martedì 8 gennaio 2019

“Ordal & Tournoi”: evoluzione del torneo nei secoli, da Giudizio degli Dei a disfida cortese.



Per parlare di torneo nel Medioevo è necessario introdurre il concetto di "ordalia”: termine desunto dall'alto germanico “ordaïl” che riportato in latino medievale come "ordalium" vuole dire "giudizio di Dio".  L'ordalia è un’antica pratica derivata da consuetudini in uso presso i popoli barbarici: una serie di prove come quella dell’acqua bollente o gelida, del ferro rovente oppure del duello, al fine di stabilire l’innocenza o la colpevolezza dell'accusato. Gli esiti della prova assicuravano la manifestazione del “iudicium Dei”, ossia della volontà divina: giudizio spettante agli dei del pantheon germanico o “Valhalla”, a cui più tardi si sostituì il Dio dei cristiani.
La risoluzione di contenziosi legali attraverso l’ordalia, nella forma del torneo all'ultimo sangue, trovò larga applicazione presso tutte le popolazioni germaniche: Goti, Longobardi, Franchi, Turingi e Sassoni sono solo alcuni tra gruppi etnici più citati. I primi riferimenti al duello come strumento di risoluzione di contese risalgono agli storici romani che, da Velleio Patercolo a Tacito, sottolinearono l'incompatibilità di tale prassi barbarica con la concezione romana dello Stato. La consuetudine del duello giudiziario, favorita dal carattere combattivo di quei popoli, a contatto con la dottrina cristiana anziché ammorbidirsi risultò ulteriormente rafforzata: il fondamento del giudizio si basava su un giuramento solenne che, invocando Dio in persona come testimone, rimetteva al suo volere non soltanto gli esiti dello scontro, bensì anche le anime dei contendenti.


La più antica, forse l’unica testimonianza di duello atavico tra eroi verificatosi nel corso dell’Alto medioevo europeo è stata identificata dallo scrivente in un episodio di apparente insignificanza, descritto nella “Storia dei Franchi” di Gregorio di Tours: correva l’anno 590 d.C., l’ultimo del regno di Àutari quando un esercito di Franchi, calati dai valichi dell’attuale Svizzera, fu arrestato presso Ponte Tresa, il cui nome da sempre indica la presenza di un passaggio per l’attraversamento di acque profonde. Qui si consumò un'ordalia tra guerrieri barbarici: un duello tra un Franco e un Longobardo, campioni scelti, a cui era stata affidata l’esecuzione del volere divino presso il confine simbolico del regno aggredito. La più antica testimonianza, invece, di un vero e proprio duello giudiziario sarebbe  riportata da Fredegario, altro storico franco, quando nel 624 Pittone, campione della regina Gundeperga figlia di Teodolinda uccise in singolar tenzone tale Adalulfo, che aveva accusato la sovrana di adulterio e tentato omicidio ai danni del re: l’esito dello scontro comportò la completa riabilitazione della regina. Poco più tardi (643 d.C), il duello per giudizio divino sarebbe stato riconosciuto per iscritto dal celebre Editto di Rotari.
La concezione alla base di tale istituto era quella, "barbarica", che vedeva i campi del diritto, tanto pubblico quanto privato,  quelli della morale e della religione come un tutt'uno inscindibile; inoltre, al culto del divino si accompagnava quello, mai sopito, della forza fisica e delle armi.
A proposito di armi è opportuno ricordare che parte dell'equipaggiamento da guerra, necessario nei secoli a venire, fu proprio introdotto nel corso dell’Alto Medioevo barbarico. Popoli nuovi, originari della steppa come gli Unni, di etnia mongolica e gli Alani e Àvari, turco-altaici, cavalieri eccezionali che passavano la maggior parte della propria vita letteralmente sul cavallo, tra il V e il VII secolo misero a ferro e fuoco prima ii confini dell'Impero romano, poi dei regni barbarici. Il ruolo primario del cavallo, che in età romana era stato impiegato in modo assai marginale e l'introduzione della staffa, sconosciuta al mondo classico e più tardi diffusa su vasta scala nell'esercito franco (VIII sec.) avrebbero pesantemente influenzato i futuri equilibri della neonata Europa. Non va nemmeno del tutto esclusa la possibilità che l'armamento da torneo del basso medioevo sia stato in parte ispirato dai catafratti (da κατά, "tutto", "fino in fondo" e φρακτός "coperto, protetto"): i primi corpi di cavalleria pesante della storia, introdotti dai persiani e ripresi dall'impero bizantino, dove il metallo proteggeva allo stesso tempo cavallo e cavaliere.



