Pubblicato su "Arte della Marca" del 02/04/2018
Donato di
Pascuccio, detto "Bramante", genio marchigiano nato nel 1444 a Monte
Asdrualdo (oggi Fermignano) presso Urbino, non fu "solo" il più
grande architetto del suo tempo, in quella fase a cavallo tra '400 e '500 che
portò le corti del Rinascimento italiano alla loro massima fioritura; egli fu anche
un grande disegnatore e pittore, cortigiano, intellettuale, teorico e perfino poeta.
Gli anni della
formazione, piuttosto oscuri, vanno tracciati in primis attraverso un'attenta
rilettura delle "Vite" del critico e artista Giorgio Vasari, che indicherebbe
il primo maestro del Bramante in Fra'Carnevale, pittore studioso di prospettiva
ed esecutore delle tavole Barberini. Proprio in quegli anni Federico da
Montefeltro, principe – condottiero e intellettuale tra i maggiori del suo
tempo, aveva trasformato la piccola Urbino in uno dei centri economici e
culturali più evoluti d’Europa; un clima favorevole, che avrebbe certamente
permesso al giovane Donato di instaurare contatti con artisti d'eccezione come
Luca Signorelli, Melozzo da Forlì, Giusto di Gand e, soprattutto, Piero della
Francesca. Bramante ebbe la fortuna di studiare le formulazioni pittoriche
matematico - geometriche, quasi "metafisiche" di quest'ultimo, all’ombra
del prestigioso cantiere del Palazzo Ducale di Urbino, che architetti di spicco
come il dalmata Luciano Laurana e il senese Francesco di Giorgio Martini
andavano portando a termine sotto la supervisione dell’illuminato duca da
Montefeltro. Educato nella Mantova dei aggiornatissimi Gonzaga dall'umanista
Vittorino da Feltre, il signore di Urbino cercò di introdurre nel suo ambiente
quella particolare atmosfera respirata nella ricca Corte padana, coinvolgendo
nel suo progetto uno stuolo di intellettuali principalmente attratti da
sperimentazioni matematiche e prospettiche, tali da esprimere un nuovo corso
storico e culturale. L’obiettivo coltivato da Federico da Montefeltro e dai
suoi artisti migliori divenne quello, tipicamente umanistico, di ricreare in
base ai testi letterari dell’architetto fiorentino Leon Battista Alberti uno
spazio “in forma di palazzo”, che per tipologie architettoniche e geometrie
infallibili divenisse il nucleo di una “Città Ideale”. Prima di diventare luogo
fisico reale, la fondazione della “nuova Atene” doveva essere l’espressione
intellettuale di un’aspirazione astratta che mirasse alla perfezione geometrica
e armonica di un mondo perfetto. La sua concretizzazione, prima ancora di
affermarsi nei progetti urbanistici concreti di Urbino, Pienza e Ferrara, vide
la luce in un “trittico” di celebri ma anonime tavole prospettiche di
produzione urbinate: rispettivamente definite come tavola di Urbino, di
Baltimora e di Berlino e attribuibili alla stessa umano, esse rappresentavano
scorci di città ideali, campionario delle possibili variazioni di un
vocabolario architettonico derivato dal mondo classico, che il duca avrebbe
desiderato realizzare nella sua città: Urbino, un centro relativamente piccolo da
ricostruire ex novo, secondo i dettami di un’urbanistica rinnovata e di un’arte
figurativa come quella di Piero della Francesca che, benché celebrativa, con le
sue architetture immote e suoi silenziosi colloqui delineava uno scenario tutto
sommato potenzialmente sfiorato dal rischio di restare utopia…
Bartolomeo di Giovanni Corradini detto Fra’ Carnevale Nascita della Vergine |
...Ma Donato
Bramante, dalle Marche, come giunse a Milano? Attraverso un viaggio formativo
che lo portò dapprima a visitare Ferrara, Padova, per l'appunto Mantova e
Bergamo. Se escludiamo un certo numero di opere urbinati di incerta
attribuzione, tra il 1474 e il 1477 l'ancora ignoto artista esordì proprio a
Bergamo, in qualità di “pittore prospettico” con un ciclo per la facciata del
Palazzo del Podestà: l'idea di integrare personaggi entro scene architettoniche
prospetticamente definite, soluzione incredibilmente innovativa, presto avrebbe
aperto all’artista urbinate, allora già trentasettenne ma ancora ignoto, le porte di Milano.
