Una
delle personalità meno note, eppure più importanti della pittura
lombarda del primo ‘300 fu senz’altro l’anonimo “Maestro Della Tomba
Fissiraga”, così chiamato per via del suo pregevole ciclo di
affreschi, datati 1327, conservatisi presso la tomba del nobile Antonio
Fissiraga in San Francesco a Lodi.
Presenza collocabile entro il primo quarto del ‘300, come tanti altri artisti del suo tempo il pittore senza nome visse una carriera da “artigiano itinerante”, determinata da spostamenti a corto raggio. Quella che gli studiosi ritengono essere stata la sua prima impresa pittorica si può ancora oggi apprezzare sulle pareti del battistero romanico di Varese: città non tra le maggiori del tempo, ma pur sempre agevolata da vivaci traffici mercantili. Nel cuore dell’antico e oggi scomparso borgo fortificato, al centro di un’area che ebbe importante ruolo strategico e commerciale durante tutto il Medioevo, oggi convive un sistema di grandiose piazze comunicanti (S. Vittore, Canonica, Battistero e del Podestà), ideate secondo i criteri, particolarmente in voga nel corso dell’Ottocento e del Ventennio fascista, d’isolamento dei monumenti più antichi e rappresentativi delle città. Aldilà delle grevi e a loro modo affascinanti architetture metafisiche, uno dei simboli della “Varese che fu” svetta ancora indisturbato; oggi come allora, l’imponente campanile indica quasi di proposito al viaggiatore la strada per l’appartata piazza del sagrato di San Vittore, con l’annessa basilica: un edificio più volte rimaneggiato nei secoli (battistero medievale, corpo tardorinascimentale, campanile barocco, facciata neoclassica), le cui origini sono ben più antiche di quanto l’attuale aspetto, esternamente abbastanza dimesso, lascerebbe supporre.
Presenza collocabile entro il primo quarto del ‘300, come tanti altri artisti del suo tempo il pittore senza nome visse una carriera da “artigiano itinerante”, determinata da spostamenti a corto raggio. Quella che gli studiosi ritengono essere stata la sua prima impresa pittorica si può ancora oggi apprezzare sulle pareti del battistero romanico di Varese: città non tra le maggiori del tempo, ma pur sempre agevolata da vivaci traffici mercantili. Nel cuore dell’antico e oggi scomparso borgo fortificato, al centro di un’area che ebbe importante ruolo strategico e commerciale durante tutto il Medioevo, oggi convive un sistema di grandiose piazze comunicanti (S. Vittore, Canonica, Battistero e del Podestà), ideate secondo i criteri, particolarmente in voga nel corso dell’Ottocento e del Ventennio fascista, d’isolamento dei monumenti più antichi e rappresentativi delle città. Aldilà delle grevi e a loro modo affascinanti architetture metafisiche, uno dei simboli della “Varese che fu” svetta ancora indisturbato; oggi come allora, l’imponente campanile indica quasi di proposito al viaggiatore la strada per l’appartata piazza del sagrato di San Vittore, con l’annessa basilica: un edificio più volte rimaneggiato nei secoli (battistero medievale, corpo tardorinascimentale, campanile barocco, facciata neoclassica), le cui origini sono ben più antiche di quanto l’attuale aspetto, esternamente abbastanza dimesso, lascerebbe supporre.
Il ritrovamento di tracce archeologiche pertinenti a un insediamento
“proto-golasecchiano” databile alla Prima età del Ferro (IX - X sec.
a.C.), indica infatti nelle Piazze San Vittore e Battistero luoghi
deputati già dalla Preistoria ad ospitare uno dei più antichi
insediamenti umani di Varese. In seguito all’oblio dell’età
gallo-romana, avara di testimonianze per via di un probabile
impaludamento dell’area, nuovi scavi archeologici in tutto il Varesotto
coadiuvati da epigrafi cristiane ritrovate in centri abitati allora più
ragguardevoli come Angera, Arcisate, Velate e Bedero Valtravaglia
testimoniarono già dal IV sec. d.C una forte presenza cristianizzatrice
in quest’area, allora meno periferica di quando si credesse, dell’Impero
romano: la dedicazione dei maggiori edifici religiosi del Verbanese
orientale al centurione Vittore, santo martire tipicamente milanese, è
già di suo un forte indizio, testimonianza del forte attaccamento a
Milano, ai tempi di Sant’Ambrogio celebre sede arcivescovile e perfino
capitale d’Impero per la durata di due secoli (284-402). L’XI secolo
testimonia in via definitiva la presenza della basilica di San Vittore e
di un nuovo battistero: il complesso plebano, cuore di Varese medievale.