Con l'evolversi del Regno longobardo, sotto Liutprando (712-44) si cercò di  limitare il “duello di Dio” a favore delle prove testimoniali, documentali e dei conseguenti risarcimenti dei danni, già precedentemente stabilite da Rotari con l’istituto del “guidrigildo”. Gli unici due casi in cui, in assenza di prove, nell’Italia alto medievale il giudice concedeva il duello riguardavano gli omicidi commessi col veleno o a tradimento e ovviamente, il crimine più grave di tutti:  quello di lesa maestà.
Tuttavia la caduta del regno (774) e il tentativo di sostituire la classe dominante longobarda con quella franca, rimasta ancorata alle tradizioni germaniche, restituì ampia diffusione alle vecchie pratiche. Dapprima la dinastia carolingia (VIII-IX sec.), poi quella ottoniana, sassone (X-XI secc.) sostennero apertamente la necessità del "combattimento giudiziario"; al contrario, esso era disapprovato dalla Chiesa come pratica paganeggiante, sanguinaria e portatrice di faide: d'altronde i signori germanici della guerra ritenevano assai più nobile imporre i propri diritti con la spada, agli impedimenti ecclesiastici di deporre le armi pena il rischio della dannazione eterna.
Proprio a partire dai fin qui analizzati Duelli di Dio, entro i confini dell’impero carolingio dal IX secolo iniziò a svilupparsi il concetto di torneo. Derivato dalla parola francese "tourner", (roteare, girare), il torneo nacque come  sorta di “festa in armi”, comprensiva di un’ampia rassegna di esercizi militari destinati all’allenamento dei nobili di più alto lignaggio: quegli stessi nobili armati che, con la nascita della leva obbligatoria, avevano il dovere di rispondere all’adunata annuale convocata dal sovrano presso i “Campi di Marzo”.
Fondamento essenziale della società armata d’età carolingia e, di riflesso, anche del torneo era "la cavalleria": struttura militare organizzata su base gerarchica, il cui famoso e spesso mitizzato codice, prima di  vedere una forma definitiva, richiese secoli di faticosa elaborazione.
Le prime regole del torneo non sono codificate: ci si basa su un codice di comportamento desunto dalle consuetudini. Fin dalle origini i tornei videro battersi opposti schieramenti di cavalieri, in furibonda mischia entro spazi pianeggianti rigorosamente collocati all’esterno dei centri abitati, con tanto di alberi per le imboscate. Nel giorno e all’ora stabilita,  ogni cavaliere partecipante doveva presentarsi con una piccola guarnigione formata da fanti, arcieri e scudieri. Uno  schieramento era formato dai “ténants”, che avevano lanciato la sfida, un altro dai “vénants” che l'avevano accettata; ed ecco delinearsi vere e proprie simulazioni belliche, pensate allo scopo di esercitare attivamente l’arte della guerra anche durante il periodo invernale, onde evitare che i combattenti potessero infiacchirsi.



Da intendersi come dimostrazioni laiche, i tornei erano indetti allo scopo di garantire efficienza militare, ma anche come occasioni per guadagnare onori e visibilità e, di conseguenza, rinsaldare alleanze politiche tra signori feudali. Lo scopo non doveva essere quello di uccidere ma, al contrario, sconfiggere l’avversario, farlo prigioniero e costringerlo a pagare un riscatto allo scopo di aumentare il proprio prestigio personale. Tuttavia è facile immaginare come, fin dalle origini, il torneo contemplasse scontri armati con alto rischio di morte. Per quanto simulato, esso incarnava pur sempre il momento in cui scatenare liberamente l’aggressività del clan, con tutto il bagaglio di significati annessi e connessi al concetto di “battaglia rituale”: la realizzazione di un meccanismo di predazione e ridistribuzione della ricchezza, tale e quale a quanto accadeva in tempo di guerra.
