lunedì 1 agosto 2016

Il "Quadro delle Tre Mani": testamento di pittori maledetti


Morazzone, Sestri Ponente (Ge) - S. Carlo, Madonna e Angeli (dettaglio)

Alla fine del Cinquecento, il celebre Concilio di Trento dettò nuove e rigide regole anche in materia di pittura:  i  contrasti religiosi sorti a seguito della Riforma protestante avviata nel 1517 da Martin Lutero avevano portato da lungo tempo a un clima di guerra fredda che aveva coinvolto perfino le arti figurative...
Oggetto principale degli strali dei pensatori cattolici è Michelangelo, di cui si riconosce il genio, ma del quale si deplorano le invenzioni. Egli è ritenuto, anzi, il pittore che più di ogni altro
si allontana dai canoni evangelici, per inseguire una visione personale degli eventi religiosi e ciò, a loro dire, va respinto senza mezzi termini.

Francesco Salviati - La Carità, esempio di pittura manierista (Firenze, Uffizi)

É la condanna estrema e definitiva dei nudi di Michelangelo per la Cappella Sistina, dei colli lunghi del Parmigianino e di tutte quelle anomale Madonne sinuose, attorniate da finti Gesù bambini impegnati più a tendere piccoli archi e a giocare con grappoli d'uva che a benedire i mortali. Dopo anni di bizzosi capricci  pittorici, il popolo attraverso le immagini doveva tornare a comprendere i misteri della Fede cattolica che i protestanti, nuovi iconoclasti, avevano messo con tale impeto alla berlina!
«Qual sarà quello ostinato(eccetto non sia luterano) che, vedendo l’imagine del nostro Signore crocifisso piagato e sanguinolento, non abbia qualche rimorso ne la consienza e non gli venga
voglia di onorarla e di farli riverenza?» (G. A. Giglio, Degli errori e degli abusi de’ pittori)

Cerano, tele controriformate. Estasi di S. Gaetano da Thiene, Resurrezione di Cristo, S. Carlo e Francesco adorano la Madonna di S. Maria dei Miracoli (Milano S. Antonio abate - Torino, Pinacoteca Sabauda)

Dunque si esigeva una pittura che ispirasse commozione, che legasse intimamente lo spirito del fedele al mistero che gli veniva posto dinanzi, che riuscisse ad “imprimere nel popolo il vero culto di Dio e la grandezza delle cose eterne, e convertire come ministro celeste i cuori delle nazioni intiere, e cangiarli in altra forma, e seco rapirli in cielo”.
Furono l'onnipresente Carlo Borromeo, celebre santo nato ad Arona,  e il  bolognese cardinal Paleotti i primi a comprendere come anche le immagini dovessero uniformarsi a una credibile regolamentazione programmatica di purificazione morale: bandite le bizzarrie del tardo Rinascimento e con esse la rappresentazione del nudo, si decise di puntare su una maggior aderenza ai Sacri Testi e, soprattutto, sulla chiarezza narrativa: il passato clima di gioiosa eleganza e di sensuale bellezza andava sostituito con un nuovo clima di rigore morale...
Molti critici d'arte parvero riconoscere in questa fase il crepuscolo e la negazione del genio. In verità non fu così, o meglio, non sempre. Spesso, più che le indicazioni imposte da terzi, inesperti in materia artistica, fu sempre il clima stesso del luogo a influenzare gli artisti.
Quasi per reazione alle forme di controllo e coercizione imposte dalla Chiesa Controriformata, gli artisti cercano un’originalità trasgressiva, capricciosa, strana e alternativa, tale da essere tollerata e talvolta, anzi, incoraggiata dai committenti stessi…

Cerano, Gionata rompe il digiuno (S. Raffaele)

Ecco perché, quasi tutti i pittori iniziarono a condurre una doppia esistenza: se per i committenti ecclesiastici essi di presentavano in veste di castigati madonnari, per l'aristocrazia più raffinata erano gli eleganti ideatori di tutte quelle sfrenate coreografie palaziali che poi avrebbero portato al Barocco.
Agli inizi del Seicento, secolo di contraddizioni, quasi in antitesi si affrontano due scuole pittoriche principali: quella caravaggesca, portata un po' ovunque in tutta Italia dal genio bergamasco del Merisi  e quella emiliana, già foriera di quel revival classicheggiante e neo-pagano che nutrirà il barocco romano maturo.

