Per parlare di torneo nel Medioevo è necessario introdurre il concetto
di "ordalia”: termine desunto dall'alto germanico “ordaïl” che riportato in latino medievale come "ordalium" vuole dire
"giudizio di Dio". L'ordalia è
un’antica pratica derivata da consuetudini in uso presso i popoli barbarici: una
serie di prove come quella dell’acqua bollente o gelida, del ferro rovente
oppure del duello, al fine di stabilire l’innocenza o la colpevolezza
dell'accusato. Gli esiti della prova assicuravano la manifestazione del “iudicium Dei”, ossia della volontà
divina: giudizio spettante agli dei del pantheon germanico o “Valhalla”, a cui più tardi si sostituì il
Dio dei cristiani.
La risoluzione di contenziosi legali attraverso l’ordalia,
nella forma del torneo all'ultimo sangue, trovò larga applicazione presso tutte
le popolazioni germaniche: Goti, Longobardi, Franchi, Turingi e Sassoni sono
solo alcuni tra gruppi etnici più citati. I primi riferimenti al duello come
strumento di risoluzione di contese risalgono agli storici romani che, da
Velleio Patercolo a Tacito, sottolinearono l'incompatibilità di tale prassi
barbarica con la concezione romana dello Stato. La consuetudine del duello
giudiziario, favorita dal carattere combattivo di quei popoli, a contatto con la
dottrina cristiana anziché ammorbidirsi risultò ulteriormente rafforzata: il
fondamento del giudizio si basava su un giuramento solenne che, invocando Dio
in persona come testimone, rimetteva al suo volere non soltanto gli esiti dello
scontro, bensì anche le anime dei contendenti.
La più antica, forse l’unica testimonianza di duello atavico
tra eroi verificatosi nel corso dell’Alto medioevo europeo è stata identificata
dallo scrivente in un episodio di apparente insignificanza, descritto nella
“Storia dei Franchi” di Gregorio di Tours: correva l’anno 590 d.C., l’ultimo
del regno di Àutari quando un esercito di Franchi, calati dai valichi
dell’attuale Svizzera, fu arrestato presso Ponte Tresa, il cui nome da sempre
indica la presenza di un passaggio per l’attraversamento di acque profonde. Qui
si consumò un'ordalia tra guerrieri barbarici: un duello tra un Franco e un
Longobardo, campioni scelti, a cui era stata affidata l’esecuzione del volere
divino presso il confine simbolico del regno aggredito. La più antica
testimonianza, invece, di un vero e proprio duello giudiziario sarebbe riportata da Fredegario, altro storico
franco, quando nel 624 Pittone, campione della regina Gundeperga figlia di
Teodolinda uccise in singolar tenzone tale Adalulfo, che aveva accusato la
sovrana di adulterio e tentato omicidio ai danni del re: l’esito dello scontro
comportò la completa riabilitazione della regina. Poco più tardi (643 d.C), il
duello per giudizio divino sarebbe stato riconosciuto per iscritto dal celebre
Editto di Rotari.
La concezione alla base di tale istituto era quella,
"barbarica", che vedeva i campi del diritto, tanto pubblico quanto
privato, quelli della morale e della
religione come un tutt'uno inscindibile; inoltre, al culto del divino si
accompagnava quello, mai sopito, della forza fisica e delle armi.
A proposito di armi è opportuno ricordare che parte
dell'equipaggiamento da guerra, necessario nei secoli a venire, fu proprio
introdotto nel corso dell’Alto Medioevo barbarico. Popoli nuovi, originari
della steppa come gli Unni, di etnia mongolica e gli Alani e Àvari, turco-altaici,
cavalieri eccezionali che passavano la maggior parte della propria vita
letteralmente sul cavallo, tra il V e il VII secolo misero a ferro e fuoco prima
ii confini dell'Impero romano, poi dei regni barbarici. Il ruolo primario del
cavallo, che in età romana era stato impiegato in modo assai marginale e l'introduzione
della staffa, sconosciuta al mondo classico e più tardi diffusa su vasta scala
nell'esercito franco (VIII sec.) avrebbero pesantemente influenzato i futuri
equilibri della neonata Europa. Non va nemmeno del tutto esclusa la possibilità
che l'armamento da torneo del basso medioevo sia stato in parte ispirato dai
catafratti (da κατά, "tutto", "fino in fondo" e φρακτός
"coperto, protetto"): i primi corpi di cavalleria pesante della
storia, introdotti dai persiani e ripresi dall'impero bizantino, dove il
metallo proteggeva allo stesso tempo cavallo e cavaliere.
