domenica 24 luglio 2016

Castelseprio: remota fortezza a cavallo tra due mondi


Le nobili vestigia di Castelseprio, con la loro storia millenaria, costituiscono un luogo di irripetibile rilievo storico e artistico. Rasa al suolo da numerose e terribili vicende storiche che ci appresteremo a narrarvi, l’antica “Castrum Sibrium” non va visitata come un qualsiasi castello, bensì come un fantastico parco archeologico all’aria aperta.
Nel IV e V secolo, sotto l’impero Romano e poi Bizantino, Castelseprio era un accampamento militare situato tra Lario e Verbano, lungo la direttrice Como - Novara, posto a difesa delle scorrerie dei barbari provenienti da nord. Nel 493 una grande calata di Ostrogoti (ossia Goti dell’est), uniti in confederazioni sotto l’autorevole guida di re Teodorico, portò quest’ultimo ad assumere il controllo della Penisola per mezzo secolo. Divenuta una grande fortezza gotica, l’Italia si trovò inaspettatamente a vivere un breve e quasi utopico periodo di prosperità e pace tra rudi barbari e raffinati latini: ai primi spettavano le attività legate alla guerra, ai secondi l’amministrazione del regno. Tutto ciò accadde prima della riconquista dell’imperatore Giustiniano: la Guerra Greco-Gotica, che produsse un vero e proprio conflitto “mondiale” di durata quasi ventennale (535 – 553) che coinvolse le terre dell’attuale Italia, Francia, Spagna e dell’Africa settentrionale, portandosi dietro carestia e pestilenza.



Con l’avvento dell’aquila doppia di Costantinopoli, decaduta Roma la storia diede corso a un impero orientale e cristiano dove la lingua greca costituiva la principale parlata internazionale. 
Nelle foreste del medio Varesotto si edificò un primo “castrum” forse cinto di palizzate lignee, sul quale incombeva un paio di alte torri d’avvistamento: le fondamenta delle due torri di nord-est e di nord-ovest, non facenti parte della cortina muraria bensì interne all’accampamento. Queste, insieme alla grande cisterna e alla torre-dimora, fanno parte dei resti sopravvissuti della struttura tardoantica, originaria della fase iniziale di sfruttamento della collina come presidio armato. Le ipotesi sarebbero state avvalorate dai preziosi ritrovamenti monetali ritrovati in corso di scavo: il “follis” di Massenzio (306-12) emesso ad Aquileia e un soldo bronzeo dei Costantinidi (339), rinvenuti nell’area davanti alla Basilica di San Giovanni. Le due monete costituiscono le prove della presenza di un presidio già attivo nella prima metà del IV secolo, testimoniano l’importanza militare dell’area. Ad essi si aggiunge un “tremissis” aureo di Giustiniano, a simbolo della la presa di potere dei bizantini nell’area.


La consuetudine bizantina di costituire armate miste ci porta con l'immaginazione all’occupazione del castrum da parte di soldati delle nazionalità più disparate: lancieri siriani, feroci mercenari isaurici provenienti dall’Anatolia con gli archi stretti tra le mani ruvide e astuti armeni dagli occhi truccati di nerofumo. L’imperatore pagava le sue eterogenee milizie, e pure profumatamente. Quando ciò non accadeva scoppiavano violente e sanguinose sommosse: cosa che nella storia dell'impero Bizantino accadde assai spesso...


Oggi le fonti concordano nel ritenere i cosiddetti “secoli bui” del Medioevo come un prodotto di questi eventi: l’effimera deposizione di Romolo Augustolo (476), sovrano fantoccio di un regno già morto, costituì un evento tuttalpiù simbolico.




Le mute pietre di Castelseprio, con la loro storia, testimoniano di riflesso i disordini di quell’epoca: ottenuta una cruda vittoria; i bizantini riadattarono il castrum a vero e proprio sbarramento, al fine di arginare le incursioni dei Franchi: popolo germanico che, occupata Curia Raetorum (l’attuale Coira, in Canton Grigioni) iniziava a puntare all’Italia attraverso il valico svizzero del Lucomagno. 

Poi, inaspettatamente, il più feroce popolo germanico del tempo entrò a forza nella storia col ruolo di protagonista: tribù inquiete di Longobardi (le “Lunghe Barbe”) agli albori del Medioevo tracciarono per la prima volta i confini geopolitici della Lombardia e del resto d’Italia, costituendo un primo e parziale abbozzo di “unità nazionale”. Forti di 150.000 spade ai comandi del leggendario capoclan Alboino e del sostegno di numerosi altri popoli sconfitti e inglobati nell’orda, i nuovi arrivati calarono con carri e famiglie nel cuore economico dell’Italia bizantina: la pianura Padana. I “romani d’Oriente”, confinati nelle zone costiere, da allora in poi si affidarono quasi esclusivamente alle vie di comunicazione marittime. 


