Morazzone, Sestri Ponente (Ge) - S. Carlo, Madonna e Angeli (dettaglio)
Alla fine del Cinquecento, il celebre Concilio di Trento dettò nuove e rigide regole anche in materia di pittura: i contrasti religiosi sorti a seguito della Riforma protestante avviata nel 1517 da Martin Lutero avevano portato da lungo tempo a un clima di guerra fredda che aveva coinvolto perfino le arti figurative...
Oggetto principale degli strali dei pensatori cattolici è Michelangelo, di cui si riconosce il genio, ma del quale si deplorano le invenzioni. Egli è ritenuto, anzi, il pittore che più di ogni altro
si allontana dai canoni evangelici, per
inseguire una visione personale degli eventi religiosi e ciò, a loro dire, va
respinto senza mezzi termini.
Francesco Salviati - La Carità, esempio di pittura manierista (Firenze, Uffizi)
É la condanna estrema e definitiva dei nudi
di Michelangelo per la Cappella Sistina, dei colli lunghi del Parmigianino e di
tutte quelle anomale Madonne sinuose, attorniate da finti Gesù bambini
impegnati più a tendere piccoli archi e a giocare con grappoli d'uva che a
benedire i mortali. Dopo anni di bizzosi
capricci pittorici, il popolo attraverso
le immagini doveva tornare a comprendere i misteri della Fede cattolica che i
protestanti, nuovi iconoclasti, avevano messo con tale impeto alla berlina!
«Qual sarà quello ostinato(eccetto non sia
luterano) che, vedendo l’imagine del nostro Signore crocifisso piagato e
sanguinolento, non abbia qualche rimorso ne la consienza e non gli venga
voglia di onorarla e di farli riverenza?» (G.
A. Giglio, Degli errori e degli abusi de’ pittori)
Cerano,
tele controriformate. Estasi di S. Gaetano da Thiene, Resurrezione di
Cristo, S. Carlo e Francesco adorano la Madonna di S. Maria dei Miracoli
(Milano S. Antonio abate - Torino, Pinacoteca Sabauda)
Dunque si esigeva una pittura che ispirasse
commozione, che legasse intimamente lo spirito del fedele al mistero che gli
veniva posto dinanzi, che riuscisse ad “imprimere nel popolo il vero culto di Dio e
la grandezza delle cose eterne, e convertire come ministro celeste i cuori
delle nazioni intiere, e cangiarli in altra forma, e seco rapirli in cielo”.
Furono
l'onnipresente Carlo Borromeo, celebre santo nato ad Arona, e il
bolognese cardinal Paleotti i primi a comprendere come anche le immagini
dovessero uniformarsi a una credibile regolamentazione programmatica di
purificazione morale: bandite le bizzarrie del tardo Rinascimento e con esse la
rappresentazione del nudo, si decise di puntare su una maggior aderenza ai
Sacri Testi e, soprattutto, sulla chiarezza narrativa: il passato clima di
gioiosa eleganza e di sensuale bellezza andava sostituito con un nuovo clima di
rigore morale...
Molti
critici d'arte parvero riconoscere in questa fase il crepuscolo e la negazione
del genio. In verità non fu così, o meglio, non sempre. Spesso, più che le
indicazioni imposte da terzi, inesperti in materia artistica, fu sempre il
clima stesso del luogo a influenzare gli artisti.
Quasi per
reazione alle forme di controllo e coercizione imposte dalla Chiesa Controriformata,
gli artisti cercano un’originalità trasgressiva, capricciosa, strana e
alternativa, tale da essere tollerata e talvolta, anzi, incoraggiata dai
committenti stessi…
Cerano, Gionata rompe il digiuno (S. Raffaele)
Ecco
perché, quasi tutti i pittori iniziarono a condurre una doppia esistenza: se
per i committenti ecclesiastici essi di presentavano in veste di castigati
madonnari, per l'aristocrazia più raffinata erano gli eleganti ideatori di
tutte quelle sfrenate coreografie palaziali che poi avrebbero portato al
Barocco.
Agli
inizi del Seicento, secolo di contraddizioni, quasi in antitesi si affrontano
due scuole pittoriche principali: quella caravaggesca, portata un po' ovunque
in tutta Italia dal genio bergamasco del Merisi
e quella emiliana, già foriera di quel revival classicheggiante e
neo-pagano che nutrirà il barocco romano maturo.
Mappa seicentesca della "Lombardia" comprendente terre più vaste
A Milano e in Lombardia, in Piemonte e in
Svizzera, invece, che aria tirava?
