lunedì 22 agosto 2016

Massafra bizantina: viaggio nella città nascosta


Chiesa-Cripta di San Marco (Massafra, XI sec.)

Riflesso d'orizzonti orientali: dai Balcani alla Grecia, dalle rive egee fino al golfo del Bosforo. La Puglia, che per lungo tempo aveva fatto parte del regno di Langobardia, nel biennio 1155-1156 fu rivendicata e strappata agli arabi dalle milizie bizantine inviate dall'imperatore Alessio Comneno. Presto le rocche di Bari (tò kastròn Bàreos), vecchia capitale del Catapanato d'Italia dove appena un secolo prima erano state traslate le reliquie di San Nicola di Mira, ripresero le funzioni un tempo spettanti all'esarcato di Ravenna: fu così che i dromoni, navi da guerra bizantine del piccolo e ricco regno di provincia creato a somiglianza di Costantinopoli, tornarono ad affacciarsi prepotentemente sui mari. Eppure, il predominio della cultura greca in Puglia non fu ottenuto solo con le armi, né per via della nuova ricchezza diffusa: il merito maggiore è da attribuirsi al dilagante fenomeno del monachesimo siro-palestinese, che tra X e XII secolo colonizzò la regione con l'insediamento di villaggi rupestri.


Dromoni bizantini (S. Apollinare Nuovo, Ravenna. VI sec).

Non lontano dagli opulenti latifondi coltivati a ulivi, cereali e vigne, nelle zone più impervie della provincia di Taranto andarono presto addensandosi estese “criptopoli”: città segrete, ricavate dallo scavo plurisecolare dei fianchi di burroni tufacei detti “gravine”. Con lo stanziamento degli eremiti venuti da Oriente, questi antri furono riadattati e coperti di immagini sacre affrescate in stile bizantino, dove il contrasto tra le cromie e il medium della pietra grezza pone in massimo risalto il valore del misticismo teologico trasposto in pittura.
A testimonianza di storie di comunità monastiche di antichissime origini la regione delle Murge, da Grottaglie, Massafra, Mottola e Gravina a Matera e Altamura è punteggiata da una trentina di chiese rupestri, spesso di notevole valore storico-artistico: una vera e propria Cappadocia pugliese. All'imboccatura del Parco Regionale delle Gravine si innalza lo sperone roccioso di Massafra: la più importante città rupestre pugliese, che per via della sua millenaria vocazione eremitica é stata soprannominata “Tebaide d'Italia”.


Massafra - Gravina di San Marco

Proprio a imitazione di sant'Antonio abate, che verso il 306 d.C. era emerso vittorioso da una volontaria reclusione espiatoria nel deserto egiziano della Tebaide, i suoi adepti usarono espiare i peccati del genere umano isolandosi, pregando e digiunando in terre ostili e disabitate. Pur essendo difficile, in carenza di scavi sistematici, offrire una cronologia precisa della fenomenologia rupestre, il periodo di massima frequentazione del sito é attestato tra X e XI secolo: la prima notizia storica attestante l'esistenza di un  monaci orientali a Massafra, il cui territorio, peraltro, risulta frequentato come sito trogloditico fin dall'età della Pietra, si registra nel 971 d. C.  Gli ambienti ricavati nel tufo, riabitati dall'alto Medioevo come rifugio isolato dagli assalti nemici alle grandi città, furono presto adibiti a nuovo uso.
L'insediamento tra le grotte da parte di comunità cristiane dedite all'austerità prevedeva le difficili attività di purificazione spirituale (askesis) e fuga dal mondo (anachoresis). Se un contadino si fosse fatto monaco, questi avrebbe ceduto la sua terra a una cappella da erigere; con il tempo, altri due o tre braccianti si sarebbero uniti a lui e cosi di seguito, fino alla creazione di una nuova comunità monastica.


Massafra - Gravina di San Marco

Attualmente, a ridosso di un pianoro urbanisticamente saturo, il centro moderno di Massafra é solcato da ben due gravine costellate di grotte e villaggi ipogei.
La vistosa
gravina orientale, dedicata a San Marco e occupata da un villaggio rupestre, con le chiese di santa Marina, della Candelora e san Marco incarna una preziosa testimonianza di vita ascetica; sulla faglia aperta si staglia il castello di origine normanna, munito di torri cilindriche. Vedere un villaggio trogloditico così ben inserito in un centro abitato fa del contesto massafrese un habitat unico al mondo.
Calandosi nella gravina, il primo esempio architettonico in cui ci si imbatte é la notevole
chiesa-cripta della Candelora: l'edificio a pianta basilicale, risalente alla fine del XII secolo, è una delle strutture più raffinate della scuola salentina. Il suo sistema, impostato su uno spazio di tre navate ad andamento trapezoidale appositamente ideato per favorire la diffusione della luce naturale, sorregge una cupola circolare impostata su mensole in cui é fedelmente applicata la concezione geometrica bizantina dell'ottagono inscritto in un quadrato.


Chiesa-cripta della Candelora (XII sec.)

La chiesa-cripta deve la sua intitolazione all'abitudine popolare di chiamare la festa cristiana della Presentazione di Gesù al Tempio col nome di “Candelora”.
Il rito cristiano delle candele, legato al lento ritorno della luce primaverile, preesisteva già presso i pagani; é il caso della festa celtica di Imbolc, dei Lupercalia romani, delle calende di Febbraio dedicate a Giunone e dei riti in onore dell'anatolica Cibele, "Grande Madre Idea": queste ultime due figure femminili, legate ai cicli lunari, alla fertilità e al ritorno alla vita prefigurano l'immagine di Maria.
Sulle pareti sopravvive un importante ciclo di affreschi tematicamente riconducibili proprio alla liturgia d'iniziazione: nella scena della Presentazione al Tempio la Vergine, raffigurata secondo il celebre modello greco dell' “Odeghitria” ossia di “Colei che indica la via”, mostra il Cristo bambino offerto a san Simeone quale sacrificio per la salvezza dell’umanità.
Dinnanzi al bambino si ricordano le parole del vecchio profeta: “egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, perché  siano  svelati i  segreti di molti  cuori.  E anche a te una spada trafiggerà l’anima”. (Lc 2,25-35)

 
Con questa profezia sibillina il profeta preannunciava la morte dell’amato figlio e il terribile strazio di sua madre. Non a caso, lo spazio mistico della ritualità bizantino si soffermò spesso su questa dimensione: la dimensone del sacrificio reale, ma anche allegorico. Nella cripta massafrese della Candelora un'altra icona della Vergine, sulla destra, stringe per mano un Cristo infante, osservandolo con la tenerezza tipica della tipologia della “prolexis” ossia “anticipazione”: la prefigurazione simbolica della futura Passione. L'altrettanto singolare immagine del bimbo "carpoforo", portatore di un cesto colmo di frutta come un putto dionisiaco, allude alla conversione cristiana in doni dello Spirito Santo.