Il torneo conobbe la sua età dell’oro nel XII secolo: nonostante il primato francese, con l’affermarsi di élite cavalleresche all’interno delle istituzioni cittadine esso conobbe un grande sviluppo anche in Italia, dal Nord fortemente aristocratico e feudale, al Centro caratterizzato dalla presenza di un potente ceto borghese, al Sud normanno - svevo e angioino. L’animosità, di cui il torneo fungeva da tramite, era forte; le rivendicazioni politiche fioccavano in continuazione. Il torneo, effettivamente, incarnò l’ideale valvola di sfogo per una gioventù turbolenta, pericolosamente armata fino ai denti, vogliosa di mettere in mostra la propria grandezza familiare e che, quando non aveva una guerra vera da combattere, doveva pur sempre dare prova di ciò che sapeva fare meglio: combattere.



Osserviamo alcuni episodi da vicino.
Nel 1158, nel pieno dello scontro fra l’imperatore Federico I detto il Barbarossa e il papato, i cittadini cremonesi sfidarono i piacentini col pretesto di un "turneimentum" che nella pratica rivelò essere un regolamento di conti fra città rivali con tanto di morti, feriti e prigionieri. Quando il Barbarossa passò per Faenza, espresso il desiderio di vedere in azione i combattenti cittadini dei quali aveva sentito magnificare le abilità, l’esibizione dei cavalieri locali delle loro virtù belliche, per quanto schermata dal pretesto di un torneo, finì per assumere le sfumature di un monito indirizzato il sovrano stesso.
Fu l’arcivescovo Ottone di Frisinga, nel 1157, a dare a questo genere di esercizi militari il nome esplicito di “torneo”. Tuttavia, perché tale definizione si affermasse occorsero altri decenni: basti pensare che ancora nel 1179 il terzo Concilio Lateranense, convocato da papa Alessandro III allo scopo di vietarlo, lo definì genericamente “mischia” e talvolta anche “singolare tenzone”; i cronisti inglesi, chiamandolo “conflitto gallico”, ne certificarono l’area di origine in Francia.
Tra il XII e il XIV secolo, l’assenza di regole e la violenza imperante imposero la necessità di un codice di stampo non solo militare, ma anche morale: il cavaliere avrebbe dovuto battersi con lealtà, nel nome dei più elevati ideali cristiani; soccorrere i deboli, le donne e i poveri. L'ideale del prode cavaliere e i relativi rituali come la conquista della donna amata, elementi caratterizzanti del torneo e della giostra, ispirarono ideali ben presto sublimati dalla letteratura epico-cortese, in particolare delle “Chansons de Geste”: basti pensare ai personaggi del ciclo arturiano o carolingio, come Lancillotto e Parsifal, o il paladino Orlando. Chi non si atteneva al codice d’onore sarebbe stato marchiato con l’onta della fellonia…
…ma in verità, lungi dall’incarnare il perfetto prototipo del cavaliere senza macchia dei romanzi cortesi, quante volte il codice cavalleresco sarebbe stato impunemente violato?



Per la Chiesa non fu facile tollerare lo spettacolo di cavalieri cristiani che si sfidavano, talvolta fino ad ammazzarsi per motivazioni poco onorevoli come l'amore del gioco, del rischio e del denaro; tanto meno gradì le nuove usanze dell’amor cortese, per le quali i duellanti gareggiavano in nome della loro servitù d'amore verso una dama che si concedeva come ricompensa, spesso in senso esplicitamente sessuale, al vincitore. 
