“A fronte praecipitium, a tergo lupi”,
cita un antico proverbio latino, ossia "un precipizio davanti, i lupi alle
spalle". Questo e altri motti ci riportano ad una delle più grandi paure
dell'uomo medievale: quella del lupo. , Si tramanda che il predatore, favorito
da inverni eccezionalmente rigidi, assalisse le greggi e i pellegrini in viaggio;
talvolta, spinti dalla carestia, i branchi si spingevano fino ai monasteri e
alle città: ed eccoli, soprattutto nelle cronache basso medioevali, penetrare
furbescamente attraverso le mura, per
insanguinare le stalle e "portare via" perfino gli infanti
dalle culle!
Non troppo diversamente da oggi, la
notizia di un uomo sbranato da una bestia selvatica tendeva a dipingere
quest'ultima come una creatura fuori dal
comune: i "misfatti" del lupo, per sua natura cacciatore, correndo di
bocca in bocca tendevano a ingigantirsi fino all'esagerazione grottesca: la
fama sinistra dell'infallibile
cacciatore antropofago, demoniaco portatore di morbi e messaggero di sciagure,
iniziò ben presto a fare del lupo il protagonista di leggende e note favole del
folklore europeo. Imbattersi nei temuti canidi selvaggi, nel medioevo, doveva
essere indubbiamente facile: certamente più usuale di un incontro, pressoché
impossibile, con l'esotico leone e altre belve mostruose dell'imaginario
medievale, scolpite nelle basiliche del XII-XIII secolo. Il lupo,
semplicemente, abitava in quegli stessi boschi e montagne che l'uomo, costretto
a confrontarsi quotidianamente con la natura, tentava faticosamente di
addomesticare: ed ecco emergere, nel colono medievale, sentimenti di paura
rivolti all'ignoto. Una paura che, nonostante tutto, non era affatto
ancestrale: anzi, tra le altre cose fu alimentata a tavolino dalla Chiesa, per
dissuadere gli uomini dal ritorno ai culti pagani di tipo "totemico".
Il primo a violare questo rapporto di antico e delicato equilibrio simbiotico
fu Carlo Magno: nel suo celebre "Capitulare de Villis", all'alba del
IX secolo si nominavano appositi funzionari per la caccia al lupo, detti
“lupari”. Duecento anni dopo anche re Berengario II e numerosi vescovi si fecero
promotori di grandi battute di caccia "per salvaguardare la
popolazione" o meglio, i loro allevamenti.
"Ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi"
esclamò Cristo, anticipando un concetto espresso da molti teologi tra
Tardoantico e alto medioevo, Sant'Ambrogio in primis. Papa Gregorio Magno, in
una lettera della fine del VI secolo indirizzata al basileus Maurizio di
Bisanzio, specificò che "stiamo nella Chiesa, eppure non miriamo che alla
grandezza; non siamo i dottori ma i duchi della superbia; sotto l'aspetto di agnelli
nascondiamo denti di lupo" (Reg. V, 37)
Queste e numerose altre profezie provano
come la mentalità del tempo, attraverso il confronto con i cosiddetti
"bestiari moralizzati", miniati e successivamente scolpiti nella
pietra, non intendesse soltanto condannare il lupo inteso in senso stretto, ma
anche salvaguardare simbolicamente il fedele dai suoi stessi simili che
presentassero connotati bestiali e "anticristiani": i pagani, gli eretici, i ladri e gli
assassini.
Eppure, se i casi in cui i santi addomesticarono
i lupi erano così famosi, tale guerra doveva ipoteticamente essere destinata a
finire. Francesco d'Assisi, ultimo di una lunga serie di santi (l'anatolico
Biagio, sant’Amico, sant'Anselmo da Padova, san Colombano) é anche il più
celebre: forse che anche l'episodio
della sua abilità nel persuadere il lupo di Gubbio a non commettere più
scorrerie nel territorio andasse interpretato come "exemplum",
parabola di vita indirizzata a un predone redento?
"Ferocissimus, atrocissimus
ursus!"
Giacché Nell'antico Testamento il
profeta Amos soleva osservare “come quando uno fugge davanti a un leone e si
imbatte in un orso” nemmeno l'orso, nell'immaginario medievale cristianizzato,
se la sarebbe passata meglio. Nelle
Sacre Scritture, infatti, non vi era belva che fosse in grado di competere con
esso in quanto a violenza.
“Come un'orsa privata dei figli” era
un'altra metafora significativa di una violenza che, una volta scatenatasi, non
poteva più essere contenuta.
Ancor più dell'incontro col lupo, quello
con l'orso infuriato rappresentava per l'uomo medievale la peggiore di tutte le
esperienze: solo i grandi eroi, protetti da volere divino, potevano misurarsi
con questa bestia, incarnazione dell'ira, e uscirne vincitori.
Oltre alla mole colossale, agli artigli
e alle zanne, nell'ottica del tempo la caratteristica che rendeva l'orso
inquietante era la capacità di alzarsi su due zampe e combattere in posizione
eretta: in tal modo la fiera assumeva sembianze grottescamente umanoidi, che
gli valsero l'accusa di volersi innalzare al livello morale dell'uomo ad
immagine e somiglianza di Dio: creatura iraconda, pigra, golosa e invidiosa, il
plantigrado era accusato e perfino di
rapire fanciulle allo scopo di violentarle.