‘Lombardia’ era un termine geografico che
rispecchiava piuttosto l’assetto dell’antico Stato spagnolo di Milano,
comprendente i territori dell’attuale Piemonte orientale, dalla provincia di
Novara alle sponde occidentali del Lago Maggiore, alla Riviera d’Orta, alla
Valsesia: terre dell'arcidiocesi
ambrosiana, roccaforte della Controriforma e baluardo contro l'infiltrazione
protestante, ancorate al mito di san Carlo Borromeo, dove si sparsero i germi di uno stile unico.
Morazzone, Lotta di Giacobbe con l’Angelo, 1610, Milano, Museo Diocesiano
Uno stile talmente anticonformista di
fare pittura che avrebbe conosciuto molti seguaci in un ampio spazio che
coinvolse perfino Torino e Genova; nella
prima, in cerca di affermazione in campo internazionale e auto rappresentazione,
i Savoia erano in cerca di artisti che celebrassero la dinastia; nella seconda,
marittima, laica e opulenta, l'attrazione tra opposti e l'assenza di forti
ideali morali portò a sperimentare un
incontro con il misticismo lombardo, inedito e ricco di spunti.
Federico Borromeo, cugino di Carlo, nuovo
arcivescovo di Milano nonché raffinato collezionista e fondatore dell'accademia
ambrosiana, non aveva tardato a riconoscere in una triade di pittori "locali", il valsesiano Giovan Battista Crespi detto
Cerano, il varesotto Francesco Mazzucchelli detto Morazzone e il bolognese
naturalizzato ambrosiano Giulio Cesare Procaccini, caratteristiche
di vera innovazione: i tre moschettieri del Seicento Lombardo.
Procaccini - Genova - Madonna fra i Santi Carlo e Francesco d'Assisi
Coetanei,
i tre artisti erano già stati impegnati da tempo da committenze d'alto livello
di natura prevalentemente religiosa: il Cerano, monumentale, visionario e
nordicheggiante, maturando in vent'anni una maniera pittorica cupa e violenta,
nel 1621 si ritrovò a capo
dell'Accademia Ambrosiana fondata dal cardinale Federico Borromeo. Cerano dá vita ad una scuola ben
individuabile, in grado di differenziarsi dalle altre coeve esperienze
italiane, in virtù dei suoi accenti
singolarmente cupi, nutriti da esasperazioni formali ancora tardo manieriste,
idonee a tradurre in immagine i toni drammatici e visionari della religiosità
del tempo: i suoi quadroni dei miracoli di San Carlo, coinvolgenti e talvolta
raccapriccianti, inscenano drammi corali
dalla parlata solenne e insieme umana, drammaticamente atipica, che ne
sanciscono il successo.
In
contemporanea, il crudo iperrealismo del valsesiano viene temperato dal
pennello più vaporoso, morbido e luminoso, culturalmente aggiornatissimo, del Procaccini: quest'ultimo, tra il 1610 e
il 1625, sforna una serie di pale
d'altare esteticamente impeccabili e smaltate dove madonne, angeli e santi intessono dialoghi fatti di
sguardi tanto colmi d'amore quanto sensualmente equivoci…
Nella invocazione dei santi, inoltre, nella
venerazione delle reliquie e nell’uso sacro delle immagini sia bandita ogni
superstizione, sia eliminata ogni turpe ricerca di denaro e sia evitata ogni
licenza, in modo da non dipingere o adornare le immagini con procace bellezza (Decisioni dei Concilii Ecumenici.)
La violenza del Cerano, la sua profonda e
tormentata analisi del peccato espiatorio oltrepassa di gran lunga le richieste
di pietà e chiarezza del cardinale; dal canto suo Procaccini, rispolverando le
dolcezze manieristiche bandite dal concilio di Trento, ambiguamente edulcorate, procedendo su binari
paralleli bilancia e tempera le manie mortifere del collega.
Collegiata di Varese - Cerano - Messa di San Gregorio (dettaglio infernale)
Il
terzo grande attore, il Morazzone, fantasioso
e teatrale, dá vita a fondali mozzafiato presso i maggiori cantieri dei Sacri
Monti lombardo/piemontesi di Varallo, Orta e Varese, lasciandovi tracce
importanti del suo cammino evolutivo.
Sotto l'occhio vigile del cardinale si
verifica così una frequente compresenza dei tre artisti: così diversi ma
riconoscibili nella loro forte individualità, quanto profondamente accomunati
da una sintonia tale da porli in reciproco scambio. É proprio questo anomalo,
magico sodalizio ad aprire nuovi e originali scenari, per la pittura lombardo-piemontese nel campo dei soggetti devozionali più
drammaticamente coinvolgenti.