Proprio nel momento in cui  la passione per i tornei iniziava a dilagare in tutta Europa, tra il 1130 e il 1131 il concilio di Clermont e quello di Reims decretarono la scomunica per i partecipanti e vietarono la sepoltura cristiana a coloro che avrebbero trovato la morte nello scontro. L'opposizione della Chiesa ai tornei, appoggiata anche, per motivi di ordine pubblico, dalle monarchie nazionali, fu perseguita attraverso una potente propaganda coltivata al fine di allontanare la classe feudale dai suoi ideali originari: i nuovi modelli proposti allo scopo di incanalare tanta violenza gratuita furono le crociate. I papi cercarono anche di imporre periodi di tregua, detti “Paci di Dio”, in concomitanza con le festività cristiane. Ciò nonostante la popolarità crescente del torneo, unita ai numerosi accorgimenti di riforma del regolamento, nel 1281 avrebbe portato la Chiesa ad abolire tali proibizioni.
In conformità con le esigenze del tempo, i tornei diventarono sempre più spettacolari e fastosi: in virtù del pubblico consenso, tra il XII e il XIII secolo essi iniziarono ad ricevere visibilità e spazio anche all'interno delle mura cittadine. Dal punto di vista pratico, il regolamento formalizzò la prassi e la regolamentò sempre più dettagliatamente: le armi da difesa e offesa, i colpi, i vestimenti, le parate, i saluti al pubblico ricevettero una codificazione sempre più complessa, legata a rigidi cerimoniali.
Ciascun cavaliere in gara veniva chiamato dall’araldo al cospetto del pubblico e dell'autorità che aveva indetto il torneo; ne venivano descritte le armi, il blasone nobiliare ed eventuali vittorie. L'esigenza di distinguersi portò alla diffusione dell’uso di colori e di emblemi sugli scudi e le gualdrappe; i cavalli dovevano essere addestrati alla giostra come in battaglia, in sintonia totale coi comandi del cavaliere.



L’incontro si svolgeva entro un recinto provvisto di un paio di ingressi, ai cui margini si accalcavano gli spettatori: frequentemente, su gradinate intorno alla tribuna centrale, nella quale prendevano posto gli ospiti d’onore e le dame. Un palco a parte era occupato dai giudici della gara, incaricati di tenere il punteggio dei colpi dati e ricevuti, di stilare la classifica finale e proclamare il vincitore. Nella prima fase della storia del torneo, lo svolgimento corretto era garantito dagli araldi stessi; in un momento successivo si costituirono apposite commissioni giudicatrici. Se la giostra si svolgeva entro uno scenario urbano, le finestre che affacciavano sulla piazza erano gremite di pubblico e addobbate con di arazzi e di fiori.
Il torneo fu, almeno fino all’affermazione di un ceto medio dotato di cospicue ricchezze, un esercizio a lungo riservato all’aristocrazia: la sola in grado di potersi permettere di sostenere gli ingenti costi che tali competizioni comportavano in termini di cavalcature, di armi e scudieri al seguito. Se nei secoli precedenti aveva prevalso l’uso della cotta di maglia ad anelli, a partire dalla fine del XIII secolo sopra l’usbergo, ossia sulla cotta di maglia completa si iniziò a indossare singole  piastre metalliche, a proteggere ulteriori parti del corpo sia del cavaliere, sia del cavallo. Gli armaioli svilupparono una particolare capacità nell’ideare singole lamine e piastre flessibili. Di conseguenza, il costo di un’armatura su misura di alta qualità era davvero notevole.
L'equipaggiamento dell'animale era comprensivo di sella dall’arcione ampio, per proteggerne il basso addome e a volte anche le gambe del cavaliere; la testiera era molto spessa e copriva gran parte della visuale del cavallo, di modo che non reagisse di propria iniziativa nello scontro.
Il torneo vero e proprio era preceduto dai preliminari o "commençailles", fatti di sfide personali e combattimenti individuali dove i cavalieri più giovani coglievano l'occasione per mettere in mostra le loro capacità. Ad essi seguiva lo scontro di tutti contro tutti, caratterizzato dalla moltitudine dei combattenti e dalle esibizioni dei cavalieri più esperti e famosi.