Il fatidico
ingresso nella capitale del Ducato Sforzesco, forse agevolato dal Montefeltro per
curare i lavori di un palazzo ricevuto in dono dagli alleati milanesi, avvenne
tra il 1478 e il 1480.
In
cosa differiva la Milano da Urbino, sogno utopico del centro Italia lasciato
alle spalle? Essa era una grande, chiassosa e gaudente metropoli dell’alta
pianura Padana, a stretto contatto con i mercati l’Europa del nord attraverso i
valichi alpini. Pur
non essendo possibile dire se avesse davvero "misurato le fabbriche antiche" , come poeticamente
scrisse Vasari, sicuramente l'urbinate si presentò a Milano aggiornato sugli
studi di geometrie dell'Alberti, del Brunelleschi e Piero della Francesca,
nonché sulle prospettive illusorie del Mantegna e di Melozzo.
La presenza, in
città, di notevoli vestigia paleocristiane e del cantiere del duomo, ancora
privo del tiburio, proiettarono l'artista forestiero a diretto contatto con il
mondo stimolante e variegato degli architetti e degli scultori lombardi: un
ambito nuovo e diverso, ancora legato a una pratica progettuale tutta
medievaleggiante, pronta al confronto con il nuovo linguaggio prospettico e
illusionistico, teorico e progettuale, portato da un forestiero solitario e
genialoide.
Dietro
la città monumentale, infatti, i più nobili monumenti lasciavano rapidamente
spazio a un impianto urbanistico prettamente medievale, dove un’infinità di chiese,
navigli e osterie dalle insegne fantasiose e colorate come tarocchi avevano
avuto la meglio su un primo timido programma del fiorentino Filarete di
ricreare anche qui una città ideale, a partire dall’avveniristico ospedale
Maggiore circoscritto da un’affascinante quanto improbabile pianta stellare. Milano necessitava per davvero di
accogliere tra i suoi artisti un vero innovatore dell'architettura italiana,
acclamato come "il più grande
inventore di nuove idee architettoniche che dai tempi antichi fosse
apparso".
Incisione Prevedari 1481 Castello Sforzesco |
La presenza
dell'artista in città è immediatamente documentata dal successo riscosso dalla
famosa incisione Prevedari (1481): sorta di "lasciapassare" con il
quale il Di Pascuccio desiderava presentarsi ai suoi nuovi committenti non solo
come disegnatore aggiornato, ma anche in veste di esperto di novità
architettoniche di ascendenza classica maturate nell’ambito dell’umanesimo
centro italiano. Il disegno originario, riprodotto attraverso un gran numero di
copie che andarono presto a ruba presso pittori e artigiani di tutto il ducato
come nuovo modello prospettico di riferimento, traccia la visione di un
grandioso interno all'antica, con membrature possenti: un capriccio
architettonico, descritto come veduta “cum hedifitijs et figuris” da
intendersi come organismo "vivente".
Nel 1486-7
Bramante continuò la sua attività di pittore prospettico di successo con il
ciclo degli "Uomini, Arme e Filosofi" per una sala del palazzo di
Gaspare Visconti (poi Panigarola): nasceva un nuovo spazio architettonico
classicheggiante, prospetticamente ornato da nicchie semicircolari volte ad
ospitare svariati personaggi, in posa di statue dell'antichità.
A parte poche
altre eccezioni, come l’incredibile Cristo alla Colonna, ad olio e tempera su
tavola (1490) e “Argo”, strabiliante personaggio mitologico erroneamente quanto
insistentemente attribuito al seguace Bramantino, simbolicamente affrescato
a guardia della torre del tesoro del
Castello Sforzesco, presto Bramante rivolse la sua attenzione all'architettura:
la sua principale aspirazione, quella di sperimentare soluzioni innovative
intorno al motivo della pianta centrale, trovò un interlocutore privilegiato nel
duca Ludovico Sforza detto “il Moro”, che intendeva a sua volta aggiornare la sua
corte seguendo l'esempio di Federico da Montefeltro, dei Medici, dei Gonzaga e
dei pontefici romani.
