Coperchio piceno con guerrieri intorno al totem da S.Severino Marche Museo Archeologico di Ancona |
"I Piceni sono giunti qui dalla Sabina, sotto la guida di un picchio che indicò il cammino ai capostipiti. Da ciò deriva il loro nome: essi infatti chiamano "picus" quest'uccello, e lo ritengono sacro a Marte." (Strabone. Geografia, 5,4,2).
La storiografica antica vuole che l'epopea dei Piceni, popolo
attualmente messo in luce più dai preziosi ritrovamenti archeologici che dagli
studi tradizionali, fosse inaugurata in tempi remoti sulla scia di ondate migratorie, cicliche e ritualizzate, conosciute con
il nome di "Primavere Sacre": spedizioni militari le cui origini
discendono da un retaggio culturale indoeuropeo tanto arcaico, quanto condiviso
da numerosi popoli del passato.
Sotto la guida di sciamani, abili interpreti dei fenomeni
naturali, alla fine dell'Età del Bronzo nuclei famigliari consacrati agli dei
si spinsero alla colonizzazione di terre lontane. É remoto il tempo in cui,
dall'età del Bronzo, mutamenti climatici e altre circostanze avverse,
credibilmente, costrinsero intere tribù di origine osco-umbra, forse
ascrivibili al popolo dei sabini, a spostarsi da un entroterra appenninico
divenuto gelido e improduttivo verso est. La scoperta di uno spazio geografico
fertile definibile come "medio Adriatico", sito in prossimità dei valichi
montani più battuti e di un mare ricco di risorse e relativamente calmo, a più
riprese spinse il "Popolo del Picchio", verso la sua terra promessa:
ampio spazio geografico circoscritto tra i fiumi Foglia (Pesaro) e Aterno
(Pescara), delimitato ad ovest dall'Appennino e bagnato a est dalle coste
adriatiche, il territorio definito "piceno" comprendeva non solo le
odierne Marche, bensì anche l'Abruzzo settentrionale. L'occupazione delle nuove
terre e la convivenza tra numerosi popoli, suddivisi su base clanica e distinti
dal punto di vista linguistico, etnico e culturale non dovette essere facile:
da sud spingeva il gruppo degli Iapigi che includeva i Messapi, i Peucezi e i
Dauni; la compagine dei sabellici, invece, a nord inglobava i Frentani, i
Marrucini, i Vestini, i Pretuzi...e i Piceni. Questi ultimi pare costituissero
l'entità culturale più consistente e definita del proprio gruppo di
riferimento.
Vaso multiplo da Grottazzolina e pettorale da Monteprandone (Ancona, Museo archeologico delle Marche) |
Piceni: "pikenes",
"Pikenói" (cit. Tolomeo), "Peuketetieis"
da cui picentini (cit. Strabone). Essi stessi, alludono le iscrizioni di Penna
Sant'Andrea, (Museo Nazionale di Chieti), si sarebbero definiti "Púpúnís". Lo storico
Plutarco, inoltre, definì l'area del Piceno con il termine inedito di
"Picenide", a identificare definitivamente la maggior parte dei suoi
abitanti come "Piceni" ossia un insieme di popoli accomunati dalla
stessa koiné che, dopo aver occupato
il medio Adriatico, diedero vita a numerosi centri organizzati su base tribale:
centri che, che pur costituendo all'occorrenza compagini confederate, non giunsero
mai a costituire un'unità culturale, tanto meno una vera capitale.
Dall'VIII secolo a.C. in poi siti maggiori come Ancona,
Numana, Novilara, Porto Sant'Elpidio e Cupramarittima, posti nelle Marche
settentrionali e prevalentemente nei pressi del mare, sfruttavano approdi
sicuri, protetti dalle incursioni piratesche e dalle paludi malariche.
Nell'entroterra, a ridosso dei valichi appenninici sorgevano Fabriano, San
Severino Marche e Serravalle. Queste popolazioni guerriere d'origine
appenninica portarono con sé antiche tradizioni religiose di stampo
matriarcale, a cui sarebbero rimaste fedeli fino all'inevitabile
sovrapposizione e assorbimento da parte degli dei del pantheon greco-romano.