Nell’attesa dello scontro vero e proprio, nessun dettaglio era trascurato: prima che il cavaliere montasse e iniziasse a duellare, l’equipaggiamento veniva esaminato attentamente. I combattenti erano presentati dagli araldi; talvolta ingaggiavano gare d’insulti e giungevano perfino a invocare Dio per assicurarsi il suo favore: forse si tratta di elementi residui dell’antica ordalia, sopravvissuta ai secoli. Il premio destinato al vincitore del torneo o della giostra era un bene concreto: armi, cavalli, vesti preziose, fino  all’amore di una dama, magari da avere in moglie.
Allo scopo di limitare gli incidenti mortali fu attuata la distinzione tra tornei con armi "à outrance" o armi nude, cioè da battaglia, e armi "à plaisance", o da cortesia, ossia smussate o con la punta coperta. Anche la sequenza nell’uso delle armi prevedeva un codice di regole: lo scontro iniziava con armi lunghe come la lancia, l'asta e la zagara, funzionali a disarcionare l’avversario; seguiva il turno, forse meno spettacolare ma decisivo, del corpo a corpo con impiego di armi bianche come spade, asce, mazze. Il regolamento giunse perfino a considerare il numero di cariche a cavallo e di colpi che ciascun duellante poteva infliggere con ciascuna arma.
Un celebre esempio di cavaliere in carne ed ossa, affermatosi partendo dal nulla, fu quel Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), poi conte di Pembroke, attentamente descritto dallo storico Georges Duby: annoverato tra i più famosi combattenti noti nell’Inghilterra del XII secolo, Guglielmo iniziò la sua partecipazione ai tornei sconosciuto e povero, senza nemmeno avere un cavallo di sua proprietà, ma impressionando fin dall'inizio per la sua capacità di avere la meglio su professionisti più esperti ed equipaggiati: in onore alle sue vittorie sarebbe perfino stato dedicato un poema cavalleresco.
Ben diversa dal torneo, per quanto derivata da esso, è la giostra: la disfida tra due cavalieri che si lanciano l’uno contro l’altro. Preceduta dall’antico "hastiludium", che a partire dall'XI secolo aveva diffuso il concetto di combattimento a cavallo con la lancia, questa pratica di origine tipicamente italica accentuò la tendenza all’esibizione personale, decretandone il successo.
Fuori dal mucchio selvaggio del torneo, che in Italia era definito con l’inconsueto nome di “battagliola”, l’ideale della sfida personale lanciata a un avversario affinché la raccogliesse per non perdere la faccia diventò lo spettacolo più richiesto e più adatto ad acquisire fama, onori e ricchezze.
Approfondiamo le caratteristiche di questa nuova disciplina, originatasi nel corso del XIII secolo.



Il termine “giostra” deriva da “juxta” (vicino) e “juxtare” (da cui “giostrare”). Organizzata, rispetto al torneo, entro uno spazio più circoscritto, la giostra consisteva nel duello individuale di uomini a cavallo. Dal XV secolo, in virtù della sua maggiore spettacolarità la giostra fu consacrata come competizione di maggior successo. Apprezzata presso un pubblico sempre più ampio e variegato, essa assunse un aspetto elegante e sfarzoso, codificato da un complesso cerimoniale idoneo alla celebrazione di vittorie, ricorrenze, accordi tra signori, feste religiose ed eventi mondani: occasione favorevole all’esibizione di armature sempre più ricche e personalizzate, con bardature e colori sgargianti.
In queste occasioni i principi delle corti italiane ed europee usavano inviare in rappresentanza i cavalieri del proprio seguito, se non partecipare personalmente alle giostre; talvolta vi prendevano parte anche i capitani di ventura, approfittando dei combattimenti cortesi per dimostrare propagandisticamente la propria efficienza bellica.
Entro il recinto fu introdotta una barriera divisoria tra contendenti che esaltasse lo scontro individuale e abilità atletiche come la coordinazione e la precisione nell’uso delle armi al galoppo: lo steccato, detto “lizza”, termine derivato dall’antico tedesco, è preso in prestito ancora oggi con riferimento alla scesa in campo per qualsiasi contesa.