A differenza del
Montefeltro, simile sotto molti versi al padre del Moro ossia quel Francesco
Sforza, anch’egli uomo della vecchia guardia, capitano di ventura acclamato
perfino dal Machiavelli e fondatore di una dinastia potenzialmente padrona dei
destini d’Italia, Ludovico Sforza dovette regnare per esprimere tutte le
contraddizioni di un’era al tramonto: terzogenito salito al potere per mezzo dell’inganno,
l’ultimo vero duca di Milano alternò la “grandeur” derivata da feste, banchetti
e libertinaggio spudorato con la passione per la nuova arte portata da Bramante
e Leonardo da Vinci.
L’incontro tra Donato e Leonardo in continuo
rovello progettuale e altri artisti, come il frate - matematico Luca Pacioli, autore
di quel trattato chiamato “De Divina
Proportione” che influenzò cosi
tanti artisti, contribuì a fare della corte del Moro, gravitante attorno
al castello sforzesco, un ambito artistico e culturale di portata
internazionale aggiornato sulle maggiori novità provenienti dall’Italia
centrale. La figura stessa del Pacioli, enigmaticamente ritratto in una famosa tela, oggi a Capodimonte, in compagnia
di Guidobaldo da Montefeltro, figlio di Federico in presenza di un solido
archimedeo noto come “rombicubottaedro”, oltre a rinviare alla coeva
collaborazione con Leonardo nella redazione del "De Divina
Proportione", con la sua stessa presenza pare quasi segnare il presente e
il futuro dello stesso Bramante.
Il toscano
Bernardo Bellincioni a tal proposito, nel 1485 scrisse "venite, dico, ad Atene, oggi Milano!"
Uomini Arme e Filosofi di Casa Panigarola – Uomo con la Mazza |
La
prima concretizzazione scultoreo-architettonica dell’incisione Prevedari fu
applicata al celebre finto coro della chiesa di S. Maria presso San Satiro
(1478-83): “mirabile artificio” nato dalla richiesta di Ludovico il Moro di rinnovare
l’antica rotonda paleocristiana entro i limiti angusti di un’area addossata alla
via retrostante, al punto da impedire la costruzione di un’abside proporzionata
alla navata e al transetto. Sfruttando le potenzialità della prospettiva,
Bramante sostituì allo spazio reale una cavità emisferica a finti cassettoni,
rivestita da estrose decorazioni illusorie in stucco e nicchie scultoree a conchiglia:
avvalendosi di una vera e propria camera ottica ante litteram che inscenava dal
vivo il fondale della Pala di Brera di Piero della Francesca con un “finto
coro”, Bramante realizzò l’impresa apparentemente impossibile di riportare alla
terza dimensione un fondale piatto.
La seconda
grande impresa architettonica fu la tribuna di Santa Maria delle Grazie, già
importante centro di devozione ambrosiana. L’impresa ebbe inizio quando, a
pochi metri dal refettorio dove in quegli stessi anni Leonardo, ispirando
allievi e seguaci, dipingeva l'Ultima Cena, con gran dispendio di energia e
denari il Moro nel 1492 ordinò l’abbattimento della cupola appena conclusa dal
lombardo Guiniforte Solari per innestare nel corpo tardogotico superstite una nuova
struttura a pianta concentrica: una tribuna, costituita da corpi geometrici a
sostegno di una grande cupola emisferica a sedici spicchi, proiettata nello
spazio circostante. Intorno a questo nucleo principale si articolano tre corpi
absidali semicilindrici due dei quali, i laterali, si collegano direttamente alla
cupola; il terzo invece, bilanciando visivamente la profondità delle due cavità
laterali, prolunga l’area del coro.
Il risultato ottenuto
è uno spazio armonioso e dilatato, in cui le absidi si dispongono in ordine decrescente
intorno al tiburio in una fusione di volumi, ottenuta all’interno mediante una
decorazione tenue che alterna motivi ornamentali curvilinei e ruote raggiate, senza
rinunciare all’esterno ai tipici elementi decorativi e policromi della tradizione
lombarda: lesene, capitelli, ruote raggiate e medaglioni di imperatori in marmo
su un fondale in mattoni rossastri.
