tuffa in acqua. Deve concludere il suo
ultimo atto: segare via le grandi corna.
“Mai in vita mia ne ho viste di più
lunghe e robuste; degne della tavola di un grande re”.
Procede al taglio. Il lavoro è lungo,
estenuante. Non deve scheggiare la spessa radice. Al buio il lavoro è
ancor più faticoso, ma l’esperienza lo guida a occhi chiusi.
“Questo è per me!”
Ora potrà brindare in un calice degno
della sua fama.
Messo da parte il primo corno, il goto
si accinge a tagliare via l’altro. È avorio pregiato, da non
sprecare; in futuro potrebbe tornargli utile per stringere un patto o
chissà, un’alleanza tra clan…
Mentre il guerriero conquista i trofei,
le forme di vita nel bosco restano immote.
Tutte, tranne una.
Aghiron, emissario di Woden…
L’airone sfila con eleganza tra una
pozza e l’altra. Il grande volatile, livrea bianca e cinerea,
ostenta un lungo ciuffo di penne sul collo flessuoso: come una chioma
corvina, in contrasto con le sue ali candide. Si muove alla stregua
di un equilibrista, facendo strage di rospi e piccoli pesci. I suoi
scatti fulminei non falliscono mai, infilzando le prede col becco
aguzzo; le inghiotte con foga, come usano fare i serpenti. Finito il
suo pasto, l’airone scruta Widramn con gli occhi rotondi,
giallissimi: sguardo da rettile, scandaglia l’animo del
trionfatore.
Il presagio non lascia spazio al
dubbio: il dio ha assistito allo scontro.
“Corvo di tenebra, hai evitato lo
scacco. Sconfitto il nemico, la tua vita avrà seguito: ma a quale
prezzo, se non quello del sangue versato?”
"I Signori della Torbiera" è il primo capitolo di un più ampio romanzo, edito nel 2017 per Macchione editore, premiato a seguito di diversi concorsi nazionali:
Chi fosse interessato può contattare l'autore su facebook, oppure all'indirizzo e-mail feudal@hotmail.it
Onorificenze:
*Racconto Finalista "Pistrix" (1° posto)per il Premio nazionale Philobiblon, ediz. 2013 indetto da Italia Medievale.
*Racconto Finalista "Wisunth" (3°posto) per il Premio nazionale Philobiblon, ediz. 2014 indetto da Italia Medievale.
*Menzione speciale per il premio nazionale Ambiart, ediz. 2014, col titolo “La Caccia Selvaggia"
*Menzione d’onore del romanzo integrale, concorso “Caterina Martinelli – Colli Aniene 2015” .
*Menzione d'onore del romanzo integrale, Concorso nazionale di scrittura creativa “Un Cuore Giovane 2015”.
*Racconto Finalista "Wisunth" (3°posto) per il Premio nazionale Philobiblon, ediz. 2014 indetto da Italia Medievale.
*Menzione speciale per il premio nazionale Ambiart, ediz. 2014, col titolo “La Caccia Selvaggia"
*Menzione d’onore del romanzo integrale, concorso “Caterina Martinelli – Colli Aniene 2015” .
*Menzione d'onore del romanzo integrale, Concorso nazionale di scrittura creativa “Un Cuore Giovane 2015”.
Didascalie:
1-Fotomontaggio: il sogno del guerriero
1-Fotomontaggio: il sogno del guerriero
2-Val Formazza, salita verso il lago
del Toggia (Verbania)
3-Fiume Maggia presso Mergoscia, in
Canton Ticino (Svizzera)
4-Tipici elmi longobardi, Gruppo di
Rievocazione Fortebraccio Veregrense. Lomello (Pavia)
5-Corna di bisonte incastonate in un
pezzo d’oreficeria manierista (Vienna, Kunsthinstorisches museum)
6-Parco Regionale delle Torbiere dei
Lagoni di Mercurago (Novara)
7-Toro nelle campagne di Conques
(Francia, Midi-Pirenei)
8-Ricostruzione di spada longobarda,
Gruppo di Rievocazione Fortebraccio Veregrense. Monticello (Lecco)
9-I miei ringraziamenti a Diego "Behoram Uallas" del gruppo di Rievocazione Storica "Fortebraccio Veregrense" per avermi permesso di utilizzare le foto scattate dal loro armamento.
Avvincente come tutto quello che tu fai narrazione veloce colta ed intrigante
RispondiEliminaGrazie! Se il testo può interessarti (siamo anche noi periodo natalizio) puoi contattarmi su Facebook 🙂
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