Con l'evolversi del Regno longobardo, sotto Liutprando (712-44)
si cercò di limitare il “duello di Dio”
a favore delle prove testimoniali, documentali e dei conseguenti risarcimenti
dei danni, già precedentemente stabilite da Rotari con l’istituto del
“guidrigildo”. Gli unici due casi in cui, in assenza di prove, nell’Italia alto
medievale il giudice concedeva il duello riguardavano gli omicidi commessi col
veleno o a tradimento e ovviamente, il crimine più grave di tutti: quello di lesa maestà.
Tuttavia la caduta del regno (774) e il tentativo di
sostituire la classe dominante longobarda con quella franca, rimasta ancorata
alle tradizioni germaniche, restituì ampia diffusione alle vecchie pratiche.
Dapprima la dinastia carolingia (VIII-IX sec.), poi quella ottoniana, sassone (X-XI
secc.) sostennero apertamente la necessità del "combattimento
giudiziario"; al contrario, esso era disapprovato dalla Chiesa come
pratica paganeggiante, sanguinaria e portatrice di faide: d'altronde i signori
germanici della guerra ritenevano assai più nobile imporre i propri diritti con
la spada, agli impedimenti ecclesiastici di deporre le armi pena il rischio
della dannazione eterna.
Proprio a partire dai fin qui analizzati Duelli di Dio, entro i
confini dell’impero carolingio dal IX secolo iniziò a svilupparsi il concetto
di torneo. Derivato dalla parola francese "tourner",
(roteare, girare), il torneo nacque come
sorta di “festa in armi”, comprensiva di un’ampia rassegna di esercizi
militari destinati all’allenamento dei nobili di più alto lignaggio: quegli
stessi nobili armati che, con la nascita della leva obbligatoria, avevano il
dovere di rispondere all’adunata annuale convocata dal sovrano presso i “Campi
di Marzo”.
Fondamento essenziale della società armata d’età carolingia e,
di riflesso, anche del torneo era "la cavalleria": struttura militare
organizzata su base gerarchica, il cui famoso e spesso mitizzato codice, prima
di vedere una forma definitiva, richiese
secoli di faticosa elaborazione.
Le prime regole del torneo non sono codificate: ci si basa su
un codice di comportamento desunto dalle consuetudini. Fin dalle origini i
tornei videro battersi opposti schieramenti di cavalieri, in furibonda mischia entro
spazi pianeggianti rigorosamente collocati all’esterno dei centri abitati, con
tanto di alberi per le imboscate. Nel giorno e all’ora stabilita, ogni cavaliere partecipante doveva
presentarsi con una piccola guarnigione formata da fanti, arcieri e scudieri.
Uno schieramento era formato dai “ténants”, che avevano lanciato la
sfida, un altro dai “vénants” che
l'avevano accettata; ed ecco delinearsi vere e proprie simulazioni belliche, pensate
allo scopo di esercitare attivamente l’arte della guerra anche durante il
periodo invernale, onde evitare che i combattenti potessero infiacchirsi.
Da intendersi come dimostrazioni laiche, i tornei erano indetti allo scopo di garantire efficienza militare, ma anche come occasioni per guadagnare onori e visibilità e, di conseguenza, rinsaldare alleanze politiche tra signori feudali. Lo scopo non doveva essere quello di uccidere ma, al contrario, sconfiggere l’avversario, farlo prigioniero e costringerlo a pagare un riscatto allo scopo di aumentare il proprio prestigio personale. Tuttavia è facile immaginare come, fin dalle origini, il torneo contemplasse scontri armati con alto rischio di morte. Per quanto simulato, esso incarnava pur sempre il momento in cui scatenare liberamente l’aggressività del clan, con tutto il bagaglio di significati annessi e connessi al concetto di “battaglia rituale”: la realizzazione di un meccanismo di predazione e ridistribuzione della ricchezza, tale e quale a quanto accadeva in tempo di guerra.