Contraddistinti da eroismo e valori militari, i Longobardi nel 588 espugnarono Castelseprio e la mantennero per due secoli. Da Autari in poi, re di fede ariana e ostile alla Chiesa di Roma, sotto la supervisione della capitale Pavia, l’area subalpina divenne un ampio distretto militare e amministrativo diretto da Castelseprio, che si estendeva dal lago Maggiore fino a quello di Como.



La via che attraversa Castelseprio in età altomedievale era importantissima poiché percorrendo la Valcuvia e la Valganna immetteva, attraverso un fitto sistema di forti minori, nelle valli dell’odierno Canton Ticino, dalle quali si raggiungevano i passi del San Bernardino e del Lucomagno: situato nella catena delle Alpi Lepontine e già prediletto dai romani per via della moderata altitudine (m 1919 s.l.m.) il valico, che collegava agevolmente la pianura Padana con la valle del Reno e favoriva il proliferare dei commerci e l’edificazione di santuari e conventi, diventò uno dei passi più praticati e battuti d'Europa. Castelseprio fu snodo cruciale di transito e collegamento a capo di un esteso sistema di fortificazioni collegate tra loro: Bellinzona, Isola Comacina, Rodero, Velate, Cuasso, Angera, Castelnovate. Proprio la viabilità antica costituisce il filo conduttore per individuare la distribuzione degli insediamenti fortificati altomedievali, molti dei quali quasi spariti. Impossessatisi dell’antico avamposto, i Longobardi entrarono in contatto con vestigia notevoli, anche religiose, risalenti al tramonto del dominio romano: eppure non le distrussero. 
Fu così che Castelseprio, da chiusa costruita per fermare i barbari, ben presto divenne un ponte di passaggio tra due mondi: quello del nord e quello del sud.


Sebbene i decenni successivi alla conquista avessero segnato l’oblio del cristianesimo a favore di salde credenze pagane legate al pantheon germanico, i “barbari” conquistatori ereditarono il cuore politico e religioso del castrum in modo rispettoso: non a caso i monumenti d’età giustinianea, ancora imponenti, furono trasformati in ruderi solo nel XIX secolo, dalla gente del luogo in cerca di materiale da costruzione.


La mole della basilica di San Giovanni Evangelista (VI-VII sec.), edificio a tre navate absidate con muri segnati da lesene piatte, era stata costruita, prima dell’arrivo dei longobardi, con sassi e pietre del vicino fiume Olona disposti con apprezzabile regolarità. Sul lato sinistro vi si addossa il battistero, più antico di un secolo, ottagonale e provvisto di absidiola; al suo interno si notano i resti di un pavimento a piastrelle bianche e nere, in marmo di bianco di Musso e nero di Varenna: è il cosiddetto ”opus listatum”, tipico degli spazi battesimali d’area lombarda prealpina tra IV e V secolo, riscontrabile anche nel celebre battistero svizzero di Riva San Vitale e sull’isola Comacina. Sul fianco destro la grande cisterna per l’acqua piovana, realizzata in “opus signinum”, ossia calcestruzzo impermeabile, riflette tecniche edilizie molto evolute, tipiche del tardo Impero Romano. Le fondamenta quadrate e massicce del campanile, strettamente imparentate col vicino torrione del complesso di Torba, svelano un precedente uso a scopo militare. 
Eccezion fatta per la piccola abside, aggiunta nella prima età romanica (XI sec.) il complesso richiama in tutto e per tutto gli stilemi paleocristiani d’area Alto Adriatica, assimilabili alle chiese di Ravenna, Aquileia, Grado e Torcello; di conseguenza i risultati degli scavi archeologici effettuati più volte nel corso del ‘900 hanno dimostrato l’infondatezza della suggestiva quanto fantasiosa diceria, alimentata dallo storico rinascimentale Bonaventura Castiglioni, secondo cui la genesi del complesso religioso si sarebbe dovuta attribuire a una “langobardorum regiam liberalitatem”.