Mappa seicentesca della "Lombardia" comprendente terre più vaste

A Milano e in Lombardia, in Piemonte e in Svizzera, invece, che aria tirava?
‘Lombardia’ era un termine geografico che rispecchiava piuttosto l’assetto dell’antico Stato spagnolo di Milano, comprendente i territori dell’attuale Piemonte orientale, dalla provincia di Novara alle sponde occidentali del Lago Maggiore, alla Riviera d’Orta, alla Valsesia: terre dell'arcidiocesi ambrosiana, roccaforte della Controriforma e baluardo contro l'infiltrazione protestante, ancorate al mito di san Carlo Borromeo, dove si sparsero  i germi di uno stile unico.

Morazzone, Lotta di Giacobbe con l’Angelo, 1610, Milano, Museo Diocesiano

Uno stile talmente anticonformista di fare pittura che avrebbe conosciuto molti seguaci in un ampio spazio che coinvolse perfino Torino e Genova; nella prima, in cerca di affermazione in campo internazionale e auto rappresentazione, i Savoia erano in cerca di artisti che celebrassero la dinastia; nella seconda, marittima, laica e opulenta, l'attrazione tra opposti e l'assenza di forti ideali morali portò a sperimentare  un incontro con il misticismo lombardo, inedito e ricco di spunti.
Federico Borromeo, cugino di Carlo, nuovo arcivescovo di Milano nonché raffinato collezionista e fondatore dell'accademia ambrosiana, non aveva tardato a riconoscere in una triade di pittori "locali", il valsesiano Giovan Battista Crespi detto Cerano, il varesotto Francesco Mazzucchelli detto Morazzone e il bolognese naturalizzato ambrosiano Giulio Cesare Procaccini, caratteristiche di vera innovazione: i tre moschettieri del Seicento Lombardo.

Procaccini - Genova - Madonna fra i Santi Carlo e Francesco d'Assisi

Coetanei, i tre artisti erano già stati impegnati da tempo da committenze d'alto livello di natura prevalentemente religiosa: il Cerano, monumentale, visionario e nordicheggiante, maturando in vent'anni una maniera pittorica cupa e violenta, nel 1621 si ritrovò a capo  dell'Accademia Ambrosiana fondata dal cardinale Federico Borromeo. Cerano dá vita ad una scuola ben individuabile, in grado di differenziarsi dalle altre coeve esperienze italiane, in virtù dei suoi accenti singolarmente cupi, nutriti da esasperazioni formali ancora tardo manieriste, idonee a tradurre in immagine i toni drammatici e visionari della religiosità del tempo: i suoi quadroni dei miracoli di San Carlo, coinvolgenti e talvolta raccapriccianti, inscenano  drammi corali dalla parlata solenne e insieme umana, drammaticamente atipica, che ne sanciscono il successo.
In contemporanea, il crudo iperrealismo del valsesiano viene temperato dal pennello più vaporoso, morbido e luminoso, culturalmente aggiornatissimo, del Procaccini: quest'ultimo, tra il 1610 e il 1625, sforna una serie di pale d'altare esteticamente impeccabili e smaltate dove madonne,  angeli e santi intessono dialoghi fatti di sguardi tanto colmi d'amore quanto sensualmente equivoci…
Nella invocazione dei santi, inoltre, nella venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza (Decisioni dei Concilii Ecumenici.)
La violenza del Cerano, la sua profonda e tormentata analisi del peccato espiatorio oltrepassa di gran lunga le richieste di pietà e chiarezza del cardinale; dal canto suo Procaccini, rispolverando le dolcezze manieristiche bandite dal concilio di Trento, ambiguamente edulcorate, procedendo su binari paralleli bilancia e tempera le manie mortifere del collega.

Collegiata di Varese - Cerano - Messa di San Gregorio (dettaglio infernale)

Il terzo grande attore, il Morazzonefantasioso e teatrale, dá vita a fondali mozzafiato presso i maggiori cantieri dei Sacri Monti lombardo/piemontesi di Varallo, Orta e Varese, lasciandovi tracce importanti del suo cammino evolutivo. 
Sotto l'occhio vigile del cardinale si verifica così una frequente compresenza dei tre artisti: così diversi ma riconoscibili nella loro forte individualità, quanto profondamente accomunati da una sintonia tale da porli in reciproco scambio. É proprio questo anomalo, magico sodalizio ad aprire nuovi e originali scenari, per la pittura lombardo-piemontese  nel campo dei soggetti devozionali più drammaticamente coinvolgenti. 