Da intendersi come dimostrazioni laiche, i tornei erano indetti allo scopo di garantire efficienza militare, ma anche come occasioni per guadagnare onori e visibilità e, di conseguenza, rinsaldare alleanze politiche tra signori feudali. Lo scopo non doveva essere quello di uccidere ma, al contrario, sconfiggere l’avversario, farlo prigioniero e costringerlo a pagare un riscatto allo scopo di aumentare il proprio prestigio personale. Tuttavia è facile immaginare come, fin dalle origini, il torneo contemplasse scontri armati con alto rischio di morte. Per quanto simulato, esso incarnava pur sempre il momento in cui scatenare liberamente l’aggressività del clan, con tutto il bagaglio di significati annessi e connessi al concetto di “battaglia rituale”: la realizzazione di un meccanismo di predazione e ridistribuzione della ricchezza, tale e quale a quanto accadeva in tempo di guerra.
Il torneo conobbe la sua età dell’oro nel XII secolo:
nonostante il primato francese, con l’affermarsi di élite cavalleresche all’interno
delle istituzioni cittadine esso conobbe un grande sviluppo anche in Italia, dal
Nord fortemente aristocratico e feudale, al Centro caratterizzato dalla
presenza di un potente ceto borghese, al Sud normanno - svevo e angioino. L’animosità,
di cui il torneo fungeva da tramite, era forte; le rivendicazioni politiche
fioccavano in continuazione. Il torneo, effettivamente, incarnò l’ideale
valvola di sfogo per una gioventù turbolenta, pericolosamente armata fino ai
denti, vogliosa di mettere in mostra la propria grandezza familiare e che,
quando non aveva una guerra vera da combattere, doveva pur sempre dare prova di
ciò che sapeva fare meglio: combattere.
Osserviamo alcuni episodi da vicino.
Nel 1158, nel pieno dello scontro fra l’imperatore Federico I
detto il Barbarossa e il papato, i cittadini cremonesi sfidarono i piacentini
col pretesto di un "turneimentum"
che nella pratica rivelò essere un regolamento di conti fra città rivali
con tanto di morti, feriti e prigionieri. Quando il Barbarossa passò per Faenza,
espresso il desiderio di vedere in azione i combattenti cittadini dei quali
aveva sentito magnificare le abilità, l’esibizione dei cavalieri locali delle
loro virtù belliche, per quanto schermata dal pretesto di un torneo, finì per
assumere le sfumature di un monito indirizzato il sovrano stesso.
Fu l’arcivescovo Ottone di Frisinga, nel 1157, a dare a questo
genere di esercizi militari il nome esplicito di “torneo”. Tuttavia, perché
tale definizione si affermasse occorsero altri decenni: basti pensare che
ancora nel 1179 il terzo Concilio Lateranense, convocato da papa Alessandro III
allo scopo di vietarlo, lo definì genericamente “mischia” e talvolta anche “singolare
tenzone”; i cronisti inglesi, chiamandolo “conflitto gallico”, ne certificarono
l’area di origine in Francia.
Tra il XII e il XIV secolo, l’assenza di regole e la violenza
imperante imposero la necessità di un codice di stampo non solo militare, ma
anche morale: il cavaliere avrebbe dovuto battersi con lealtà, nel nome dei più
elevati ideali cristiani; soccorrere i deboli, le donne e i poveri. L'ideale
del prode cavaliere e i relativi rituali come la conquista della donna amata, elementi
caratterizzanti del torneo e della giostra, ispirarono ideali ben presto
sublimati dalla letteratura epico-cortese, in particolare delle “Chansons de Geste”: basti pensare ai
personaggi del ciclo arturiano o carolingio, come Lancillotto e Parsifal, o il
paladino Orlando. Chi non si atteneva al codice d’onore sarebbe stato marchiato
con l’onta della fellonia…
…ma in verità, lungi dall’incarnare il perfetto prototipo del
cavaliere senza macchia dei romanzi cortesi, quante volte il codice
cavalleresco sarebbe stato impunemente violato?
Per la Chiesa non fu facile tollerare lo spettacolo di
cavalieri cristiani che si sfidavano, talvolta fino ad ammazzarsi per motivazioni
poco onorevoli come l'amore del gioco, del rischio e del denaro; tanto meno
gradì le nuove usanze dell’amor cortese, per le quali i duellanti gareggiavano
in nome della loro servitù d'amore verso una dama che si concedeva come
ricompensa, spesso in senso esplicitamente sessuale, al vincitore.