Solo in seguito, per opera dei Longobardi sarebbe giunta la recinzione, mediante una cortina continua di mura, dove torri nuove inglobarono le due isolate e preesistenti all’interno della cinta. I nuovi conquistatori si limitarono, nella prima fase, a sfruttare la natura del luogo, cintando il nucleo preesistente con una robusta cortina muraria lunga quasi un chilometro, costruita con ciottoli fluviali e frammenti di spoglio lungo i margini irregolari dell’altopiano; il tracciato murario ingloba l’alzato di torri perimetrali quadrate a intervalli di media 30-35 metri. Trascurati ma ancora imponenti sono i resti di mura lungo il declivio che dal pianoro scende verso il torrione del monastero di Torba, in valle Olona.
Come riconoscere i resti delle opere difensive lasciate da goto-bizantini da quelle dei rudi e gagliardi Longobardi? Sveliamo “i segreti” dell’archeologo: oltre ai ritrovamenti monetali scoperti in corso di scavo, bisogna guardare le pietre: pietre che parlano.
Le due torri prima citate sono chiaramente preesistenti all’arrivo dei barbari, poiché le fondamenta presentano bocce di fiume appositamente recuperate dal fiume Olona, messe in opera con una certa abilità e legate con malta fine; la basilica di San Giovanni e il battistero poi, presentano finiture di una qualità tale da farci subito pensare a Ravenna. 
L’opera difensiva dei Longobardi si riscontra invece nell’uso di elementi di reimpiego, utilizzati nell’edificazione delle nuove mura e nelle torri della cortina: la pratica del “reimpiego” di lastre, frammenti e massi del periodo più antico, qui inaugurata, verrà portata avanti per tutto il Medioevo.



L’accesso al fortilizio è ancora oggi preceduto da un fossato difensivo, nel quale giacciono quattro “pilae”: pilastri d’appoggio, utili a reggere una passerella lignea che portava sulla soglia di una torre d’accesso, semicircolare, di cui risaltano ancora massicce fondamenta. Aumentata d’importanza, forse diventata sede di un duca o di un gastaldo, Castelseprio sarebbe stata trasformata in un vero e proprio borgo fortificato: sede di mercato, luogo di adunanze e amministrazione, zecca e centro pievano di sfruttamento di un ricco contado.
Furono davvero secoli bui? E’ erroneo parlare di decadenza, bensì di mutamento di civiltà e adeguamento alle nuove condizioni di vita. I ritrovamenti effettuati nel corso degli scavi dell’area absidale e del cimitero retrostante, usato più volte e in età diverse, testimoniano il progresso di una civiltà ingegnosa e propositiva: una borchia d’argento filigranata, assai simile per tecnica al “pettine della regina Teodolinda” (589-626) è servito a datare la prima presenza longobarda nell’abside alla seconda metà del VI secolo. Dal retro dell’abside si diparte la scalinata per l’antico camposanto: in quest’area, sotto a una lapide funeraria recante scolpita una tipica croce a forma di spada i resti di un fodero, una punta di lancia, una spada e speroni con guarnizioni di ferro in agemina d’argento hanno permesso di identificare un corredo degno di un personaggio di rango altolocato, appartenente all’élite longobarda: un cavaliere "arimanno". Un uomo libero, autorizzato a portare armi indosso.


Nell' VIII secolo la cristianizzazione dei Longobardi era ormai prossima. La fase più matura della loro occupazione è evidente nella ristrutturazione degli edifici di culto, che tornarono a funzionare dopo la conversione definitiva dal paganesimo e dall'eresia ariana al nuovo culto nella sua versione nicena, di confessione oggi detta "cattolica". Entro le mura, il cambiamento è testimoniato dalla preziosa scoperta di arredi liturgici: un pluteo d’altare del VII secolo, (Museo della Società di Studi Patri di Gallarate) e un capitello, forse di ciborio. A questi ritrovamenti va aggiunto un apparato d’illuminazione a più braccia costituito da lampade di vetro, numerosi calici e un peso monetale in bronzo, a confermare la presenza di una zecca che batteva moneta e di un’autorità che la controllava.


Furono indagati anche i ruderi di una massiccia casa-forte o torre-dimora: struttura rettangolare eretta sul limite orientale del pianoro che presenta una spessa muratura di un metro e ottanta di spessore, in bocce di fiume e pietrame di reimpiego gettato a sacco in buona malta. Essa era cinta alle spalle dalle mura periferiche, e forse anche da torri. Le murature della casa-forte sono conservate per un’altezza che ha permesso di risalire all’antica presenza di ampie finestre strombate. La costruzione si sviluppava su due piani; al superiore si accedeva da una scala di cui si conserva l’imposta: questa imponente struttura era la dimora dell’autorità che governava il castrum.
Un’ulteriore abitazione, ritenuta per estensione e qualità spaziale una sala nobiliare longobarda, sorgeva presso le mura sud-occidentali: forse si trattava della “halle”: lunga sala dal tetto di paglia, retta da pali lignei e adibita ai periodici raduni dei guerrieri longobardi, era il luogo in cui brindare e concludere accordi. 