Chiesa-cripta della Candelora - Icona rara della Vergine che stringe per mano l'Infante

Perché vivere e cercare la quiete spirituale proprio sotto terra? La cripta, dal greco Kryptē, ossia "luogo nascosto",  destinata in seguito custodire tombe e reliquie di santi, era originariamente il grembo della Madre Terra, regno delle divinità generatrici: in questo luogo privilegiato d'incontro tra l'uomo e il Dio reincarnato, con la mediazione della Vergine, il mondo esterno era tenuto severamente lontano.
Ebbene sì:
Maria è discendente delle antiche dee della natura e dei cicli lunari. Ancora nel V secolo dopo Cristo, il teologo Isidoro da Pelusio sollevò la scottante disputa sulla distinzione tra la Madre di Dio cristiana e le misteriche divinità femminili legate al politeismo: poiché a livello popolare il problema, sentitissimo, era causa di fraintendimenti continui, i teologi optarono a favore di una maternità virginale intesa come vera e propria “gravidanza umana”.


La malinconia nello sguardo della Madre, consapevole del sacrificio futuro

Fu per lo stesso motivo che gli imperatori d’Oriente del VI secolo avanzato consolidarono il concetto di piena umanità di Maria supponendone la morte, benché nobilitante, attraverso l’assunzione in Cielo. Il problema del riconoscimento del culto universale della Vergine come creatura umana e al tempo stesso genitrice di Dio fu risolto dal concilio di Efeso del 435 d.C
Eppure, i residui di paganesimo sopravvissero ai secoli: a Massafra l'arredo liturgico in pietra ripropone caratteri ereditati dagli antichi templi greci. Il “naos”, antica casa del nume e del suo simulacro, diventa lo spazio adibito ad accogliere visioni dipinte: é il luogo di manifestazione, proibita ai più, della divinità rupestre; il "bema", dove si celebravano i riti, non era altro che l'antico altare sacrificale.


Moneta raffigurante la Dea-Madre Cibele (Milano, museo Archeologico)

Più in là, tra le grotte, le erbacce e le essenze selvatiche di malva, fichi e capperi, si cela San Marco; la chiesa-cripta che diede il nome alla faglia tufacea, con le sue due navate affiancate, separate da pilastri scolpiti e graffiti a caratteri greci e latini, testimonia la convivenza pacifica di comunità di confessione mista, abituate senza problemi a officiare in comune: una navata era dedicata ai fedeli del culto greco-ortodosso, l'altra a quelli di confessione latina e cattolica.
Per raggiungere la gravina occidentale bisogna attraversare il disadorno centro abitato, costellato da episodi poco felici di edilizia anni '50, dove soltanto una guida del luogo potrà indicate le vie, oggi invisibili, per nuove cripte nascoste. L'itinerario mistico, che porta ad accedere ai sotterranei di un vecchio ospedale civile, nasconde
l'antichissima chiesa ipogea di Sant’Antonio  (X-XI sec.)



Chiesa-cripta di S. Antonio (X-XI secc.)

Anche qui, come in san Marco, una cripta molto antica accoglie due chiese affiancate e distinte, con nicchie parietali affrescate risalenti a periodi distinti, databili tra il  XIV e XV secolo. Il campionario iconografico, prettamente filo-bizantino, ostenta una “Déesis” (Cristo in trono, Signore del cielo, della terra e del mare, fiancheggiato dagli intercessori: la Mater Domini e Giovanni Battista), San Pietro con le lettere e le chiavi, e numerosi santi (Paolo eremita, Sant’Antonio, i santi medici Cosma e Damiano).
L'arrivo alla gravina occidentale presenta nuove sorprese: la basilica di Santa Maria della Scala, creata ad immagine della Gerusalemme celeste, le cripte affrescate di San Lorenzo, di San Simeone in Famosa, della Buona Nuova e l'Antro del Ciclope.
Il viaggio nella valle si conclude in fondo a un burrone, a 200 metri di profondità, dove sorge la “Farmacia del mago Greguro”: un’imponente struttura tufacea punteggiata di buchi e costituita al suo interno da celle comunicanti, di cui i monaci si sarebbero serviti per depositare erbe medicinali.


Farmacia del Mago Greguro

Insieme al nome del misterioso taumaturgo, la tradizione locale ha tramandato il ricordo di molti altri maghi e streghe vissuti nei secoli proprio in queste valli. Dalla Farmacia del mago Greguro alla Gravina della Zingara, dal Noce dei Maghi al Corno della Strega fino alla Punta del Monte Moro e al Rione degli Ostinati, la Murgia è la terra dove un tempo gli stregoni praticavano riti divinatori e preparavano filtri magici. D'altra parte quale altro luogo se non Massafra, antico centro della spiritualità medievale in Puglia, dapprima dimora di antiche divinità rupestri e poi Tebaide d'Italia, si presterebbe ad accogliere nel suo grembo di pietra i grandi misteri insondabili della teosofia altomedievale?

Testo e foto: Marco Corrias (alias Marc Pevèn)


Castello normanno-angioino di Massafra (XI-XIV sec.)

Bibliografia:
Dell’Aquila F,  Messina A., Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, 1998.
Belting, H., Il Culto delle Immagini, storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo, 2001.
Pasini, G., Il monachesimo bizantino, 2004.
Lavermicocca, N., Puglia bizantina, 2012.

mercoledì 10 agosto 2016

Sant'Imerio di Bosto - Quando il mito si fa sacro


Cosma e Damiano, santi gemelli - Monastero serbo di Djurdjevi Stupovi (XIII sec.)