Insieme alle fondazioni monastiche, protagoniste dell’epopea dell’Età
di Mezzo furono proprio le pievi, spesso ricostruite su fondazioni di
origine molto più antica. Con l’affermazione nel contado del sistema
plebano ben presto si prospettò la nascita di un fitto intreccio di
oratori e celle dipendenti da una chiesa matrice dotata di battistero,
responsabile dell’organizzazione economica e religiosa del contado. Le
documentazioni relative agli edifici militari confermano che molte
pievi, tra cui certamente quella di Varese, risultavano incastellate. Le
chiese elevate a ruolo di capi-pieve finirono per assumere caratteri
stilistici ricorrenti: quasi tutte le collegiate rurali del XII avevano
adottato una pianta basilicale di lontana reminiscenza paleocristiana
priva di transetto, combinata con copertura a capriate lignee di
tradizione “comasca”: fisionomia che, per quanto riguarda il duomo di
Varese, attualmente Rinascimentale, Barocco e Neoclassico, possiamo
soltanto immaginare.
Emporio a metà strada tra Milano e il lago Maggiore, attraversata da
maestranze Campionesi e frescanti di frontiera, Varese fu per certo
toccata da proposte artistiche indirettamente aggiornate sulla maniera
giottesca, ma proprio perciò svincolate dal più autorevole modello. Se
consideriamo che il gran fiorentino sarebbe giunto a Milano, presso la
corte di Azzone Visconti, soltanto nel 1335, (per poi non parlare di
Giusto de Menabuoi, operante presso l’abbazia milanese di Viboldone dal
1349), la presenza e l’operato dell’anonimo Maestro della Tomba
Fissiraga acquisisce una rilevanza da non sottovalutare.
Lungi dal voler ignorare il complesso ecclesiastico nel suo insieme, oggetto del nostro viaggio è il battistero: una struttura inizialmente datata dal Porter, sommo studioso americano d’arte romanica, attorno al 1185-7 e posticipata dai più recenti studi al periodo tardo romanico,
se non proprio al gotico per via di alcuni elementi di decoro
esteriore. Esso fu certamente edificato sui resti di un edificio
preesistente: un battistero di epoca alto medievale che agli albori del
VIII-IX secolo presentava una rara pianta irregolarmente esagonale,
tipica di quest’area, con tre nicchie a sezione trapezoidale, di cui la
centrale adibita al rito del battesimo, allora praticato ancora per
immersione del corpo. La rara e bizzarra tipologia del battistero
esagonale, anziché ottagonale, presenta forti pertinenze con i ruderi
dell’altrettanto arcaico battistero di San Paolo a Castelseprio.
Il burgus, inizialmente conteso tra i Comuni di Como e Milano e poi
aggiudicato con la forza a quest’ultima (Guerra dei Dieci Anni,
1118-1127) fu agevolato da vivaci traffici mercantili. Con la caduta
definitiva di Castelseprio nel 1287 e l‘avvento dei Visconti, il legame
di Varese con Milano diventò ancora più stretto e duraturo: proprio
negli anni di passaggio tra il XII e il XIII secolo si attuarono netti
cambiamenti nel gusto, riscontrabili nelle differenti scelte di quegli
architetti lombardi tradizionalmente chiamati “Maestri Campionesi”.
La ricostruzione mutò sensibilmente l’edificio, che attualmente si
presenta come un’aula a pianta trapezoidale collegata tramite alte
arcate al presbiterio e contraddistinto da precoci arcate a sesto acuto,
assai rare in area prealpina. Esternamente la facciata, a capanna,
ormai del XIII – XIV secolo, presenta semi-capitelli a decorazione
vegetale di gusto goticheggiante: si tratta di una facciata
romanico-gotica, dove l'accesso avviene dall'unico portale centrale,
leggermente strombato, contornato da due monofore e al centro da un
oculo; in facciata una nicchia accoglie la statua di San Giovanni
Battista.
Il fonte all’interno rappresenta un'altra curiosità del battistero
varesino: la primitiva vasca a immersione è costituita da unico blocco
di pietra (serizzo granitoide), successivamente scolpito da un maestro
campionese tra il XIII e il XIV secolo. Le otto facce presentano
rilievi raffiguranti il Battesimo di Cristo e gli Apostoli.
L’anonimo maestro, dai modi robusti e attardati, quasi si compiace di
applicare consueti schemi romanici su un “piccolo monumento” di stile
gotico lombardo, fornito di volte pensili e ritmi spaziali assai
moderni.