Sacro Monte d Varallo. Morazzone - Salita al Calvario
Emblematico,
a tal proposito, é il Martirio delle sante Seconda e Rufina, meglio conosciuto
come "Il Quadro delle Tre
Mani" (1625): oggi conservato Brera, al tempo, nonostante le sue ampie
dimensioni. (2 mt x 2) era riservato al colto collezionismo privato. Frutto di
una sorta di competizione artistica promossa da Scipione Toso, importante mecenate
della Milano del primo '600, il quadro costituisce un'iniziativa
bizzarra e unica, dagli esiti forse non del tutto omogenei ma significativi: i tre più importanti pittori del Seicento
lombardo, richiamati in lizza a sfidarsi all'interno della stessa tela, non di
sa con quanta consapevolezza composero un manifesto della pittura borromaica
del Seicento, in tutte le sue sfumature.
Cerano, Morazzone, Procaccini. Pala delle Tre Mani
Osserviamo
le 3 maniere a confronto.
Nell'atmosfera
tenebrosa dell'opera, squarciata
da improvvisi bagliori
di luce, sono raffigurate Rufina e Seconda, due sante romane che
subirono il martirio ai tempi dell'imperatore Gallieno (260 d.C.), per
non aver voluto infrangere il voto di castità. Il responsabile
della loro morte violenta é il cupo cavaliere dalla corta veste romana che
irrompe a sinistra della tela con vigore
nefasto: si tratta del prefetto Archesilao,
che le ha fatte condurre al X miglio della via Cornelia per portare a termine
la pena capitale. Santa Seconda é appena stramazzata al suolo, riversa, con il
collo mozzato e sanguinante; la sua testa é rotolata poco più in lá. un
angioletto corrucciato e cianotico, osserva il misfatto appena consumatosi,
avvolgendo in un tenero abbraccio un cane da caccia: in realtà lo trattenere
dalla brama di sfamarsi di carni umane.
Cerano - Incoronazione di Spine (Quadreria dell'Isola Bella)
Questa parte, la più macabra e patetica del
dipinto, fu realizzata dal Cerano, gran drammaturgo fra gli artisti di scuola
lombarda. Il suo tocco rapido e bizzarro, capace di materializzare figure
monumentali e incombenti, porta ad esiti estremi la ricca pennellata del
Rubens: qui, non più intinta di cromie cariche ma di terre scure e neri di
seppia che giocano sui riflessi delle armature dei carnefici dalle loriche
spagnoleggianti.
Sulla
destra del quadro, l'immagine di santa Rufina stride con Seconda: consolata da un angioletto roseo, tornito e
sicuro di sé, essa prega in ginocchio in attesa che i carnefici la bastonino a
morte. L'origine bolognese di Giulio
Cesare Procaccini si riflette
nella flessuosa eleganza e nell'incarnato delicato della santa che attende il
martirio, confortata dal putto: il ricordo di Correggio, passato attraverso la scuola
dei Carracci, ritorna nell'espressione serena, quasi sorridente della giovane,
dalle incantevoli mani affusolate. La stesura pittorica dura e metallica delle
vesti e la posa artificiosa sono caratteristiche della sua fase matura.
«E poi sete; sete a perdita d’occhi; e
tremori, ambiguità, strusciamenti di carni a non finire. […] bagliori, fili di
luce; come se a quei tempi, i milanesi, vivessero, pregassero, s’ammalassero e
spirassero nell’oro; anche quando, cosa più che comune, peste li coglieva»
(Testori 1973).
G. C. Procaccini. Sposalizio di S. Caterina (Pinacoteca di Brera)
L'invenzione
compositiva generale apparterrebbe al Morazzone:
al centro del quadro, in tutto il suo
violento dinamismo irrompe sulla scena un moro munito di sciabola baluginante,
con un turbante sul capo. Nel frattempo, un paggio in armatura osserva
nell'ombra e un elegantissimo angioletto si libra in volo reggendo la palma del
martirio.
Il
carnefice, perno centrale e drammatico di un'azione complessa dove convergono
le linee diagonali lungo le quali sono disposte tutte le altre figure,
richiamando la struttura compositiva del martirio di San Matteo dipinto del
Caravaggio per San Luigi dei francesi,
orienta il Morazzone verso la nuova e più libera sperimentazione di un
linguaggio barocco in via di sviluppo.
«Tu, Morazzon, che con colori vivi
moribondo il fingesti in vive carte
e la sua dea rappresentasti e i rivi
del’acque amare da’ begli occhi sparte,
spira agl’inchiostri miei di vita privi
l’aura vital de la tua nobil’arte
ed a ritrarlo, ancor morto ma bello,
insegni ala mia penna il tuo pennello.»
G.B. Marino, Il Tempio. Panegirico (1615)
I corpi
delle sante, abbandonati alle bestie, furono raccolti da una matrona romana,
Plautilla, e sul luogo del martirio venne poi eretta una basilica in memoria.