La castellanza di Bosto, un tempo villaggio e oggi elegante frazione residenziale inglobata nell'hinterland collinare di Varese, cela il paradigmatico mistero  di un personaggio della tradizione locale il cui ricordo si é quasi smarrito nella notte dei tempi.
La figura in esame é quella di Imerio, santo minore che, in associazione al più noto Gemolo, suo compagno di martirio, gode da secoli il privilegio di un culto locale. La sacra coppia, invero, incarna l'esempio di come una credenza cristiana possa scaturire da tradizioni preesistenti. A tal proposito sorge lecita una domanda: chi fu sant'Imerio?
Gli indizi di partenza si ritrovano nella “Passio Sancti Hyemuli”: documento agiografico relativo al martirio di Gemolo, trascritto nel monastero di Ganna (Va) verso la fine del XII secolo. Vi si narra di un anonimo vescovo transalpino che, di passaggio in Italia del nord lungo la strada per Roma, fu aggredito in un'imboscata da una banda di ladri  che gli sottrassero il cavallo. Di fronte al fatto compiuto, suo nipote Gemolo e Imerio, “miles socius itineris”, ossia compagno di viaggio e guardia del corpo, furono incaricati di mettersi sulle tracce dei predoni al fine di recuperare il maltolto. Quando li ebbero scovati, di fronte alla richiesta garbata di restituire il cavallo e nel nome di Dio, di risparmiarli, seguì  la decapitazione di Gemolo. Imerio invece, pur in fin di vita, esalò l'ultimo respiro solo dopo essere fuggito dal luogo del delitto.


Badia di San Gemolo a Ganna (Va) XII- XV secc.

Se Gemolo fu sepolto nella vicina Badia di Ganna, luogo di culto precedentemente già dedicato al culto longobardo di San Michele arcangelo, dove la tradizione agiografica sostiene l'immediato susseguirsi di prodigi, ritrovare le spoglie del suo compagno richiese uno sforzo maggiore. La “Passio” a malapena menziona l'episodio  della traslazione della sua salma in un ignoto sarcofago. Col passare del tempo la tradizione iniziò a identificare, pur senza prove certe, il luogo di morte del "soldato chiamato Imerio" nella Castellanza di Bosto, dove la  consuetudine accenna a una chiesa appositamente eretta per commemorarlo...


Varese - S. Imerio di Bosto (XI sec.)

Falso. Chiariamo da subito: anche a Bosto esisteva una chiesa longobarda, pure essa adibita al culto di san Michele. Solo un documento giuridico assai tardo, datato 1417 e comprovante l'impegno da parte di Pétrolo, giurista del luogo, di lasciare in dono al capitolo di San Vittore una vigna ed altri beni in località in cambio di un'orazione funebre per l'anima sua e dei parenti defunti, in tal senso, costituisce un documento prezioso circa il successivo culto del soldato moribondo: tutto ciò avveniva ogni anno, alla vigilia della processione dedicata a “Imerio santo e martire”. Il piccolo oratorio campestre, tutt'ora esistente, risale alla metà dell'XI secolo: datazione indotta dalla superstite parete sud, contraddistinta da muratura romanica costituita da grossi ciottoli di fiume, talvolta disposti a spina di pesce, pietre non squadrate e da tre monofore a doppio strombo. Questi caratteri rivelano affinità con altre chiese edificate nell'area, nei decenni di poco successivi al 1000.
Nel XIV secolo, l'aggiunta di un transetto quadrato voltato a crociera (poi a botte, in età barocca) portò alla trasformazione del piccolo luogo di culto e al conseguente ampliamento in lunghezza. Attorno alla seconda metà del secolo seguente, anche l'abside  fu completamente plasmata in stile gotico e decorata con un affresco di buona qualità: una scena di crocifissione con Maria, san Giovanni e la Maddalena ai piedi della croce e ai lati San Michele e un profeta, inquadrata sul fondo  come un'ancona.


Varese - S. Imerio di Bosto (XI sec.)

Nel giro di poche decadi l'affresco, non più rispondente al gusto del tempo, fu occultato dietro a un polittico rinascimentale di particolare valore, eseguito dal varesino Francesco De’ Tatti (attualmente esposto ai musei del castello Sforzesco di Milano), sulla cui predella é immortalata la figura di Imerio: con tanto di saio e bastone e il pugnale, strumento del martirio, confitto nel petto, il soldato di un tempo era stato tramutato a sua insaputa in pellegrino!
Nel 1572 nuovi lavori eseguiti su richiesta di san Carlo Borromeo, l'allora arcivescovo di Milano, portarono alla scoperta casuale  di un sarcofago di pietra, sepolto da tempo immemore al centro della navata: esso costituiva la prima vera testimonianza concreta di quella fantomatica traslazione menzionata di sfuggita nella “Passio Sancti Hyemuli”!
Ciò nonostante, il prezioso reliquiario litico fu nuovamente interrato. Per svelare parte dell'enigma si dovette attendere il 1928: data della definitiva riesumazione del cosiddetto "sarcofago di Imerio", così soprannominato dalla tripudiante comunità di Bosto. 


Varese - S. Imerio di Bosto (XI sec.) Affresco tardogotico

Dopo aver constatato che le ossa rinvenute nel sarcofago appartenevano a cinque esseri umani, accurate analisi antropologiche identificarono solo in uno di essi, un soggetto robusto, di  sesso maschile, dai caratteri cranici “nettamente alpini”, il solo che “ivi avesse originaria sepoltura”. L'anno successivo le presunte ossa del martire furono ricomposte in una cassetta di legno e trasportate nella nicchia presso l'altare barocco della “Madonna del Pilastrello”, il cui nome indica un miliario romano e con esso, la presenza un'antica strada romana cancellata dai secoli. Premessa la necessità di contestualizzare storicamente un ambito di confine come quello delle Prealpi lombarde, ancora in posizione di continuo compromesso con un sostrato di pratiche paganeggianti per nulla sopite, a questo punto si inserisce l'interpretazione su Imerio e Gemolo ad opera dello scrivente.