Soprattutto eventi come matrimoni, funerali e vittorie in battaglia, portavano intere “farae” o clan parentali armati a trascorrere notti di baldoria e gagliardia in questa grande sala di legno, in onore degli dei pagani: l’ebbrezza era considerata un dono soprannaturale. Dividere il pasto con gli ospiti e i membri del clan qui costituiva un vero e proprio rituale: conferiva immunità, rafforzando il gruppo e mettendolo in comunicazione con gli dei. A tali convivi birra, idromele e, in seguito, vino erano considerati una panacea irrinunciabile: i popoli nordici ritennero sempre che il loro utilizzo, anche abbondante, nutrisse il corpo e la mente rafforzando il calore, restituendo salute, prevenendo le infermità e favorendo la procreazione. Soprattutto, scacciava via la tristezza. 
Infine, col favore del buio e del freddo, sotto le pellicce sparse per certo si verificarono episodi di promiscuità: quante volte, nelle saghe medievali, il guerriero si trovò a giacere insieme alla dama sbagliata?



La presenza dei due ambiziosi edifici di potere, situati nello spazio aperto del vasto prato isolato, rinnovano le vecchie e suggestive storie locali per cui tale area fosse l’antico "feld": il campo d’armi del castello.


Nel centro del castrum sorgono i ruderi del San Paolo (XI secolo), una rara struttura a pianta esagonale con sei basi di colonne all’interno, a reggere uno stretto ma praticabile deambulatorio superiore: probabilmente fu rifondata su una struttura d’origini molto più antiche.


Fuori le mura, a ovest del castello si estendeva poi un vasto borgo, i cui confini culminavano con la celebre chiesa di Santa Maria Foris Portas. Qui gli scavi hanno rivelato una serie di abitazioni costruite con tecniche miste e sovrapposte su più fasi costruttive, a documentare la stratificazione insediativa di Castelseprio; la sequenza degli strati ha evidenziato le differenze tecniche utilizzate per la costruzione delle case: murature in pietra legate con malta, con pali angolari in legno, confitti a terra e poggianti su muretti a secco. Seppellire i defunti presso le abitazioni era un’abitudine diffusa. Queste case erano servite da una strada lastricata e divise da tramezzi e dotate di pozzo. Tra le case romane e bassomedievali spiccano i resti di quelle di tipologia barbarica: costruite nel cosiddetto “opus gallicum”, cioè in legno con fondamenta in pietra non lavorate né congiunte con malta, erano rinforzate con ciottoli e argilla. Costruzioni così descritte costituiscono le prime testimonianze archeologiche dell’esistenza di case di questo tipo nell’Italia settentrionale durante l’occupazione longobarda. Il borgo era adibito agli abitanti del luogo: i "romanici", a cui i Longobardi affidavano il lavoro dei campi.


La scoperta più incredibile è simboleggiata dall’eccezionale chiesa fuori le mura, dove un tempo si estendeva il borgo: Santa Maria Foris Portas, struttura a pianta trilobata preceduta da atrio, edificata in pietrisco e malta, doveva essere un’importante chiesa privata. La sopravvivenza nei secoli di questa chiesa di tipologia mediorientale ne conferma l’unicità, anche all’interno. La sua lunghissima vita, iniziata nel VI secolo, continuò con l’interessamento dei vescovi milanesi d’età carolingia e ottoniana; la fama dei suoi cicli apocrifi, affrescati tra VI e VIII secolo e riscoperti dal Bognetti nel 1948, rappresentano la più antica testimonianza pittorica dell’Alto Medioevo Europeo. Non per nulla, il complesso archeologico di Castelseprio, caso pregevole e rappresentativo di castrum e insediamento altomedievale, nel 2011 è entrato a far parte della lista dei “Beni Culturali – Patrimonio dell’Umanità – UNESCO” con una prestigiosa candidatura seriale dedicata a “Italia Langobardorum – centri di potere e di culto”.


Marc Pevèn (Marco Corrias)
Un ringraziamento agli amici del gruppo di rievocazione storica “Fortebraccio Veregrense” per la foto di scontro corpo a corpo e per il permesso di divulgare le fattezze di un elmo e di un’armatura longobarda della loro compagnia.

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