Proprio nel momento in cui la passione per i tornei iniziava a dilagare
in tutta Europa, tra il 1130 e il 1131 il concilio di Clermont e quello di
Reims decretarono la scomunica per i partecipanti e vietarono la sepoltura
cristiana a coloro che avrebbero trovato la morte nello scontro. L'opposizione della
Chiesa ai tornei, appoggiata anche, per motivi di ordine pubblico, dalle
monarchie nazionali, fu perseguita attraverso una potente propaganda coltivata
al fine di allontanare la classe feudale dai suoi ideali originari: i nuovi
modelli proposti allo scopo di incanalare tanta violenza gratuita furono le
crociate. I papi cercarono anche di imporre periodi di tregua, detti “Paci di
Dio”, in concomitanza con le festività cristiane. Ciò nonostante la popolarità crescente
del torneo, unita ai numerosi accorgimenti di riforma del regolamento, nel 1281
avrebbe portato la Chiesa ad abolire tali proibizioni.
In conformità con le esigenze del tempo, i tornei diventarono
sempre più spettacolari e fastosi: in virtù del pubblico consenso, tra il XII e
il XIII secolo essi iniziarono ad ricevere visibilità e spazio anche
all'interno delle mura cittadine. Dal punto di vista pratico, il regolamento
formalizzò la prassi e la regolamentò sempre più dettagliatamente: le armi da
difesa e offesa, i colpi, i vestimenti, le parate, i saluti al pubblico
ricevettero una codificazione sempre più complessa, legata a rigidi cerimoniali.
Ciascun cavaliere in gara veniva chiamato dall’araldo al
cospetto del pubblico e dell'autorità che aveva indetto il torneo; ne venivano
descritte le armi, il blasone nobiliare ed eventuali vittorie. L'esigenza di
distinguersi portò alla diffusione dell’uso di colori e di emblemi sugli scudi
e le gualdrappe; i cavalli dovevano essere addestrati alla giostra come in
battaglia, in sintonia totale coi comandi del cavaliere.
L’incontro si
svolgeva entro un recinto provvisto di un paio di ingressi, ai cui margini si accalcavano
gli spettatori: frequentemente, su gradinate intorno alla tribuna centrale, nella
quale prendevano posto gli ospiti d’onore e le dame. Un palco a parte era
occupato dai giudici della gara, incaricati di tenere il punteggio dei colpi
dati e ricevuti, di stilare la classifica finale e proclamare il vincitore.
Nella prima fase della storia del torneo, lo svolgimento corretto era garantito
dagli araldi stessi; in un momento successivo si costituirono apposite
commissioni giudicatrici. Se la giostra si svolgeva entro uno scenario urbano,
le finestre che affacciavano sulla piazza erano gremite di pubblico e addobbate
con di arazzi e di fiori.
Il torneo fu,
almeno fino all’affermazione di un ceto medio dotato di cospicue ricchezze, un
esercizio a lungo riservato all’aristocrazia: la sola in grado di potersi
permettere di sostenere gli ingenti costi che tali competizioni comportavano in
termini di cavalcature, di armi e scudieri al seguito. Se nei secoli precedenti
aveva prevalso l’uso della cotta di maglia ad anelli, a partire dalla fine del
XIII secolo sopra l’usbergo, ossia sulla cotta di maglia completa si iniziò a
indossare singole piastre metalliche, a
proteggere ulteriori parti del corpo sia del cavaliere, sia del cavallo. Gli
armaioli svilupparono una particolare capacità nell’ideare singole lamine e
piastre flessibili. Di conseguenza, il costo di un’armatura su misura di alta
qualità era davvero notevole.
L'equipaggiamento dell'animale era comprensivo di sella dall’arcione
ampio, per proteggerne il basso addome e a volte anche le gambe del cavaliere;
la testiera era molto spessa e copriva gran parte della visuale del cavallo, di
modo che non reagisse di propria iniziativa nello scontro.