In primis, la vicenda narrata pare scaturire da un comunissimo episodio di cronaca medievale: un’imboscata. Nel XII secolo,  proprio al tempo in cui i monaci redassero il testo, molti pellegrini in viaggio attraverso le valli varesine erano caduti negli agguati tesi da bande capeggiate da tagliagole come il “Rosso da Uboldo”: il malfattore a cui le fonti attribuiscono diversi crimini, piuttosto che un'immagine scaturita dal passato, pare più un personaggio della cronaca del tempo. Forse che, a secoli di distanza dal duplice martirio, le penne d'oca del monastero di Ganna avessero deciso di svecchiare una tradizione obliata, per garantirle nuovo lustro?


In secondo luogo, é davvero difficile credere che la scorta armata di un vescovo possa essere  stata sgominata da una banda di ladri, senza alcuna difficoltà. D'altra parte, anche la richiesta pacata del giovane Gemolo di restituire il maltolto, lungi dall'essere una genuina testimonianza della tradizione orale, suona più come un blando sermone stereotipato prodotto della più prolissa tradizione agiografica di provincia.


Badia di San Gemolo a Ganna (Va) XII- XV secc. Adorazione delle reiquie di Gemolo

Se consideriamo pure che i presunti pellegrini, in verità, erano membri di un’ambasciata “ad limina apostolorum”, pratica invalsa al fine di rinnovare la fedeltà delle Chiese locali alla S. Sede, la struttura portante dell'intreccio narrativo viene definitivamente a mancare. D’altra parte, gli studi inaugurati negli anni '60 del XX secolo da don Francesco Galli con viaggi in Francia e Germania, volti a gettare nuova luce sull'origine dei “pellegrini della Passio”, non portarono ad alcun risultato. Le figure di Gemolo e Imerio, quasi intangibili, tendono da sempre a mischiarsi, quasi a confondersi: talvolta i due furono scambiati per fratelli e perfino gemelli, quando non addirittura  ritenuti incarnazione dei due differenti volti della stessa persona!

Riconsideriamo i luoghi sacri in cui i santi furono sepolti: entrambi dedicati a San Michele arcangelo, indicano una chiara preesistenza longobarda, probabilmente di culto ariano. D'altra parte, fin dai tempi più remoti sia Varese sia Ganna costituivano parte integrante di quell'antica "gastaldaga", o circoscrizione territoriale, storicamente alle dipendenze della potente Castelseprio: quelle stesse terre di confine che, pochi sanno, sul finire del VI secolo d.C costituirono aspro teatro di scontro tra Longobardi e Franchi: 

E' Gregorio di Tours, vescovo e insigne cronachista d'età barbarica, a lasciarci poche e preziose testimonianze nella sua "Historia Francorum" a proposito dell'esercito franco del duca Ollone, "checimprudentemente s'era avanzato fino a Bellinzona, piazzaforte posta nella regione dei Campi Canini . colpito al petto da un giavellotto cadde e morì. (...). I longobardi fecero irruzione a gruppi sparsi sopra di loro in luoghi diversi. C'era infatti, all'interno del territorio della città di Milano, un lago che chiamano Ceresio, dal quale esce un fiume piccolo ma molto profondo. E i Franchi avevano saputo che i Longobardi erano accampati sulle sponde di quel lago. Quando i Franchi arrivarono sul posto, prima che potessero attraversare il fiume suddetto un longobardo, protetto dalla corazza e dall'elmo, dall'altra sponda bilanciò in mano l'asta e gridò ad alta voce contro l'esercito franco: "oggi si vedrà a chi la Divinità ha prescritto di conseguire la vittoria!". Si può bene capire che, con questo gesto, i Longobardi avevano preparato un segnale. Intanto pochi Franchi, guadato il fiume, vennero a combattimento con questo longobardo e lo sopraffecero. Ed ecco: tutto l'esercito dei Longobardi, volto alla fuga, scappò. Allora anche gli altri Franchi attraversarono il fiume: non trovano più nessuno, riconoscono soltanto le tracce degli accampamenti, dove i Longobardi ebbero i fuochi e avevano piantato le tende. Così, senza aver catturato neppure uno di loro, i Franchi tornarono ai loro attendamenti. E là giunsero alcuni ambasciatori dell'imperatore ad annunciare che sarebbe arrivagto in loro rinforzo un esercito: "Quando vedrete alcuni incendi bruciare le case di quel villaggio posto sulla montagna, e il fumo dell'incendio salire fino al cielo, allora capirete che noi arriveremo con l'esercito che abbiamo promesso". Ma dopo aver atteso secondo l'accordo sei giorni, mon videro arrivare alcun esercito...

Per quasi tre mesi i Frachi girarono l'Italia senza ottenere nulla, nè riuscire a vendicarsi dei nemici, ben difesi in luoghi sicurissimi come Castelseprio, nè riuscirono a catturare il re che si era asserragliato tra le mura di Pavia finché l'esercito, ormai prostrato, decise di tornare alle proprie regioni. Così tornando, erano talmente incalzati dalla fame che arrivarono a privarsi delle armi e dei vestiti per procurarsi cibo prima d'essere rientrati al paese d'origine. 

Analizziamo i nomi dei due santi: essi, in verità, non sono di origine basso medievale, ma d’età paleocristiana. Imerio deriva dal greco ῾Ιμέριος ossia “Himerios”, latinizzato in “Himerius”, di significato incerto ma forse derivante da etnonimo legato all'antica città siciliana di Himera: i santi  del primissimo medioevo provenivano pressoché tutti dalle terre di dominazione bizantina (vd. Sant'Imerio di Amelia, La Spezia). Il nome Gemolo, invece, che deriva dal latino “hiemalis” ossia "invernale" alluderebbe all'acqua del fonte paleocristiano e bizantino, ossia quella battesimale: non per nulla, nel luogo in cui il giovane martire fu ucciso si palesarono miracoli legati alle acque rosse di sangue del torrente Margorabbia (colore dovuto, in realtà, alla presenza in zona di cave di porfido rosa), che vanno a confluire proprio nel laghetto di san Gemolo.