Il tema della
pianta centrale, di derivazione antica, resterà una costante dell'architettura
bramantesca, con ulteriori è più maturi e sviluppi nella successiva attività romana.
Lungi
dall’esaurirsi, l’attività di Bramante si sviluppa felicemente anche nei due
chiostri del monastero di Sant’Ambrogio, dorico e ionico, (1497-8) dove
l’artista elabora spazi retti da snelle colonne, in una mirabile purezza di
linee che porta al superamento tecnico del più sfarzoso cortile di Palazzo
Ducale a Urbino, e quello della Canonica, dalle quattro colonne a tronco d’albero
a rami recisi, che alludono ai templi lignei delle origini, con citazioni dotte
delle Metamorfosi di Ovidio. Numerosi furono anche i palazzi privati e gli
edifici attribuiti al grande architetto sorti fuori città: per citare una sola
invenzione tra le meno note, riserviamo un cenno allo spettacolare chiostro a
doppio nartece di Abbiategrasso.
Se Bramante
avesse avuto un motto, quello sarebbe stato “preservare le tradizioni per protendersi
verso il futuro”. Di conseguenza, il suo esordio e la maturazione costante nel
campo dell'architettura influenzarono una moltitudine di "magistri inzigneri" locali, primo fra tutti l'acerrimo
rivale Giovanni Antonio Amadeo, autore di alcuni monumenti di spicco del
Rinascimento lombardo.
Eppure, la
novità bramantesca non fu immediatamente recepita. Arrivato in una città come
Milano dove gli artisti locali, influenzati da mezzo secolo di scambi con la
Firenze medicea e la raffinata cultura padovana, Bramante vi trovò un centro
culturalmente già ben orientato sulla scia di predecessori come Filarete e
Michelozzo in campo architettonico, Mantegna e Foppa in pittura.
L’urbinate
stesso, artista universalmente noto per la sua capacità di adattamento ad ogni
contesto, preferì agire all’interno di una tradizione già codificata, in
continuità con modelli preesistenti.
Va anche
aggiunto che, nonostante le numerose architetture a lui attribuite, il Bramante
appartiene a quella schiera di grandi architetti del Rinascimento dei quali ci
restano le opere ma non testimonianze progettuali per la loro realizzazione,
come schizzi o modellini. La cosa è resa ancor più complessa dal fatto che i
lavori di edificazione di grandi opere si protrassero per decenni, cosicché
difficilmente l'autore del progetto poté seguirne personalmente lo svolgimento
o presenziare fino alla loro effettiva conclusione. Di conseguenza il nome del
Bramante, forse anche in quanto avversato dall'Amadeo e dagli altri maestri
locali che pur traevano ispirazione da lui, paradossalmente appare con maggior
frequenza, più che nei contratti dei lavori di fabbrica, nelle lettere di
Lodovico il Moro e nelle altre missive ducali: indubbiamente
il raffinato marchigiano, al polveroso cantiere popolato da scultori,
scalpellini e ingegneri gelosi del proprio mestiere a contatto con la pietra preferì
lo studio e la speculazione intellettuale nel protetto e raffinato circolo
degli intellettuali di corte.
In
assenza di altre notizie il ruolo di Bramante, intellettuale d’élite, spicca
soprattutto attraverso la giocosa allusione che egli fa di se stesso e
dell'amico e collega Leonardo da Vinci in un pannello, parte del ciclo
pittorico degli "Uomini,
Arme e Filosofi" di casa Panigarola di fine anni '80, dove i due
campeggiano in veste di filosofi dell’antichità: Eraclito - Leonardo e
Democrito - Bramante, protagonisti di un’accademia virtuale dove il fiorentino
piangente e l’urbinate ridente incarnerebbero, ciascuno reagendo a suo modo, gli
opposti stati d’animo dei due artisti di fronte alle condizioni e alle sorti
del genere umano, in melanconico distacco dalla gente
comune. Donato di Pascuccio sarebbe altresì stato un gaudente autore di sonetti
burleschi, molto apprezzati dall’ambiente cortese, abituato a lavorare di
salaci metafore e ad essere a sua volta oggetto di scherno.