I Piceni, come i Celti, usavano celebrare i loro dei in
comunità, presso spazi aperti: la presenza di luoghi di culto è testimoniata
dal ritrovamento di depositi votivi presso boschi sacri, cime montuose,
sorgenti, grotte e laghi. Nell'area dell'attuale cittadina di CupraMarittima
sorgeva un importante santuario, tra i più antichi depositi votivi delle
Marche: quivi, dove i fedeli depositavano statuine bronzee e lignee
raffiguranti offerenti e dei, collanine composte da parti anatomiche in argilla
ad uso di ex voto si adorava Cupra, dea madre umbra e picena, protettrice dei
raccolti dai flagelli della natura. La dea Angizia, anch'essa legata ai culti matriarcali neolitici,
era venerata in un santuario situato in un bosco sacro presso le rive del lago
Fucino; Cutilia, dea della guerra, era omaggiata su un’isoletta galleggiante.
Spada con impugnatura a spirali e pettorale dal Piceno (Arheološki muzej, Zadar - Zara) |
A proposito di sciamanesimo, un attenzione tutta particolare
va dedicata al coperchio bronzeo da san Severino Marche: spazio digradante di
forma circolare, con un palo totemico al centro, teste di animali a sporgere e
tutt'attorno quattro guerrieri itifallici danzanti. Muniti di lance, archi,
scudi ed elmi greci dai lunghi cimieri, status symbol da ostentare, le figurine
fluttuano in una danza estatica, quasi tribale. Uno di essi, armato soltanto di
un pugnale, solleva le braccia all'indirizzo del totem. È lui lo sciamano,
propiziatore della danza rituale: una danza di guerra.
L'epopea dei Piceni, ripartita dagli studiosi in sette fasi
archeologiche tra il 900 al 268 a.C., visse la sua età dell'oro tra la metà
dell’VIII e la fine del VI. Proprio questo lasso di tempo, che per certe
culture d'ambito settentrionale (Golasecca) è classificato senza soluzione di
continuità come "Età del Ferro", nel caso dei popoli italici è
chiamata “Etá Orientalizzante". Solo allora, quello che in origine era
stato un popolo tra tanti parve predestinato al dominio sull'Italia centro
orientale, nel nome del culto degli antenati e della guerra.
Guerra: come nel caso dei popoli celto-liguri stanziati a
cavallo tra Alpi e pianura Padana, dovette trattarsi più di una sorta di guerriglia
tribale, caratterizzata da brevi incursioni, scontri rituali e imboscate aventi
come scopo il dominio sulle terre conquistate e l'imposizione di pedaggi lungo
i valichi di propria pertinenza.
Osservando i caratteri di una cultura che impiegava la
scrittura solo saltuariamente, lo studio delle necropoli al fine di ricostruire
usi e costumi del passato riveste un ruolo fondamentale. La memoria degli
antenati, guerrieri eroicizzati che tra l'VIII e il VI secolo fecero la fortuna
dei clan più importanti, era esaltata da grandi sepolture colme di ricchi
corredi in bronzo qualificati da uno spiccato gusto estetico e decorativo:
spade, schinieri anatomici ed elmi di svariato genere per gli uomini;
pendagli-pettorali, armille, monili, fibule, collane d'ambra e orecchini di
conchiglia per le donne.
Il decoro degli oggetti rinvenuti nei corredi funerari piceni
ostenta numerosi simboli, portatori di valenze religiose e apotropaiche. Il
motivo più ricorrente è quello ad anatrelle: i volatili, intermediari tra cielo
e terra, si presentano come sagome stilizzate, aggettanti su vasi ceramici e su
pettorali in lamina di bronzo. A questi oggetti preziosi, il cui significato
affonda nel cuore dell'età del Bronzo danubiana e centro europea, si assommano
tipiche forme ceramiche locali come tazze biansate, a tre braccia e prodotti
d'importazione: situle bronzee di manifattura etrusca, veneta e pissidi in
avorio di provenienza mediorientale delineano chiari indizi, fondamentali per
la comprensione di uno stile di vita sociale privilegiato, attribuibile a
un'aristocrazia di stampo principesco. Questo periodo, caratterizzato dallo
sviluppo della metallurgia, attestò uno slittamento dei piceni verso nord, dove
il ritrovamento più importante è quello della necropoli di Novilara.