Nell’area presbiteriale del battistero varesino si concentra una
ricchissima antologia di pitture medievali, eterogenee per stile,
qualità e cronologia, frutto di un'accumulazione progressiva al limite
della sovrapposizione: un vero palinsesto della pittura tra XIV e XV
secolo nell'aria della Lombardia lacustre, celato per anni da grevi
pennellate di calce, prima del recupero e della valorizzazione.
In questa sede sarà particolarmente il caso di concentrarsi sul cospicuo
nucleo di affreschi eseguiti sulla parete sud fino alle lunette del
portale principale, da parte del Maestro della Tomba Fissiraga. Databili intorno al 1325
e disposti su più registri in moto paratattico e ancora
bizantineggiante, santi e vescovi sono figure dotate di robusta
plasticità e notevole espressività: ed ecco delinearsi la concreta e
aneddotica parlata del maestro lombardo, fatta di precise notazioni di
costume e dall’acuta resa dei dettagli. Notevoli anche i due devoti
rivolti verso la Crocefissione che occupa la spalla dell'arco trionfale.
Partendo da presupposti simili a quelli del comasco Maestro della
basilica di S. Abbondio, il Maestro della Tomba Fissiraga ricerca il
rilievo plastico nelle figure e la concretezza illusionistica delle
incorniciature dipinte, ma improntando le sue composizioni ariose a
un’urgenza di eleganza transalpina, coglie i suoi personaggi in tutta la
loro rigida aristocraticità cortese, improntata su corpi di statura
slanciata, coperti di vesti a pieghe di stoffa fine. I volti,
plasmati con morbide ombre, sono qua e là evidenziati da tratti già
giotteschi, come il taglio sforbiciato degli occhi; le bocche tirate, le
ciocche arricciate dei capelli e le barbe, invece, lasciano trasparire
un’inquietudine tipicamente gotica, di stampo nordeuropeo. Notevoli sono
anche i due devoti rivolti verso la Crocefissione, che occupa la spalla
dell'arco trionfale: testimonianza significativa delle capacità
dell’anonimo pittore, dove l’anatomia del corpo straziato di Cristo, i
muscoli contratti, del piede realisticamente squarciato dal chiodo,
l’acuta caratterizzazione dei volti di ciascun astante è un autentica
lamentazione di retaggio nordico.
Con un balzo improvviso, a due anni di distanza ritroviamo l’anonimo
frescante ancora all’opera, come nulla fosse, presso la bellissima
chiesa dei francescani di Lodi, punto di riferimento per le famiglie
nobili della città che tra XIII e XIV secolo ottennero il patronato
delle cappelle al suo interno.
Lodi, cittadina fiorente, grazie alle libertà comunali e alla protezione
degli imperatori rimase a lungo indipendente. Negli anni in cui
l’arcivescovo Bongiovanni Fissiraga, richiamò in città i frati
Francescani precedentemente espulsi, suo nipote Antonio fece loro dono
di una nuova chiesa. Capo della fazione guelfa, tra il 1292 e 1303
Antonio Fissiraga aveva posto fine alle lotte fra gli Overgnaghi, i
Vistarini e i Sommariva, proclamandosi podestà di Lodi su concessione
dei potenti Torriani. Così facendo il nuovo podestà legò il suo nome
all’edificazione della Chiesa di San Francesco e alla fondazione del
Monastero di Santa Chiara.
San Francesco, originaria della fine del Duecento, è l'edificio
medievale più interessante della città di Lodi. Sulla facciata,
caratterizzata dal paramento in laterizi, e abbellita al centro da un
grande rosone in marmo sotto cui si apre un alto protiro ogivale
d’ingresso, fanno capolino per la prima volta le due bifore laterali "a
cielo aperto" che rappresenteranno il primo esempio di un modello
diffusissimo tra il Trecento e Quattrocento in Italia Settentrionale.
L'ampio spazio interno della chiesa, diviso in tre navate con cappelle
laterali e pianta a croce latina, è clamorosamente tappezzata
d’affreschi votivi lungo tutte le pareti e perfino sulle colonne, ad
opera di artisti locali aggiornati sulla lezione giottesca. Eppure
l’apice si raggiunge soltanto sulla parete meridionale dell'aula:
proprio qui ritroviamo attivo lo stesso pittore operante a Varese, che
proprio dopo questa nuova commissione avrebbe ereditato in Storia
dell’Arte il suo pseudonimo dal succitato nobile lodigiano Antonio
Fissiraga, grande benefattore dei Francescani.