Il torneo vero e proprio era preceduto dai preliminari o "commençailles", fatti di
sfide personali e combattimenti individuali dove i cavalieri più giovani
coglievano l'occasione per mettere in mostra le loro capacità. Ad essi seguiva
lo scontro di tutti contro tutti, caratterizzato dalla moltitudine dei
combattenti e dalle esibizioni dei cavalieri più esperti e famosi.
Nell’attesa dello scontro vero e proprio, nessun dettaglio era
trascurato: prima che il cavaliere montasse e iniziasse a duellare, l’equipaggiamento
veniva esaminato attentamente. I combattenti erano presentati dagli araldi;
talvolta ingaggiavano gare d’insulti e giungevano perfino a invocare Dio per
assicurarsi il suo favore: forse si tratta di elementi residui dell’antica
ordalia, sopravvissuta ai secoli. Il premio destinato al vincitore del torneo o
della giostra era un bene concreto: armi, cavalli, vesti preziose, fino all’amore di una dama, magari da avere in
moglie.
Allo scopo di
limitare gli incidenti mortali fu attuata la distinzione tra tornei con armi "à outrance" o armi nude, cioè
da battaglia, e armi "à
plaisance", o da cortesia, ossia smussate o con la punta coperta. Anche
la sequenza nell’uso delle armi prevedeva un codice di regole: lo scontro iniziava
con armi lunghe come la lancia, l'asta e la zagara, funzionali a disarcionare l’avversario;
seguiva il turno, forse meno spettacolare ma decisivo, del corpo a corpo con impiego
di armi bianche come spade, asce, mazze. Il regolamento giunse perfino a
considerare il numero di cariche a cavallo e di colpi che ciascun duellante poteva
infliggere con ciascuna arma.
Un celebre esempio di cavaliere in carne ed ossa, affermatosi
partendo dal nulla, fu quel Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), poi conte di
Pembroke, attentamente descritto dallo storico Georges Duby: annoverato tra i
più famosi combattenti noti nell’Inghilterra del XII secolo, Guglielmo iniziò
la sua partecipazione ai tornei sconosciuto e povero, senza nemmeno avere un
cavallo di sua proprietà, ma impressionando fin dall'inizio per la sua capacità
di avere la meglio su professionisti più esperti ed equipaggiati: in onore alle
sue vittorie sarebbe perfino stato dedicato un poema cavalleresco.
Ben diversa dal torneo, per quanto derivata da esso, è la giostra:
la disfida tra due cavalieri che si lanciano l’uno contro l’altro. Preceduta
dall’antico "hastiludium",
che a partire dall'XI secolo aveva diffuso il concetto di combattimento a
cavallo con la lancia, questa pratica di origine tipicamente italica accentuò la
tendenza all’esibizione personale, decretandone il successo.
Fuori dal mucchio selvaggio del torneo, che in Italia era
definito con l’inconsueto nome di “battagliola”, l’ideale della sfida personale
lanciata a un avversario affinché la raccogliesse per non perdere la faccia
diventò lo spettacolo più richiesto e più adatto ad acquisire fama, onori e
ricchezze.
Il termine “giostra” deriva da “juxta” (vicino) e “juxtare” (da
cui “giostrare”). Organizzata, rispetto al torneo, entro uno spazio più circoscritto,
la giostra consisteva nel duello individuale di uomini a cavallo. Dal XV secolo,
in virtù della sua maggiore spettacolarità la giostra fu consacrata come
competizione di maggior successo. Apprezzata presso un pubblico sempre più
ampio e variegato, essa assunse un aspetto elegante e sfarzoso, codificato da
un complesso cerimoniale idoneo alla celebrazione di vittorie, ricorrenze,
accordi tra signori, feste religiose ed eventi mondani: occasione favorevole
all’esibizione di armature sempre più ricche e personalizzate, con bardature e
colori sgargianti.
In queste
occasioni i principi delle corti italiane ed europee usavano inviare in
rappresentanza i cavalieri del proprio seguito, se non partecipare
personalmente alle giostre; talvolta vi prendevano parte anche i capitani di
ventura, approfittando dei combattimenti cortesi per dimostrare
propagandisticamente la propria efficienza bellica.