"Quando respiro e
vita lo avranno lasciato, manda Thanatos con il dolce Hypnos, che lo portino in
Licia: nel grande paese dove famigliari e amici amici gli renderanno l'onore
della tomba e della stele: perché questo è il privilegio dei morti" (Iliade,
16, 458).
Il ruolo di spicco occupato dalla guerra nell'ambito culturale
piceno traspare non solo dalla tipologia degli oggetti deposti, ma anche dal
manifestarsi di forme di scultura in pietra di grandi dimensioni: la forza
espressiva della testa del guerriero di Numana, piuttosto che la descrizione
minuta e realistica della celebre statua conosciuta come "il guerriero di
Capestrano", dall’armamento da parata elaborato e prestigioso, insieme
all’epigrafe incisa sul retro:
"MAMA KUPRí KORAM OPSÚT ANI{NI}S RAKINEL?ÍS?
POMP?[ÚNE]Í", il cui significato letterale è stato interpretato come
"La mia bella immagine la fece (lo scultore) Aninis per il re Nevio
Pompuledio". L'anatomia del guerriero, pur non definita come nei coevi
kouroi greci, curatissima nei dettagli del kardiophylax,
del cinturone e degli schinieri a proteggere, rispettivamente, petto, ventre e
gambe, con copricapo a disco ad alludere forse ad un elmo da parata, è tesa a
sottolineare il rango, nonché l'autocoscienza del personaggio immortalato. Proprio
nel periodo di massima floridezza, tra il VII e il VI secolo a.C i Piceni
adottarono la scrittura tramite un alfabeto greco mediato dagli etruschi. Le
epigrafi su pietra, riportanti il nome dei defunto e alcune notizie del clan di
appartenenza, tramandano pochi ma preziosi concetti, per favorire le attività
commerciali e organizzare la vita nei primi centri urbani.
L'alfabeto sud piceno è una denominazione convenzionale data a
un gruppo di iscrizioni dedicatorie e celebrative databili tra il VI e III
secolo, incise su stele e cippi in un’area compresa tra il corso dei fiumi
Chienti a nord e Sangro a sud.
Dal V secolo l'influsso dei coloni greci ampliò gli orizzonti
commerciali e culturali dei Piceni; dal IV secolo, il contatto diretto con le
tribù galliche calate da nord portò nuovi impulsi dal punto di vista dell'arte
della guerra. Eppure, proprio a partire da questa fase, detta
"greco-ellenistica", per i Piceni ebbe inizio la fase della crisi e
della decadenza: essa maturò con la spinta colonizzatrice dei Romani nei quali,
inizialmente, i Piceni trovarono dei validi alleati contro le tribù avversarie:
nel 295 a.C la battaglia di Sentinum (presso Sassoferrato) portò le legioni
romane, sostenute dai Piceni e dai Lucani, alla sconfitta della "Lega Italica"
costituita da Galli, Umbri, Sanniti ed Etruschi. Alla vittoria seguí
l'annessione a Roma dell'Italia centrale; fatta eccezione per le città alleate
Ancona, divenuta colonia greca, e per Asculum, (l’odierna Ascoli Piceno), nuova
capitale picena, tutto il territorio fu annesso dai Romani che vi fondarono
numerose colonie tra cui Hatria, Firmum Picenum (Fermo), Castrum Novum Piceni
(presso Giulianova), Potentia (Potenza Picena) e Auximum (Osimo). La tardiva
rivolta degli ascolani (268-8 a.C) portò alla violenta sottomissione e
deportazione in massa delle popolazioni picene verso la Campania: di
conseguenza, l'area compresa tra Salerno e il fiume Sele avrebbe preso il nome
di "Ager Picentinus":
formalmente, la storia dei Piceni termina qui. Cessate le ostilità, con il
declino del mondo etrusco e la perdita d'importanza dell'aristocrazia guerriera
di stampo arcaico, nuove categorie sociali di mercanti e artigiani del sud
Piceno si avviavano ad acquisire un sempre peso economico all'interno del
sistema burocratico romano.