Valganna. Le acque insanguinate dal martirio di Gemolo

Per cui, si potrebbe ipotizzare che le notizie estrapolate dalla tardiva “Passio” parrebbero piuttosto riflettere un'epoca lontana per la quale le ipotesi oscillano tra il IV e il VI secolo.
Una fondamentale fonte d'ispirazione utile a comprendere il fenomeno ci é fornita da miti e leggende legate al culto dei gemelli, diffuse in diverse culture e caratterizzate da svariati elementi in comune. Nella maggior parte delle mitologie si ritrovano dei e semidei gemelli, dotati di poteri speciali. Presso le civiltà più antiche, molti miti traggono la loro origine dal salvataggio dell'astro solare da parte di gemelli celesti: già gli “Acvin”, cocchieri fratelli della mitologia persiana, imcarnavano il Cielo e la Terra, il Giorno e la Notte, la Stella del Mattino e quella della Sera. In Lombardia, tracce di una leggenda celtica narrano che Medelhan o Medhelanon, l'antica Milano, fosse stata difesa con le armi da due gemelli che per il loro valore furono resi immortali e tramutati in fiumi: l'Olona e il Lambro. Anche in Grecia i noti Castore e Polluce, eroici gemelli del mito greco detti Dioscuri, soccorritori d'uomini in difficoltà e della sorella Elena, personificazione solare, svelano un pantheon pagano prefigurante la personalità di molti santi cristiani.
Fu così che il cristianesimo, attraverso una grande pianificazione teologica e dottrinale, convertì le antiche divinità guerriere astrali in atleti di Dio.


Musée du Louvre - Castore e Polluce (copie romane da orig. greco)


Tra tutti i santi ispiratori, un ruolo di primo piano spetterebbe ai celebri gemelli Cosma e Damiano: medici della Cilicia, martirizzati nel IV secolo, non a caso mediante decapitazione, durante la persecuzione di Diocleziano e ampiamente venerati anche nelle terre dei laghi lombardi.
Il culto dei gemelli taumaturghi si sviluppò dapprima in Medio Oriente, presso città-santuario già dedicate al culto del dio guaritore Asclepio. Proprio come il suddetto nume della medicina vaticinó «se c'è da soccorrere un povero o uno straniero darete cure gratuitamente, perché dove c'è l'amore degli uomini c'è l'amore dell'arte» anche i due medici “anargiri”, dal greco “senza denaro”, praticavano la professione senza chiedere compensi


Milano, iconostasi ortodossa in S. Maria a Podone: suggestioni del passato paleocristiano 

Preservata la memoria dei riti precristiani di “incubazione”,  originariamente  presieduti da divinità taumaturgiche come Asclepio, Iside e da Castore e Polluce, presso la basilica dedicata a Cosma e Damiano di Costantinopoli accorrevano centinaia di malati a passare la notte: durante il sonno i santi gemelli sarebbero venuti a curarli.
La fama dei due fratelli, divenuti ben presto patroni dei medici e invocati come risanatori di ogni male, presto si irradiò  in Occidente: nel VI secolo erano così popolari che diversi templi di Roma antica furono tramutati in santuari in loro onore.
In parallelo, la Milano ambrosiana preserva una tradizione ugualmente antica (IV sec.): quella relativa ai santi Gervasio e Protasio. Perduti i genitori, i due gemelli vendettero i beni di famiglia per distribuirne il ricavato ai poveri e si ritirarono in una capanna dove passarono dieci anni in preghiera e meditazione. Denunciati sotto Diocleziano come cristiani dopo aver, rifiutato di sacrificare agli dei, i due furono condannati a morte, rispettivamente tramite flagellazione e ancora una volta, decapitazione.

Varese, S. Imerio di Bosto - Rappresentazione e resti del santo in un reliquario moderno


L'effetto-coppia inevitabilmente tendeva ad accentuare un'individualizzazione caratteriale, sia per i santi cristiani, sia per gli eroi pagani che apparivano in coppie. Spesso un gemello è un uomo di pensiero, l'altro d'azione; uno è costruttore, l'altro cacciatore. Castore fu pugile, Polluce domatore di cavalli; Gemolo un oratore, Imerio un soldato. Le rozze figure scolpite sul sarcofago di Bosto, raffiguranti il primo santo provvisto di tonsura, bastone crucifero e il secondo d'elmo e lancia  confermerebbero definitivamente l'ipotesi qui proposta.


Varese, S. Imerio di Bosto - Sarcofago con immagini di Imerio e Gemolo

Testo e foto: Marco Corrias (alias Marc Pevèn)

AA.VV, La Chiesa di Sant’Imerio. Bosto, Varese, 2014
A. Borrelli, Sant' Imerio di Bosto Pellegrino e martire, 2002.
S. Chierici, Italia Romanica, La Lombardia, 1978.
B. Comolli, San Gemolo nella tradizione millenaria, 1966.
A. Finocchi, Architettura romanica nel territorio di Varese, Milano1966.
M. Frecchiami, Il culto di S. Imerio a Bosto, 1994.
M. T. Mazzilli, Architetture medievali e strade. Itinerari nella Lombardia occidentale, 2009.


martedì 2 agosto 2016

Corona Ferrea: agli albori della verità

Corona Ferrea (Tesoro del duomo di Monza, V - IX sec.)

“Io vengo a parlare con voi, che siete i dominatori del mondo. Costruiremo insieme un assetto pacifico”.
Sarebbero state queste le prime parole pronunciate da Teodorico re dei Goti allorché nel 493 d.C, sconfitto il rivale Odoacre, re degli Sciri e degli Eruli nella leggendaria “Rabenschlacht” o battaglia dei Corvi, fece il suo ingresso trionfale a Ravenna, capitale dell'impero romano d'Occidente.
Ancor precedentemente ai Longobardi, il primo popolo in marcia che fece irruzione in Italia fu proprio quello degli Ostrogoti: i Goti dell'est che, prima di migrare in Italia su autorizzazione dell'imperatore Zenone, nel loro lungo peregrinare  tra le sponde del Mar Nero e del Danubio ereditarono dai popoli nomadi delle steppe usi e costumi forieri di nuovi sviluppi.

Solido romano: busto di Costantino con diadema di perle e corazza (IV sec.)