Entro il recinto fu introdotta una barriera divisoria tra
contendenti che esaltasse lo scontro individuale e abilità atletiche come la
coordinazione e la precisione nell’uso delle armi al galoppo: lo steccato,
detto “lizza”, termine derivato dall’antico tedesco, è preso in prestito ancora
oggi con riferimento alla scesa in campo per qualsiasi contesa.
Essa prevedeva l’uso di uno scudo di legno rivestito di cuoio,
fissato sulla piastra pettorale della corazza e di una lancia “in resta", ossia
saldamente assicurata alla corazza, sotto il braccio destro, con il compito di
reggere il peso e assorbire parte del colpo inferto.
Al fine di consentire al cavaliere un urto ottimale, nella
giostra con divisorio era indispensabile che il cavallo fosse ben addestrato a
tenere il galoppo sullo zoccolo destro, da cui appunto deriva il nome
destriero. Lo scopo era quello di disarcionare l'avversario con l'urto della
lancia, senza colpire l'elmo.
La lancia da
cavaliere in guerra era formata da un palo di legno lungo circa 4 metri e
pesante diciotto chilogrammi; il suo eccessivo ingombro ne consentiva
l’utilizzo soltanto a cavallo. La consistenza più leggera delle lance da torneo,
appositamente di frassino affinché si frantumassero al contatto, doveva evitare
lo sfondamento dell'armatura del contendente colpito; l’elmo, della tipologia a
“bocca di rana”, era costituito da una fessura a protezione degli occhi e buchi
per seguire l’avversario al momento dell’impatto. Anche con questi accorgimenti non mancarono
gli incidenti; tra i casi più celebri si
annovera quello di Enrico II, re di Francia dal 1547 al 1559, che durante un
torneo fu colpito ad un occhio da un frammento di lancia che in poco tempo lo
portò alla morte.
Nonostante tutti
gli sforzi profusi, un vero e proprio regolamento standard non dovette esistere
mai, se in ciascuna edizione si potevano dettare regole diverse per rendere il
torneo più spettacolare, fino a permettere i colpi proibiti. Formalmente, nel
combattimento a cavallo era vietato colpire l'avversario sotto la linea della
sella, così come nella fase a piedi non si poteva colpire altro che la testa o
il busto; in tempi successivi si sarebbe potuto colpire l’avversario anche
“sotto la cintola”. Le regole della giostra di Foligno, per fare un esempio, in
quest'epoca permettevano di colpire nella visiera, nella baviera e nel petto e
perfino le parti basse...
Con lo sviluppo
del ceto borghese, soprattutto in Francia e in Italia, dal XIV secolo le classi
sociali emergenti fecero di tutto per inserirsi nel sistema feudale; lo scopo
fu raggiunto attraverso la sponsorizzazione dei tornei stessi. Le spese
venivano recuperate attraverso il commercio: l'afflusso in città di spettatori
e duellanti forestieri, infatti, oltre ai benefici ricavati dalla città per il
solo fatto di essere sede ospitante, incrementavano i guadagni di armaioli,
sellai, maniscalchi, sarti e cerusici a livelli esponenziali. Nel 1330 i
borghesi di Parigi organizzano una serie di combattimenti su imitazione
perfetta di quelli aristocratici e invitando a prendervi parte le città vicine,
riscossero un successo strepitoso. Poco più tardi, un ricco mercante di Tournai
organizzò una confraternita di trentuno borghesi ricchi quanto lui, tutti
ammiratori dei romanzi del ciclo arturiano: ciascuno di essi assunse il nome di
un personaggio letterario, con l’impegno di offrire a turno un banchetto
domenicale a tutti gli altri. Fu così che la borghesia iniziò a vantare il
diritto di avere uno stemma sullo stendardo personale, un araldo e di
partecipare a tutte le cerimonie familiari e religiose degli altri: questa
nuova nobiltà avrebbe presto duellato in compagnia di quella di più antiche
origini, senza provocare particolari obiezioni. Dal XV secolo, a Firenze la
giostra finì per aprirsi a tutti i gruppi sociali: quella del 1406 vide il
premio assegnato a un mercenario sforzesco; quella del 1415 annoverò tra i partecipanti
cittadini di borghesi come banchieri Bardi e Acciaioli, i Soderini che già
erano nobili ma si fecero mercanti per guadagno. Lo stesso andava accadendo a
Milano con i Borromeo, allora nobili da poco e neppure del tutto meneghini: passati
alla storia come il casato che diede i natali a San Carlo, ai primi del '400 si
trattava di una consorteria famigliare di banchieri fiorentini e padovani.