Sacro Monte d Varallo. Morazzone - Salita al Calvario

Emblematico, a tal proposito, é il Martirio delle sante Seconda e Rufina, meglio conosciuto come "Il Quadro delle Tre Mani" (1625): oggi conservato Brera, al tempo, nonostante le sue ampie dimensioni. (2 mt x 2) era riservato al colto collezionismo privato. Frutto di una sorta di competizione artistica promossa da Scipione Toso, importante  mecenate  della Milano del primo '600, il quadro costituisce un'iniziativa bizzarra e unica, dagli esiti forse non del tutto omogenei ma significativi: i tre più importanti pittori del Seicento lombardo, richiamati in lizza a sfidarsi all'interno della stessa tela, non di sa con quanta consapevolezza composero un manifesto della pittura borromaica del Seicento, in tutte le sue sfumature.

Cerano, Morazzone, Procaccini. Pala delle Tre Mani

Osserviamo le 3 maniere a confronto.
Nell'atmosfera tenebrosa dell'opera, squarciata da improvvisi bagliori di luce, sono raffigurate Rufina e Seconda, due sante romane che subirono il martirio ai tempi dell'imperatore Gallieno (260 d.C.), per non aver voluto infrangere il voto di castità. Il responsabile della loro morte violenta é il cupo cavaliere dalla corta veste romana che irrompe  a sinistra della tela con vigore nefasto: si tratta del prefetto Archesilao, che le ha fatte condurre al X miglio della via Cornelia per portare a termine la pena capitale. Santa Seconda é appena stramazzata al suolo, riversa, con il collo mozzato e sanguinante; la sua testa é rotolata poco più in lá. un angioletto corrucciato e cianotico, osserva il misfatto appena consumatosi, avvolgendo in un tenero abbraccio un cane da caccia: in realtà lo trattenere dalla brama di sfamarsi di carni umane.

Cerano - Incoronazione di Spine (Quadreria dell'Isola Bella)

Questa parte, la più macabra e patetica del dipinto, fu realizzata dal Cerano, gran drammaturgo fra gli artisti di scuola lombarda. Il suo tocco rapido e bizzarro, capace di materializzare figure monumentali e incombenti, porta ad esiti estremi la ricca pennellata del Rubens: qui, non più intinta di cromie cariche ma di terre scure e neri di seppia che giocano sui riflessi delle armature dei carnefici dalle loriche spagnoleggianti.
Sulla destra del quadro, l'immagine di santa Rufina stride con Seconda:   consolata da un angioletto roseo, tornito e sicuro di sé, essa prega in ginocchio in attesa che i carnefici la bastonino a morte. L'origine bolognese di Giulio Cesare Procaccini si riflette nella flessuosa eleganza e nell'incarnato delicato della santa che attende il martirio, confortata dal putto: il ricordo di Correggio, passato attraverso la scuola dei Carracci, ritorna nell'espressione serena, quasi sorridente della giovane, dalle incantevoli mani affusolate. La stesura pittorica dura e metallica delle vesti e la posa artificiosa sono caratteristiche della sua fase matura.
«E poi sete; sete a perdita d’occhi; e tremori, ambiguità, strusciamenti di carni a non finire. […] bagliori, fili di luce; come se a quei tempi, i milanesi, vivessero, pregassero, s’ammalassero e spirassero nell’oro; anche quando, cosa più che comune, peste li coglieva» (Testori 1973).

 G. C. Procaccini. Sposalizio di S. Caterina (Pinacoteca di Brera)


L'invenzione compositiva generale apparterrebbe al Morazzone: al centro del quadro, in tutto il suo violento dinamismo irrompe sulla scena un moro munito di sciabola baluginante, con un turbante sul capo. Nel frattempo, un paggio in armatura osserva nell'ombra e un elegantissimo angioletto si libra in volo reggendo la palma del martirio.
Il carnefice, perno centrale e drammatico di un'azione complessa dove convergono le linee diagonali lungo le quali sono disposte tutte le altre figure, richiamando la struttura compositiva del martirio di San Matteo dipinto del Caravaggio per San Luigi dei francesi,  orienta il Morazzone verso la nuova e più libera sperimentazione di un linguaggio barocco in via di sviluppo.