Per realizzare il suo sogno, ossia una terra per il suo popolo,  il nuovo sovrano barbarico si servì abilmente della condizione di alleato dell'impero: ma perché proprio i Goti? Quali, i  legami tra questo popolo, che dominò in Italia per appena ottant'anni e la storia millenaria della Corona Ferrea? La tradizione vuole che proprio da re Teodorico in poi i sovrani germanici ricevessero la corona del regno d'Italia, detta “ferrea” per via della fiera durezza di Goti.  Il contesto storico-archeologico conferma la possibilità  che il prezioso gioiello fosse parte integrante  di  un casco composto da piastre metalliche, sormontato da un pennacchio di piume di pavone: insegna di potere, derivata dalla fusione tra il diadema gemmato di origine persiana, introdotto per la prima volta dall'imperatore Costantino, e gli elmi militari di tipo "spangenhelm"  indossati dell'élite militare barbarica tra il IV e il VII secolo.

Elmi barbarici tipo "spangenhelm" (originale, museo arch. Norimberga; copia, mostra Costantino, Giussano) 

Numerosi sono i riferimenti allo scintillio di questi elmi metallici e al suono che essi producevano quando venivano colpiti in battaglia: i corpi armati germanici al soldo di Bisanzio avrebbero usato il metallo ottenuto dalla fusione delle armi e dalle armature sottratte ai nemici sconfitti, per farne decorare le superfici con gemme in castone.  Descrizioni vivide di questo copricapo sono note anche attraverso le raffigurazioni di monete ostrogote, dal più tardo frontale dell'elmo di Agilulfo (VII sec.) e soprattutto, dalla narrazione di re Totila a cavallo dataci dallo storico Procopio nel "De Bello Gothico". Immagine indelebile, quella del sovrano barbarico intento a passare in rassegna il suo esercito con la tradizionale cavalcata della lancia: indossava una corazza d'oro e un copricapo, dalle cui piastre “pendevano fiocchi di porpora e fregi d'ogni altro genere, degni di un re”.

Elmo di Berkasovo (Budapest, Museo Nazionale, IV sec.)

Al momento, questa nuova interpretazione concorre con quella, altrettanto valida, che contempla il prezioso gioiello come corona pensile sospesa per mezzo di catenelle sulla testa del sovrano in trono: altra tradizione bizantina, presa in prestito con successo dai Visigoti di Spagna.
L'analisi stilistica e chimica delle tecniche utilizzate nella produzione delle tre piastrine più antiche, in smalti cloisonné incastonati entro superfici decorate a granati, ha portato a datarle proprio all'età di Teodorico. Lo storico Ennodio descrisse uno smeraldo collocato proprio nel diadema: la pietra filosofale o elisir d'eterna giovinezza, simbolo di conoscenza occulta e iniziazione. Questa pietra era simbolo di un potere immenso: una gemma ricavata dalla testa di un serpente e utilizzata dalle popolazioni barbariche delle steppe per proteggersi dai morsi velenosi dei rettili.

Diademi unni con granati in castone (Inizi V sec. Colonia, Magonza, Szeged, Budapest) 

Simili smalti si ritrovano anche in un paio di fibule d'argento dorato provenienti dal Tesoro ungherese di Szilágysomlió, datato alla prima metà del V secolo, e attribuita ad artigiani gepidi sotto il dominio  unno. L'attribuzione della paternità della corona ad officine allora operanti tra il Mar Nero e il Bacino Carpatico negherebbe quella tradizionale, riferita ai Longobardi: questi ultimi si sarebbero  limitati a mantenere vivi i simboli della più antica tradizione gotico-bizantina.

Ricostruzione dell'elmo di Costantino

Alla fine dell'VIII secolo, con il restauro radicale della corona andò realizzandosi il recupero intenzionale della memoria storica del gioiello. Giunta in età carolingia danneggiata e privata di molti smalti, la corona fu affidata a un abile orafo che la sottopose a radicale restauro  e alla conseguente cerchiatura interna: ed ecco apparire altre ventun piastrine smaltate, color verde trasparente con  fiori bianchi e azzurri, attribuibili a un laboratorio carolingio dell'Italia settentrionale e tutt'oggi osservabili.

Fibule femminili da spalla, tesoro di Szilágysomlió (Budapest, Museo Nazionale, 1a metà V sec.)

Lungi dall'essere un chiodo della croce di Cristo,  il discusso cerchio, peraltro argenteo e non di ferro, rappresenta soltanto l'ultimo intervento in ordine di tempo, eseguito al fine di consolidare le piastre. Annotata con il nome di “corona cum uno circulo ferri”, a conferma di una consapevolezza maturata nel tempo,  la reliquia del chiodo sarebbe stata deliberatamente promossa solo dal 1355: dai Visconti, signori di Milano, all'interno di un più ampio disegno di auto-legittimazione ducale.

Marco Corrìas

Corona pensile visigota di Guarrazar (Parigi, Musée de Cluny, VI sec.)


Foto n. 1-2 wikipedia, ; n. 3- 4-5-7-8 Marco Corrìas (alias Marc Pevèn);
n.6 dal catalogo della mostra "Costantino 313".

Bibliografia

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M. Aimone Nuovi dati sull’oreficeria a cloisonnè in Italia fra V e VI secoloRicerche stilistiche, indagini tecniche, questioni cronologiche, in Archeologia Medievale, XXXVIII, 2011, pp. 369-418. 

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S. Lusuardi Siena, C. Perassi, G. Fachinetti, B. Bianchi, Gli elmi tardoantichi (IV-VI sec.) alla luce delle fonti letterarie, numismatiche e archeologiche: alcune considerazioni, in Miles Romanus dal Po al Danubio nel Tardoantico, Atti del Convegno Internazionale (Podernone-Concordia Sagittaria, 17-19 marzo 2000), 2002, pp. 21-62.

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S. Lusuardi Siena, L’identità materiale e storica della corona: un enigma in via di risoluzione? In La corona ferrea nell’Europa degli Imperi II, alla scoperta del prezioso oggetto, Tomo Secondo: Scienza e Tecnica, Società di Studi Monzesi 2005, pp. 173-252.