Essa prevedeva l’uso di uno scudo di legno rivestito di cuoio, fissato sulla piastra pettorale della corazza e di una lancia “in resta", ossia saldamente assicurata alla corazza, sotto il braccio destro, con il compito di reggere il peso e assorbire parte del colpo inferto.
Al fine di consentire al cavaliere un urto ottimale, nella giostra con divisorio era indispensabile che il cavallo fosse ben addestrato a tenere il galoppo sullo zoccolo destro, da cui appunto deriva il nome destriero. Lo scopo era quello di disarcionare l'avversario con l'urto della lancia, senza colpire l'elmo.
La lancia da cavaliere in guerra era formata da un palo di legno lungo circa 4 metri e pesante diciotto chilogrammi; il suo eccessivo ingombro ne consentiva l’utilizzo soltanto a cavallo. La consistenza più leggera delle lance da torneo, appositamente di frassino affinché si frantumassero al contatto, doveva evitare lo sfondamento dell'armatura del contendente colpito; l’elmo, della tipologia a “bocca di rana”, era costituito da una fessura a protezione degli occhi e buchi per seguire l’avversario al momento dell’impatto.  Anche con questi accorgimenti non mancarono gli incidenti;  tra i casi più celebri si annovera quello di Enrico II, re di Francia dal 1547 al 1559, che durante un torneo fu colpito ad un occhio da un frammento di lancia che in poco tempo lo portò alla morte.
Nonostante tutti gli sforzi profusi, un vero e proprio regolamento standard non dovette esistere mai, se in ciascuna edizione si potevano dettare regole diverse per rendere il torneo più spettacolare, fino a permettere i colpi proibiti. Formalmente, nel combattimento a cavallo era vietato colpire l'avversario sotto la linea della sella, così come nella fase a piedi non si poteva colpire altro che la testa o il busto; in tempi successivi si sarebbe potuto colpire l’avversario anche “sotto la cintola”. Le regole della giostra di Foligno, per fare un esempio, in quest'epoca permettevano di colpire nella visiera, nella baviera e nel petto e perfino le parti basse...




Con lo sviluppo del ceto borghese, soprattutto in Francia e in Italia, dal XIV secolo le classi sociali emergenti fecero di tutto per inserirsi nel sistema feudale; lo scopo fu raggiunto attraverso la sponsorizzazione dei tornei stessi. Le spese venivano recuperate attraverso il commercio: l'afflusso in città di spettatori e duellanti forestieri, infatti, oltre ai benefici ricavati dalla città per il solo fatto di essere sede ospitante, incrementavano i guadagni di armaioli, sellai, maniscalchi, sarti e cerusici a livelli esponenziali. Nel 1330 i borghesi di Parigi organizzano una serie di combattimenti su imitazione perfetta di quelli aristocratici e invitando a prendervi parte le città vicine, riscossero un successo strepitoso. Poco più tardi, un ricco mercante di Tournai organizzò una confraternita di trentuno borghesi ricchi quanto lui, tutti ammiratori dei romanzi del ciclo arturiano: ciascuno di essi assunse il nome di un personaggio letterario, con l’impegno di offrire a turno un banchetto domenicale a tutti gli altri. Fu così che la borghesia iniziò a vantare il diritto di avere uno stemma sullo stendardo personale, un araldo e di partecipare a tutte le cerimonie familiari e religiose degli altri: questa nuova nobiltà avrebbe presto duellato in compagnia di quella di più antiche origini, senza provocare particolari obiezioni. Dal XV secolo, a Firenze la giostra finì per aprirsi a tutti i gruppi sociali: quella del 1406 vide il premio assegnato a un mercenario sforzesco; quella del 1415 annoverò tra i partecipanti cittadini di borghesi come banchieri Bardi e Acciaioli, i Soderini che già erano nobili ma si fecero mercanti per guadagno. Lo stesso andava accadendo a Milano con i Borromeo, allora nobili da poco e neppure del tutto meneghini: passati alla storia come il casato che diede i natali a San Carlo, ai primi del '400 si trattava di una consorteria famigliare di banchieri fiorentini e padovani.