Verso il 1420
erano stati sviluppate armature a piastre complete che includevano pezzi di
ricambio, a seconda delle diverse esigenze. Un’armatura completa a piastre in
acciaio doveva pesare tra i 15 e i 25 chili: eppure, chi lo indossava non era
del tutto impedito dal peso dell'armatura, distribuito uniformemente su tutto
il corpo, dal collo ai piedi, per mezzo di un sistema di articolazioni. Il XV e
il XVI furono i secoli che più di tutti conobbero armorari dotati di grandi
abilità artistiche. I più abili d’Europa erano i milanesi (Pompeo della Cesa,
Filippo e Giovanni Paolo Negroli) e i
bavaresi. Col termine “armi bianche” ci si riferiva a quelle di produzione
italiana, innovative nell’uso di piastre a coprire quelle giunture che
precedentemente erano difese soltanto dalla maglia metallica; per contro, i
loro concorrenti tedeschi producevano le cosiddette “armature gotiche”,
altrettanto richieste per via delle tipiche scanalature, ideate allo scopo di
proteggere dai colpi. Dall’unione tra i due maggiori tipi d’armatura, quella
lombarda e quella tedesca, nacque la cosiddetta armatura “massimilianea”
(1514), che costituì un modello definitivo da giostra e da battaglia. Fatta
risalire all'imperatore Massimiliano I d'Asburgo e realizzata dall'armoraro di
Norimberga Lorenz Helmschmied, essa costituì l'archetipo per lo sviluppo delle
successive armature a piastre d’età rinascimentale (XVI secolo). Alla fine del
'400, proprio l'imperatore Massimiliano I d’Asburgo si era personalmente
impegnato nel perfezionamento della tecnica, al punto da essere soprannominato
"l'ultimo cavaliere".
A tal riguardo è
doveroso citare il “Freydal”,
manoscritto con disegni e annotazioni sui sessantaquattro tornei a cui
Massimiliano aveva preso parte. Le nuove forme di torneo ed equipaggiamento
sportivo a cui l’imperatore Massimiliano diede vita avrebbero fatto nascere i
ben noti luoghi comuni moderni sulla pesantezza o goffaggine delle armature “medievali".
Nel frattempo si mosse anche l’Inghilterra: l'armatura di Greenwich, voluta da
Enrico VIII, fu realizzata da un laboratorio reale inglese che aveva ai suoi
servizi artigiani italiani, fiamminghi e tedeschi. Un altro modello, più
attardato, legato al nome di Massimiliano II d'Asburgo, ultimo grande
committente di armatura scanalate (1557) delineò in maniera definitiva la supremazia del “design
italiano” nelle armature da parata.
In epoca tarda
la giostra si sarebbe trasformata in una sorta di esibizione dove atletismo e coraggio
contavano sempre meno. Tutta l’attenzione ricadde sulle elaboratissime armature
da parata, ideate da veri e propri artisti specializzati. Il tripudio di tessuti
e gioielli, di stemmi e imprese cavalleresche, nel Rinascimento tramutò la
giostra in vera e propria “sfilata di moda”. Nel XVII secolo il cavalier Marino,
famoso poeta barocco, si soffermò ironicamente su un gruppo di cavalieri
italiani e stranieri protagonisti di un torneo che agghindati, luccicanti e
truccati non avevano più nulla a che spartire con ii loro predecessori; nel
famoso don Chisciotte a sua volta, lo spagnolo Cervantes, descrivendo le tragicomiche
disavventure di un vecchio hidalgo decaduto, descrisse il definitivo tramonto
di un’epoca: la fine della cavalleria, dei tornei, delle imprese, della
giostra.
L’eredità del
torneo sarebbe dignitosamente sopravvissuta come tradizione nell’ambito di ricorrenze
e festività tipiche di molti centri storici, fortemente legati al loro passato.
È il caso, tra gli altri, della Giostra della Quintana di Ascoli Piceno: rievocazione
storica medioevale con giostra equestre che si svolge la prima domenica di
agosto in occasione della festa di Sant'Emidio, patrono e primo vescovo della città
marchigiana.
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