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M. Shchukin, M. Kazanski, O. Sharov, Des Goths Aux Huns: le Nord de la mer Noir eau Bas-Empire et à l’époque des grandes Migrations, 2006 

Montecrestese, enigmatica Micene ossolana


Camera voltata a falsa botte dal sito archeologico di Castelluccio I (Montecrestese)

Sospeso a metà strada tra leggenda e realtà, lo storico greco Erodoto narrò di una terra ai confini del mondo allora noto, chiamata "Iperborea”, dove il dio Apollo usava trasferirsi come ospite per 6 mesi l’anno, al fine di ammirarvi un sole che non tramontava mai. I suoi abitanti, ignari della discordia, delle malattie e perfino della morte stessa, vivevano nel fitto di boschi sacri dedicando riti in onore del dio-Sole, loro ospite. Fu così che il termine greco “iperboreo”, attribuito agli indigeni del nord Europa, assunse il significato di “felice”.
Come abbiamo visto, anche l’archeologo che si imbatta nel mito non deve sottovalutarlo come fosse una fiaba, ma interpretarlo come un’antica pergamena e leggervi tra le righe.
Non a caso, nel corso dell'anno il solstizio ricorre due volte: quando il sole raggiunge il suo valore massimo di declinazione positiva (giugno, solstizio d'estate) e negativa, in dicembre (solstizio invernale, Yule). Nel periodo del solstizio d’estate il potere di Apollo si affievoliva, in quanto il dio solare si recava a settentrione del mondo lasciando i popoli mediterranei nella tenebra.

Gruppo scultoreo con Apollo e le sue ancelle

Letteralmente il termine “iperborei”, coniato dagli stoici greci, significa "coloro che vivono oltre (hyper) il vento di settentrione (Borea): il riferimento va a un popolo stanziato in una terra lontanissima situata a nord della Grecia (Danubio, Urali…e anche presso le sorgenti dell’Eridano, ossia del fiume Po!).
Questa rilettura, operata da Erodoto sui miti pur sempre indoeuropei ma ritenuti "barbarici", costituisce una pallida ma preziosa testimonianza di popoli di probabile provenienza settentrionale:  la stessa figura di Apollo celava i tratti di Belenos, lo splendente dio solare dei Celti.

Masso preistorico con sciamano inciso: scoperta inedita dello scrivente

Nei tempi in cui il cielo era creduto vicinissimo agli uomini, il grande masso che penetrava nelle viscere della terra era il luogo adibito a punto d’unione tra la sacralità celeste e quella tellurica: quasi uno sposalizio fra Terra e Cielo che, col tramite del sacerdote, consentiva la comunicazione con gli dei, (se non addirittura, il passaggio da una regione cosmica all'altra da parte di un iniziato.) Secondo alcuni popoli asiatici le stelle erano le finestre del mondo: aperture create per comunicare con gli dei.

Lago Maggiore poco dopo il tramonto. Sponda piemontese vista da quella lombarda

Cerchi di pietre e pietre-fitte: aree d'accesso privilegiato ed esclusivo del gutuàter”, il sacerdote addetto alla custodia del santuario.
All’interno di un rinnovato sistema sociale organizzato su base tribale e fondato su un’autorità religiosa importante, le nuove tecniche agricole richiedevano la necessità di un sistema calendariale: in tutta Europa, grazie una “meridiana astronomica” di pietra e ai relativi “esperti”, era possibile calcolare previsioni per una conoscenza più approfondita dei mutamenti metereologici, stagionali e uno sfruttamento più efficace delle colture. Tali attività si legano ai riti di fertilità.

Tipici vitigni terrazzati di montagna

A proposito dei rari e preziosi siti megaliti situati presso Montecrestese, ai piedi dei monti ossolani (Vco), fino ad ora gli archeologi hanno identificato nell'area ben 15 strutture, non ancora tutte adeguatamente studiate. Attraverso lo studio delle caratteristiche ricorrenti dei due siti più noti, ossia Croppola e Castelluccio I da cui, forse anche per via della frana provocata dall'alluvione del 2000, non è emerso alcun elemento che permetta la datazione e la destinazione: in assenza di materiali che indichino la presenza umana (cocci, utensili, ossa umane e animali) ossia di fossili-guida che rendano possibile la datazione, ogni ipotesi è possibile ma non dimostrabile.

Limitiamoci ad interpretare ciò di cui disponiamo: leggiamo le pietre e la loro posizione.

Colline terrazzate di origine preistorica dell'Ossola (Copiatti - De Giuli 2003)

La collina stessa, fotografata in inverno, svelerà un sistema di complessi terrazzamenti quadrangolari simili a quelli dei vitigni, disposti lungo tutto il crinale in serie, digradanti e in posizione ortogonale rispetto ai monti affacciati ad ovest: si tratta di un'opera imponente, realizzata per certo durante un lungo arco di tempo.
I terrazzamenti stessi furono delimitati e rafforzati da grandi muraglioni di pietre, nelle cui pareti di pietre a secco sono state ricavate delle cavità: camere coperte a falsa volta, a creare ambienti dotati di aperture verso l'esterno, dalla soglia trapezoidale. La presenza, di fronte a tali muraglie, di gruppi di grossi blocchi di pietra infissi verticalmente nel terreno (menhir) indica che tali luoghi furono osservatori astronomici destinati al culto.  

Sito archeologico di Croppola (Montecrestese)


Il prospetto del sito di Croppola mostra un cerchio di pietre (attualmente un semicerchio) forse anticamente crollato. In questo caso, i menhir in questione sono monoliti di forma allungata (80-140 cm) privi di coppelle e decorazioni che, infissi verticalmente nel terreno e disposti ad arco, descrivono un'ellissi irregolare rispetto di un ipotetico centro: il masso-altare.

Menhir dal sito archeologico di Castelluccio I (Montecrestese)

Anche i menhir posti sul terrapieno superiore del sito di Castelluccio I, collocati sul bordo della struttura muraria a secco, non si trovano lì senza scopo: considerando il luogo dove le strutture sono state edificate, cioè una stretta valle, la scelta del  sito non dovette essere casuale, ma voluta e cercata per il suo particolare orientamento solstiziale.
I menhir di Croppola e Castelluccio costituivano osservatori astronomici, eretti al fine di delineare appositi punti di stazione: essi definivano un certo numero di linee astronomicamente significative, connesse con i punti di tramonto del sole nei giorni dei solstizi e degli equinozi, lungo un'periodo di tempo esteso dall’età del Bronzo in poi.