Il
letterato locale Giovanni Pasta celebra il quadro allorché si trovava già nella
collezione del cardinale Cesare Monti, arcivescovo di Milano dal 1635 al 1650.
E’ lui che per la prima volta lo definisce il quadro delle tre mani. Nel suo
testo elogia
“I divini Morazzone, Cerano, Procaccini … tre
pennelli, anzi tre grazie pennelleggianti”
Morte, tragedia ed “exemplum” da imitare: Mentre Cerano e Morazzone si compiacquero d’ostentare un campionario di passioni laceranti consumate sotto cieli
plumbei, il Procaccini continuò lungo la sua strada: il celebre “Sposalizio mistico di Santa Caterina”
rappresenta un'intenerita esplorazione degli affetti di Correggio e di Parmigianino, coniugata con la pittura
lucente e a ricchi impasti di Rubens; quel che ne scaturisce un’immagine
radiosa ed elegante, che testimonia lo scarto vistoso del pittore di origine
bolognese rispetto ai suoi contemporanei compagni di avventura, dai quali lo
differenzia anche la ricerca di tipologie aggraziate, di una bellezza insieme
idealizzata e sensuale, suggellata dal rincorrersi dei riccioli d’oro e delle
espressioni sorridenti.
Cerano, Martirio di S. Caterina (Milano, S. Maria dei Miracoli)
Comunque sia, al di là delle profonde differenze,
i tre spopolarono al punto da raggiungere il successo internazionale: il
cavalier Marino, maggior poeta barocco del tempi, si dannava nel vano tentativo
di acquistare le loro «tele» che
definiva «non degne di gente comune, ma
di re e imperatori!»
Il
successo dei tre moschettieri del Seicento lombardo era stato proprio
suggellato, nel 1623, dalla pubblicazione a Parigi ella più ambiziosa raccolta poetica del
cavaliere napoletano: “l’Adone”, opera di tali ambizioni e di risonanza da
consacrare ai posteri, tra gli altri artisti, anche i tre moschettieri della cultura figurativa
del primo Seicento lombardo:
«voi, per cui Milan pareggia Urbino, /
Morazzone e Serrano e Procaccino».
Ritratto di Giovanni Battista Marino, (Frans Pourbus il Giovane, 1621)
Pochi anni dopo la morte quasi
contemporanea del Procaccini e del Morazzone
(1625-1626), che
aveva da poco concluso a Novara il suo testamento pittorico con la
"Cappella della Buona Morte" in san Gaudenzio, la grande tragedia della peste del 1630
segnò davvero la conclusione di un ciclo, nonché la svolta verso un inesorabile
decadenza di quella Milano spagnola che fino ad allora era stata uno dei più
brillanti centri culturali d'Europa. Alla peste seguono quasi
immediatamente la morte del cardinal Federico
(1631) e del Cerano (1632).
Daniele Crespi,
quarto moschettiere, fulgore e meteora, morì giovanissimo falciato
dalla peste: del nostro d'Artagnan pittore abbiamo già trattato
approfonditamente. Non a caso, i grandi pittori del Seicento
lombardo sarebbero stati battezzati col soprannome di "pestanti": i tre,
anzi quattro moschettieri, cavalieri della peste bubbonica,
incarnarono l’estremo sussulto di questa vibrante stagione figurativa:
quasi un sotterraneo riverbero, un doloroso travaso, delle tragiche
esperienze dei contagi. Dopo
secoli d'oblio e pregiudizio verso il barocco nutriti dai critici d’arte e gli
studiosi illuministi, il Seicento lombardo
sarebbe stato riscoperto dal tedesco Pevsner e dal celebre critico d'arte
monferrino Roberto Longhi, che non a caso si sentiva sia piemontese sia
lombardo e che così, dei pittori scrisse:
Cerano - san Giacomo sconfigge i mori
“Capricci spirituali a punta di penna e di
pennello.
Schermidori di sagrestia. Languidezze e
livori.
Fiori, muscoli, pestilenze. Fossette di
grazia e ferite di crudeltà.
Delicate acerbezze”
(Longhi 1926).
Parole
di un’esattezza e di una sensibilità tali, che ancora oggi ci lasciano
incantati.
Marco Corrias, alias Marc Pevèn
- M. Gregori, Pittura a Milano dal
seicento al Neoclassicismo, 1999
- P. Biscottini, Carlo e Federico. La luce
dei Borromeo nella Milano spagnola, 2005
- M. Rosci, Il Cerano, protagonista del Seicento Lombardo, 2005
- P. Plebani, Il Seicento lombardo tra letteratura artistica e collezionismo, 2013
- S. Coppa, P. Strada, Seicento Lombardo a Brera, Capolavori e riscoperte, 2014
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