Fu così che domare un orso e incatenarlo
diventò metaforicamente l'atto del dominio
sugli istinti e le tentazioni peccaminose: ed ecco fiorire tradizioni moraleggianti che vollero
orsi domati e quasi ridicolizzati. Per penitenza, san Marino impose a un orso il lavoro alla macina, al
posto dell'asino che aveva divorato: in
questo modo la natura selvaggia e "pagana" della fiera veniva
simbolicamente esorcizzata.
Più rispettoso é l'episodio di San
Colombano, che vivendo con gli orsi e
condividendo il cibo con essi ricorda il paradigma, scordato dai più, di un'epoca antica di convivenza
pacifica tra uomo e natura.
Eppure, prima che fosse rimpiazzato
dall'esotico leone, ai signori medievali e ai cavalieri in araldica longobarda
e carolingia non dispiacque mai il blasone dell'orso, né le sue caratteristiche
di forza e imponenza, tant'è che nel mondo celtico e germanico e il fiorire di
nomi ad esso riferiti, come Bernardo e Artù, e di città, come Berna. Ancora una
volta, i timori quotidiani dell'uomo comune
si rivelarono generati dall'uomo stesso.
QUANDO L'EROE SI ANIMALIZZA.
”Ora lotta coi draghi e coi lupi, ora
con tori, con orsi e cinghiali e giganti che dagli alti dirupi lo inseguono”.
(Beowulf). La presenza dell’orso e del lupo, compagni di viaggio dell'uomo fin
dalle radici della cultura preistorica ha generato miti, leggende, rituali e
fiabe. Inseguire le fiere nella solitudine della foresta spesso portava gli
eroi a diventare come loro. Il rapporto ambivalente tra uomo e lupo ha radici
antiche; accanto alla paura, infatti, conviveva l'ammirazione per quelle
caratteristiche di cacciatore imbattibile che resero il lupo animale totemico
per eccellenza dei popoli barbarici.
Anche l'orso, prima dell'avvento del
cristianesimo, possedeva valenze positive come simbolo di forza e generosità:
il guerriero le ereditava da antenati o parenti adottivi dai tratti ursini,
oppure li acquisiva attraverso uno scontro simbolico con la bestia stessa. In
entrambi i casi, prima che fosse sostituito dall'emblema del leone, fu proprio
il legame con l’orso a rendere un uomo
degno di essere un re.
Presso le popolazioni guerriere
germaniche e scandinave in cui era sopravvissuto qualche residuo di
sciamanesimo, vi erano gruppi di guerrieri scelti che andavano in battaglia
vestiti di pelli animali. I primi si chiamavano úlfheðnar (pelli di lupo),
berserkir i secondi (pellicce d'orso): entrambi i gruppi erano accomunati da
uno stato di trance forse generato da un
mix di birra e sostanze allucinogene e psocotrope (fungo "amanita muscaria",
digitale) che, rendendoli particolarmente feroci e insensibili al dolore, ne
faceva nemici pressoché invincibili.
I longobardi non temevano i lupi,
anzi: destinare ai propri figli nomi
totemici di lupi a scopo protettivo e scaramantico (Aginulf, Adalulf,
Hrodulf...) significava porsi sotto la protezione dell'animale più
venerato. Spesso gli arimanni o uomini
liberi del clan, legittimati all'uso delle armi, usavano riunirsi in un cerchio sacro detto
"wulfhrings": il recinto del lupo. Queste consuetudini
"ferine" darebbero state confermate dallo storico longobardo
cristianizzato Paolo Diacono (VIII-IX sec.) a proposito dei cynocefali:
guerrieri "testa di cane", intruppati tra le schiere dei suoi
antenati agli albori della loro storia.
"Allora la testa del gigante Mimir
pronunciò le rune possenti. Disse che erano incise sullo schermo posto a scudo
del sole splendente, sul trono di Odino, sugli artigli dell’orso, sulle grinfie
del lupo, sul becco dell'Aquila...(...)"
LA CARNE DELL'ORSO: IL BANCHETTO DEGNO
DI UN RE.
"Vi cibate con la carne delle
fiere. Lupi e orsi che non hanno ancora digerito carni umane, cinghiali che si
sono bagnati nel sangue degli uomini che hanno dilaniato. Cannibali!
(Tertulliano, Apologetico)
Alle origini l’orso suscitò
un'impressione tale da essere considerato alla stregua di una divinità e di uno
spirito benefico: il plantigrado era considerato un messaggero degli dei,
inviato dall’aldilà per dare stagione
favorevoli e caccia abbondante. Esso era venerato...e anche...mangiato! Il suo
sacrificio era una cerimonia di venerazione e la sua uccisione rituale
incarnava l’ostacolo che il cavaliere più coraggioso doveva superare per compiere la sua missione più eroica.
La carne d’orso veniva presa in
considerazione ancora nel basso medioevo
ma si avverte che è pesante da digerire, nuoce al fegato e alla milza,
contiene molte scorie, toglie l’appetito e provoca senso di nausea in chi la
mangia.
M. Montanari - Il bosco nel Medioevo
Gregorio Magno Storie di santi e diavoli
Cattabiani
Frigerio
Julien Ries)
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