Castelluccio I, sezione del sito (Due Passi nel Mistero, 2011)

Ricordandoci, a tal proposito, che il sole sorge ad est e tramonta ad ovest, e che anche le strutture murarie del sito di Castelluccio I sono allineate in modo da essere ortogonali, ossia perpendicolari (ad angolo retto) alla direzione del tramonto del sole al solstizio d'inverno lungo la linea dell'orizzonte rappresentato dalle montagne sullo sfondo: a Castelluccio, le 12 pietre fitte disegnavano altrettante linee astronomiche significative.
Una di queste linee va a coincidere con l'asse dell'ingresso alla camera a falsa volta praticata nel muro megalitico alle spalle dei menhir, proprio allo scoccare del solstizio d’inverno. Ciò vuol dire che in quel giorno i raggi del sole che tramontava illuminavano l'interno della camera alle spalle del menhir.

La fonte della Mojenca (Co) presenta affinità con le camere voltate a botte di Montecrestese

Considerando che un fenomeno analogo si verifica anche presso la nicchia pietrosa della sorgente captata della Mojenca presso il parco archeologico comasco della Spina Verde, anche in questo caso sarebbe affascinante interpretare le stanze a volta, rischiarate da un raggio al tramonto per il breve periodo del solstizio invernale (13 gennaio nel 3000 a.C. / 26 dicembre nel 500 a.C.), come caverne cosmiche: nicchie votive, rappresentazioni simboliche del ventre della Madre Terra.
Il solstizio, dal latino “sol-sistere” (fermarsi), in astronomia è il momento in cui il sole raggiunge, lungo l'eclittica (ossia nel suo moto apparente), della durata di un anno, il suo periodo di maggior declinazione massima o minima.
La declinazione astronomica è una coordinata equatoriale che serve a misurare la declinazione: positiva per i punti a Nord dell'equatore, negativa per quelli a sud.

Inverno il val d'Ossola

Sono molte le interpretazioni di “Yule” o solstizio d’inverno: un rito che implica morte, trasformazione e rinascita.
Quando l'anno volgeva al termine, le notti si allungano e le ore di luce erano sempre più brevi, era il momento dell'anno che i popoli primitivi percepivano come più drammatico e paradossale.
Se il Sole era un dio, il diminuire della sua forza era considerato come declino e decesso: una fase di tenebra e morte della natura solo apparente.
Nel momento stesso del suo trionfo, infatti, l'oscurità cedeva già il passo alla luce che lentamente iniziava a prevalere sulle brume invernali.
I raggi del solstizio invernale al tramonto ritualizzavano il momento in cui si consumano le nozze tra il dio del Sole Belenos e la dea della fertilità Belisama: l’amplesso cosmico tra il giorno più breve e la notte più lunga dell’anno inaugurava il ritorno alla vita: il dio del Sole era già sulla via del ritorno a casa.

Moto est-ovest del sole su Montecrestese durante il solstizio invernale (Lavoro dell'autore su Google Earth)

O forse che il vecchio sole, reinterpretato come un re oscuro, morisse, sostituito da un sole bambino che nasceva all'alba dal ventre della Madre Terra? Il Cristianesimo avrebbe reinterpretato queste credenze, per farle proprie.
In ogni caso, il dio del Sole era legato inevitabilmente al mondo vegetale, che con lo sviluppo dell'agricoltura si trasferì dalla vegetazione selvatica alla coltivazione di cereali. Al ritorno del Sole era infatti legato anche il miracolo della rinascita del grano, che probabilmente cresceva sulla pianura antistante la collina di Montecrestese.

Campi di grano (Warwickshire, Inghilterra)

Pianta sacra del solstizio d'inverno è il vischio, le cui bacche lucide e bianche ricordano il fluido maschile; una pianta considerata discesa dal cielo, figlia del fulmine, emanazione divina. L'unione magica tra la pianta del vischio e la quercia, albero sacro dell'eternità, rigenerazione e di immortalità.

Bacche di vischio 

La presenza in una terra di mezzo di fenomeni di sincretismo culturale, dovuto al contatto con le popolazioni liguri di ed etrusche, ha anche visto probabili ipotesi.
Il vischio, pianta rampicante, porta con sé significati simbolici analoghi a quello della vite, pianta sacra a Dioniso, a sua volta diede la vegetazione prima ancora che del vino.
Da tutto ciò si potrebbe ipotizzare che, sebbene l'orientamento non sia particolarmente favorevole alla coltura della vite, in quanto altrimenti esposta al sole solo durante la seconda metà della giornata, questi terrazzamenti potrebbero essere stati ugualmente adibiti a vigneti sacri.

Non per nulla anche Dioniso, dio della vite e dell’edera sempreverde, fu dio dell’immortalità.

Vitigni montani

Testo: Marco Corrias (alias Marc Pevèn)

Foto: (1-6-7-9-11-12 dell'autore /  2-4-13-14 Wikipedia / 5 Copiatti Poletti Ecclesia / 8, Due Passi nel Mistero)


Bibliografia
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AAVV - Archeologia in Lombardia
AA.VV - La civiltà di Golasecca: i più antichi Celti d’Italia – Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università degli Studi di Milano 2007
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R. Corbella, Celti: itinerari storici e turistici tra Lombardia, Piemonte, Svizzera, Macchione, Varese
R. Corbella, Magia e mistero nella terra dei Celti: Como, Varesotto, Ossola, Macchione, Varese
R. De Marinis, Liguri e Celto - Liguri in Italia. Omniun terrarum alumna, Garzanti - Scheiwiller
R. C. De Marinis, La civiltà di Golasecca: i più antichi Celti d'Italia
R. De Marinis, S. Biaggio Simona - I Leponti tra mito e realtà, 2000
A. Gaspani, Il grande cerchio di pietra degli antichi Comenses – Associazione culturale Terra Insubre
A. Gaspani, L’enigma delle strutture megalitiche della val d’Ossola – .N.A.F
B. Ragazzoni – L’uomo preistorico nella provincia di Como