L'ultima scintilla d'orgoglio di questo grande popolo sulla
via del tramonto prese fuoco in occasione del rifiuto di assegnare ai federati
italici il diritto di cittadinanza romana: il teatro dei disordini fu proprio
il foro di Ascoli, dove nel 91 a.C., il massacro di un pretore, un legato e di
tutti i Romani residenti in città portò alla creazione di una nuova e massiccia
coalizione tra Piceni, Sanniti, Irpini, Lucani, Vestini, Marrucini, Peligni e
Frentani. La "Guerra Sociale", detta anche "Guerra
Italica", ebbe inizio. Dopo sei mesi di successi da parte della
coalizione, forse con il risultato di dividere i rivoltosi Roma concesse la
cittadinanza agli italici che non si erano ribellati e a quelli che avrebbero
deposto le armi. Nonostante la guerra di protraesse per altri due anni, i
Romani dovettero concedere la cittadinanza ai popoli ribelli.
PICENI, CELTI, ETRUSCHI: METALLURGIA E ARTE DELLA GUERRA.
Elmi Negau da Montelparo, Montepenna (Ancona), corredo piceno dal castello di Offagna e tipologia elmo Negau originaria (Zagreb, Arheološki muzej) |
Nella regione coincidente con la presenza della cultura
picena, tra Marche e Abruzzo, i depositi
minerari sono di scarsa entità. Pur essendo l’area adriatica praticamente priva di risorse
minerarie, essa ha restituito alcune tra le più antiche produzioni
metallurgiche nella Penisola. L’esistenza di officine fusorie per la produzione
di manufatti di bronzo è attesta a partire dall’Età del Bronzo Medio; tuttavia
è la notevole vitalità dell’industria metallurgica etrusca a tramandare a
quest’area la diffusione e circolazione del metallo.
Nel complesso bisogna sottolineare che, nonostante la
vicinanza con le colonie magnogreche, i guerrieri piceni preferirono scegliere
i loro modelli di corredo militare più tra quelli etruschi e celtici.
Il costume di deporre armi di difesa, in particolare elmi,
nelle tombe dell’aristocrazia guerriera , fece la sua comparsa in Italia a
partire dal IX secc a.C. La si ritrova dapprima in Etruria, dalle sepolture di
guerrieri di cultura villanoviana fino ai corredi d’età orientalizzante (VII
sec a.C). Queste tipologie servirono da imprescindibile modello per le tribù
picene stanziate nella fascia adriatica dell’Italia centrale: proprio nel VII
secolo fece la sua comparsa una tipologia di elmi a calotta composita, di tipo
italico, che dal centro della Penisola si diffusero verso nord, fino in
Lombardia (civiltà celto-ligure di Golasecca) e nell’area alpina orientale
(civiltà paleoveneta): ed ecco che possiamo vedere come i mstallurgi piceni
svolgessero un ruolo di mediazione tra la raffinata cultura etrusca e le tribú
celtiche d’area alpina (cultura celtica di Hastatt).
Eppure in Piceno non si praticava solo l'esportazione di elmi
verso nord, bensì anche l'importazione: tra i modelli più apprezzati
provenienti dall'area halstattiana si ricorda l'elmo a tesa, di “tipo Negau”,
con calotta ad unica lamina, dal nome di del sito sloveno che li rese noti: più
affusolati, meno penetrabili e tali da deviare i colpi più facilmente, gli elmi
"Negau" entrarono molto
presto a far parte dell’armamento standard etrusco ed italico, anche nelle
varianti “Belmonte”, “Volterra” e "Vetulonia", con borchie semisferiche,
corna stilizzate aderenti alla calotta e perfino motivi decorativi finemente
incisi. Anche le armi da offesa, come le spade corte ad antenne, che poi tesero
ad allungarsi, rivelano scambi e contatti profondi con le culture d'area
alpina: tipica, poi, la consuetudine di piegare la lama per renderla
inservibile e dedicarla ad un eroe caduto o agli dei, per gettarla in uno
specchio d'acqua consacrato agli dei.