Verso il 1420 erano stati sviluppate armature a piastre complete che includevano pezzi di ricambio, a seconda delle diverse esigenze. Un’armatura completa a piastre in acciaio doveva pesare tra i 15 e i 25 chili: eppure, chi lo indossava non era del tutto impedito dal peso dell'armatura, distribuito uniformemente su tutto il corpo, dal collo ai piedi, per mezzo di un sistema di articolazioni. Il XV e il XVI furono i secoli che più di tutti conobbero armorari dotati di grandi abilità artistiche. I più abili d’Europa erano i milanesi (Pompeo della Cesa, Filippo e Giovanni  Paolo Negroli) e i bavaresi. Col termine “armi bianche” ci si riferiva a quelle di produzione italiana, innovative nell’uso di piastre a coprire quelle giunture che precedentemente erano difese soltanto dalla maglia metallica; per contro, i loro concorrenti tedeschi producevano le cosiddette “armature gotiche”, altrettanto richieste per via delle tipiche scanalature, ideate allo scopo di proteggere dai colpi. Dall’unione tra i due maggiori tipi d’armatura, quella lombarda e quella tedesca, nacque la cosiddetta armatura “massimilianea” (1514), che costituì un modello definitivo da giostra e da battaglia. Fatta risalire all'imperatore Massimiliano I d'Asburgo e realizzata dall'armoraro di Norimberga Lorenz Helmschmied, essa costituì l'archetipo per lo sviluppo delle successive armature a piastre d’età rinascimentale (XVI secolo). Alla fine del '400, proprio l'imperatore Massimiliano I d’Asburgo si era personalmente impegnato nel perfezionamento della tecnica, al punto da essere soprannominato "l'ultimo cavaliere".




A tal riguardo è doveroso citare il “Freydal”, manoscritto con disegni e annotazioni sui sessantaquattro tornei a cui Massimiliano aveva preso parte. Le nuove forme di torneo ed equipaggiamento sportivo a cui l’imperatore Massimiliano diede vita avrebbero fatto nascere i ben noti luoghi comuni moderni sulla pesantezza o goffaggine delle armature “medievali". Nel frattempo si mosse anche l’Inghilterra: l'armatura di Greenwich, voluta da Enrico VIII, fu realizzata da un laboratorio reale inglese che aveva ai suoi servizi artigiani italiani, fiamminghi e tedeschi. Un altro modello, più attardato, legato al nome di Massimiliano II d'Asburgo, ultimo grande committente di armatura scanalate (1557) delineò in  maniera definitiva la supremazia del “design italiano” nelle armature da parata.
In epoca tarda la giostra si sarebbe trasformata in una sorta di esibizione dove atletismo e coraggio contavano sempre meno. Tutta l’attenzione ricadde sulle elaboratissime armature da parata, ideate da veri e propri artisti specializzati. Il tripudio di tessuti e gioielli, di stemmi e imprese cavalleresche, nel Rinascimento tramutò la giostra in vera e propria “sfilata di moda”. Nel XVII secolo il cavalier Marino, famoso poeta barocco, si soffermò ironicamente su un gruppo di cavalieri italiani e stranieri protagonisti di un torneo che agghindati, luccicanti e truccati non avevano più nulla a che spartire con ii loro predecessori; nel famoso don Chisciotte a sua volta, lo spagnolo Cervantes, descrivendo le tragicomiche disavventure di un vecchio hidalgo decaduto, descrisse il definitivo tramonto di un’epoca: la fine della cavalleria, dei tornei, delle imprese, della giostra.
L’eredità del torneo sarebbe dignitosamente sopravvissuta come tradizione nell’ambito di ricorrenze e festività tipiche di molti centri storici, fortemente legati al loro passato. È il caso, tra gli altri, della Giostra della Quintana di Ascoli Piceno: rievocazione storica medioevale con giostra equestre che si svolge la prima domenica di agosto in occasione della festa di Sant'Emidio, patrono e primo vescovo della città marchigiana.



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