«Tu, Morazzon, che con colori vivi
moribondo il fingesti in vive carte
e la sua dea rappresentasti e i rivi
del’acque amare da’ begli occhi sparte,
spira agl’inchiostri miei di vita privi
l’aura vital de la tua nobil’arte
ed a ritrarlo, ancor morto ma bello,
insegni ala mia penna il tuo pennello.»
G.B. Marino, Il Tempio. Panegirico (1615)

I corpi delle sante, abbandonati alle bestie, furono raccolti da una matrona romana, Plautilla, e sul luogo del martirio venne poi eretta una basilica in memoria.
Il letterato locale Giovanni Pasta celebra il quadro allorché si trovava già nella collezione del cardinale Cesare Monti, arcivescovo di Milano dal 1635 al 1650. E’ lui che per la prima volta lo definisce il quadro delle tre mani. Nel suo testo elogia
“I divini Morazzone, Cerano, Procaccini … tre pennelli, anzi tre grazie pennelleggianti”
Morte, tragedia ed “exemplum” da imitare: Mentre Cerano e Morazzone si compiacquero d’ostentare un campionario di passioni laceranti consumate sotto cieli plumbei, il Procaccini continuò lungo la sua strada: il celebre “Sposalizio mistico di Santa Caterina” rappresenta un'intenerita esplorazione degli affetti di Correggio  e di Parmigianino, coniugata con la pittura lucente e a ricchi impasti di Rubens; quel che ne scaturisce un’immagine radiosa ed elegante, che testimonia lo scarto vistoso del pittore di origine bolognese rispetto ai suoi contemporanei compagni di avventura, dai quali lo differenzia anche la ricerca di tipologie aggraziate, di una bellezza insieme idealizzata e sensuale, suggellata dal rincorrersi dei riccioli d’oro e delle espressioni sorridenti.

Cerano, Martirio di S. Caterina (Milano, S. Maria dei Miracoli)


Comunque sia, al di là delle profonde differenze, i tre spopolarono al punto da raggiungere il successo internazionale: il cavalier Marino, maggior poeta barocco del tempi, si dannava nel vano tentativo di acquistare le loro «tele» che definiva «non degne di gente comune, ma di re e imperatori!»
Il successo dei tre moschettieri del Seicento lombardo era stato proprio suggellato, nel 1623, dalla pubblicazione a Parigi  ella più ambiziosa raccolta poetica del cavaliere napoletano: “l’Adone”, opera di tali ambizioni e di risonanza da consacrare ai posteri, tra gli altri artisti, anche i tre  moschettieri della cultura figurativa del  primo Seicento lombardo:
«voi, per cui Milan pareggia Urbino, / Morazzone e Serrano e Procaccino».

Ritratto di Giovanni Battista Marino, (Frans Pourbus il Giovane, 1621)

Pochi anni dopo la morte quasi contemporanea del Procaccini e del Morazzone (1625-1626), che aveva da poco concluso a Novara il suo testamento pittorico con la "Cappella della Buona Morte" in san Gaudenzio, la grande tragedia della peste del 1630 segnò davvero la conclusione di un ciclo, nonché la svolta verso un inesorabile decadenza di quella Milano spagnola che fino ad allora era stata uno dei più brillanti centri culturali d'Europa. Alla peste seguono quasi immediatamente la morte del cardinal Federico  (1631) e del Cerano (1632).
 Daniele Crespi, quarto moschettiere, fulgore e meteora, morì giovanissimo falciato dalla peste: del nostro d'Artagnan pittore abbiamo già trattato approfonditamente. Non a caso, i grandi pittori del Seicento lombardo sarebbero stati battezzati col soprannome di "pestanti": i tre, anzi quattro moschettieri,  cavalieri della peste bubbonica, incarnarono  l’estremo sussulto di questa vibrante stagione figurativa: quasi un  sotterraneo riverbero, un doloroso travaso, delle tragiche esperienze dei contagi. Dopo secoli d'oblio e pregiudizio verso il barocco nutriti dai critici d’arte e gli studiosi illuministi, il Seicento lombardo sarebbe stato riscoperto dal tedesco Pevsner e dal celebre critico d'arte monferrino Roberto Longhi, che non a caso si sentiva sia piemontese sia lombardo e che così, dei pittori scrisse:

Cerano - san Giacomo sconfigge i mori

“Capricci spirituali a punta di penna e di pennello.
Schermidori di sagrestia. Languidezze e livori.
Fiori, muscoli, pestilenze. Fossette di grazia e ferite di crudeltà.
Delicate acerbezze”
(Longhi 1926).

Parole di un’esattezza e di una sensibilità tali, che ancora oggi ci lasciano incantati.

Marco Corrias, alias Marc Pevèn

Bibliografia: 


- M. Gregori, Pittura a Milano dal seicento al Neoclassicismo, 1999
- P. Biscottini, Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola, 2005
- M. Rosci, Il Cerano, protagonista del Seicento Lombardo, 2005
- P. Plebani, Il Seicento lombardo tra letteratura artistica e collezionismo, 2013
- S. Coppa, P. Strada, Seicento Lombardo a Brera, Capolavori e riscoperte, 2014

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