Eppure arca funeraria e affreschi furono realizzati solo dopo una serie
di torbide vicende, consumatesi con la morte del mecenate stesso: nel
1322 i Visconti di Milano, catturato l’ormai anziano Fissiraga, lo
fecero imprigionare. Il lodigiano sarebbe spirato cinque anni più tardi.
Tra le sbarre di una segreta milanese (1327). A quel punto i suoi
concittadini, spinti da orgoglio, pur essendo nuovamente governati dagli
ostili Vistarini, richiesero la traslazione del corpo, che fu inumato
in pompa magna dopo esser stato paludato del saio francescano, proprio
in quella chiesa di S. Francesco che lui stesso aveva fatto ricostruire.
Il giudizio unanime, dopo la morte, tra i suoi amici e rivali, riflette
quelle qualità che tutti riconobbero al Fissiraga, confermate anche
dalla sua iscrizione funebre: “indomabile energia, fedeltà alle sue
scelte politiche e ai suoi amici, estrema franchezza e grande
generosità”, manifestatasi soprattutto nei confronti dei francescani e
delle clarisse. Antonio Fissiraga personificò l'ultimo anelito
d'indipendenza lodigiana: dopo di lui, la città cadde definitivamente
sotto l'egemonia di Milano.
Fu a quel punto che, conclusasi l’epopea del guerriero, su richiesta
dei Francescani il nostro maestro varesino riapparve dal nulla. Nel
Medioevo infatti, lo spostamento di artisti itineranti la cui presenza
era richiesta da ordini religiosi signori locali, costituiva un dato di
fatto: allora il pittore della Tomba Fissiraga doveva per certo avere un
nome che l’aveva preceduto: altrimenti perché richiamarlo da Varese in
quel di Lodi? La fama del suo pennello anticonformista era echeggiata
attraverso le arcate delle pievi e i chiostri dei monasteri lombardi,
lungo gli stessi itinerari religiosi che favorivano anche scambi
commerciali e artistici.
La parete del transetto destro è occupata dal noto sepolcro: un’arca
marmorea innalzata da colonnine su due registri: Su quello inferiore si
svolge il funerale di Antonio Fissiraga, il cui feretro è attorniato da
uno stuolo di frati francescani in preghiera; rispetto a quanto ammirato
a Varese, qui la qualità pittorica va elevandosi ulteriormente. il
Maestro della Tomba Fissiraga si concentra nelle descrizioni entro spazi
architettonici senz’altro appresi da Giotto, ma puntualmente smentiti
dalla prospettiva fantasiosa, quasi invertita, che dà ancora
l’impressione di far scivolare i protagonisti giù dai loro scranni.
Sul registro superiore a sinistra è raffigurato l’incontro con Maria in
trono e il Bambino; alla loro destra il feudatario stesso, provvisto di
saio francescano, barba e in età avanzata, s’inginocchia col modellino
della chiesa, in presenza di un Santo Vescovo e di San Francesco, che
porge la mano sul suo capo in segno di protezione. Quello che in vita fu
un politico e uno stratega, nella morte fu effigiato alla stregua di un
emulo di San Francesco.
Il misterioso astista itinerante era dotato di una pennellata
esperta, avvezza a valide soluzioni azzardate; effetti illusionistici
volti a ricreare uno spazio architettonico più immaginario che reale,
come denunciano l’ampia e quadrata seduta del trono a baldacchino e le
cuspidi: finti rilievi e marmorei, istoriati con episodi cristiani (S.
Giorgio e il drago), riletti in chiave puramente cavalleresca. Eppure, i
tempi delle “chansons de geste” affrescate non erano ancora maturi!
Altri saggi di bravura si riscontrano sulle pareti della navata
sinistra, con una teoria di vescovi e sante sensuali: una vera e propria
sfilata di bellezza, per quanto liturgica, del primo Trecento. Tanto di
cappello al misterioso maestro e alla sua accentuata sensibilità per la
bellezza.
Poi arrivò il tempo del viaggio a Milano: la mano dell’artista è stata
da tempo individuata perfino nella figura del Redentore in Trono del
refettorio dell’abbazia di Chiaravalle.
La storia del sublime ed eccentrico Maestro della Tomba Fissiraga
però ebbe fine qui: nella capitale del ducato Sforzesco, con i miseri
resti della Chiesa alla conca Fallata. Pochissimi brani pittorici
superstiti, datati 1330-33 e dal modellato qualitativamente notevole,
coprono qua e là la parete a destra, un tempo del tutto affrescata.
L’influenza del misterioso pittore in città si sarebbe fatta ancora
sentire, soprattutto in San Lorenzo, attraverso imitatori superstiti, di
gusto popolare.
Marc Pevèn
(pseudonimo di Marco Corrias)
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