Le lame si evolvono, assumono la lunghezza di quasi due piedi,
diventano bitaglienti: la tendenza a colpi ampi e di fendente si conferma con
l’adozione della “machaira”: pesante
spada in ferro a lama arcuata, contraddistinta
fino in punta da una forte costolatura. Con le nuove
invasioni, dal IV secolo la panoplia picena sarà quasi completamente
influenzata da quella gallica: significativa è la tipologia d'elmo con spigolo
sommitale, paranuca e para guance mobili di forma trilobata (Tipo Montefortino,
Arcevia): una tipologia presto diffusissima, presto adottata in pianta stabile
dall'esercito romano con il nome di elmo "gallo - romano".
PICENI E GRECI: NAVIGAZIONE E COMMERCI
Già dall’VIII sec a.C i Greci dell’Eubea conoscevano bene
l’Adriatico, tanto da fondarvi una serie di empori. La stele figurata di
Novilara testimonia la penetrazione commerciale greca in Adriatico fin dalla
seconda metà del VI sec a.C e la crisi dei rapporti tra le due sponde
marittime: i popoli rivieraschi dovettero scegliere se trasformarsi, come gli
Illiri, in pirati, o come i Piceni, in alleati dei Greci.
L'abitato di Novilara era situato proprio sulla grande rotta
battuta dai Greci diretti agli empori del delta del Po. Sulla stele di Novilara
una snella imbarcazione da guerra picena scorta e difende una nave oneraria
greca in fuga, piazzandosi di fronte a una terza imbarcazione: si tratta di un
vascello pirata, probabilmente illirico. In questo modo, sulla pietra, il
"principe - navarca di Novilara" ha immortalato la sua impresa presso
i posteri.
Nel frattempo, sulla terraferma i Piceni avevano introdotto
anche la panoplia, ossia il corredo degli opliti greci: un fenomeno che, pur
attestandosi precocemente, a partire dalla metà de VII sec a.C, non sembrò
influire significativamente sulla tattica militare, o con eventuali
implicazioni di carattere socio-politico diverse dalle summenzionate esigenze
di ostentazione di prestigio, tipiche delle élites guerriere.
D'altra parte ricordiamo che proprio a partire da questa fase,
detta "greco-ellenistica", per i Piceni ebbe inizio la fase della
crisi e della decadenza. Se le invasioni di campo nel medio Adriatico da parte
dei temuti e barbarici Galli, mitizzati quanto demonizzati dalla letteratura
classica come ferini e bestiali, furono essenzialmente e proprio come i Piceni
"entità migranti in cerca di una nuova patria", non si può dire lo
stesso per i greci e i romani, le cui culture portarono con sé dapprima i germi
del colonialismo e della talassocrazia, infine dell'imperialismo più coatto e
livellante.
Mappa dell’Italia dopo la romanizzazione |
B. Carfagna. I Piceni. Capponi editore, 2016.
L. Antonelli. I piceni. Da “Genti e province d’Italia nr.3.
L’Erma di Bretschneider, 2003.
A. Naso, i Piceni. Storia e archeologia delle Marche in epoca
preromana. Longanesi
Eroi e Regine. Piceni popolo d’Europa. Editore de Luca
Cappelli, G. Vico.
I piceni. Il primo millennio a.C tra i fiumi Foglia e Sangro.
La Musa, 2014
I Piceni. Popolo d’Europa. Ed. De Luca, 1999
Il guerriero di Capestrano e le iscrizioni paleosabelliche, in
«Pinna Vestinorum e il popolo dei Vestini» a cura di L. Franchi dell'Orto,
Roma: L'Erma di Bretschneider 2011.
G. Canestrelli, i Celti e l'arte della guerra , Il Cerchio,
2010.
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