Non
essendo ancora compresa dal punto di vista più rigorosamente architettonico, nei
primi anni la lezione bramantesca sarebbe stata impiegata dagli artisti locali più
come ricco repertorio da cui estrapolare motivi ornamentali a piacere, al fine
di attualizzare spazi e composizioni con una patina di antichità. Nonostante
l’apparente incomprensione, fu proprio così che l'innesto della cultura
decorativa aggiornata di stampo classico del Bramante in quegli stessi anni portò
i lombardi a sviluppare una fioritura delle arti decorative senza precedenti,
con l’inaugurazione di un nuovo linguaggio: un linguaggio certamente desunto da
fonti classiche, ma sdoganato come "lombardo". Il decoro
architettonico della Certosa di Pavia e della Cappella Colleoni di Bergamo, i
cui cantieri furono affidati all'autoctono Amadeo, genero di quel Guiniforte
Solari a cui Bramante aveva demolito la tribuna delle Grazie, videro presto
affastellarsi ricche decorazioni composte da elementi classici quali candelabre,
paraste, tralci d'edera e di vite, angioletti, ovuli, foglie d’acanto, vasi e
fogliami, trabeazioni, fregi, ghirlande e
decorazioni vegetali: un tripudio
di elementi indubbiamente d'ascendenza classica, dove però i fusti di colonna a
grottesche e i capitelli appartengono ad uno stile composito, esuberante e del
tutto anti-classico.
Santa Maria delle Grazie – Tribuna dall’esterno (1490-1500) |
Gli
ultimi studi del pupillo del duca riguardarono il tiburio del duomo di Milano: Intorno al 1487-
1488, in occasione dell'invito di Ludovico il Moro ai maggiori ingegneri ed
architetti per trovare una soluzione all'irrisolto problema, Bramante fece un
modello, poi perduto, e scrisse una relazione tecnica e teorica, la cosiddetta “Bramanti Opinio super Domicilium seu
Templum Magnum”: il suo unico testo tecnico d'architettura pervenutoci,
dove l’urbinate consigliava di terminare il Duomo con un tiburio a pianta
quadrangolare in stile gotico, anziché imporvi una cupola rinascimentale, e suggerendo
ai colleghi di evitare il tiburio ottagonale affinché l'ordine dell’edificio
non venisse meno. L'Amadeo seguì in parte le direttive: attorno al 1499-1500
sorse un tiburio gotico d'impensabile audacia…da tradizione lombarda non
quadrangolare, bensì ottagonale!
Perso terreno
nell’ambito di alcune commissioni, in cui il Moro gli preferì l’Amadeo, ai
primi segni di cedimento del Ducato Sforzesco Bramante aveva già preparato le valigie
per Roma.
Anni di stravizi
e rischi ispirati da una politica funambolica, sempre sul filo del rasoio, portarono
Ludovico il Moro a una rovinosa caduta, tale per cui lo stesso Leonardo di lui
scrisse “il duca perse lo stato, la roba
e la libertà e nessuna sua opera si finì per lui”, incluso il gigantesco
monumento equestre per il padre Francesco Sforza che il da Vinci era prossimo a
fondere, ma il cui modello in terracotta
fu distrutto per sempre dagli arcieri francesi.
Viaggiatore
eclettico e multiforme dalle inconsuete capacità d’adattamento, nel 1502 Bramante
fu convocato da papa Giulio nella Città Eterna per una nuova avventura
all’insegna di nuove sperimentazioni prospettiche e della pianta centrale. In
sua assenza, da quella data fino agli anni Venti del Cinquecento nel ducato di
Milano conteso tra Francia e Spagna sarebbe fiorita una fervida attività di
maestri impegnati in numerosi cantieri, che seppero comprendere con maggiore coerenza
l’eredità del maestro, seppur riletta e interpretata in quel continuo scambio
di idee tra maestranze di architetti, scultori, pittori e perfino artisti del
legno: uno scambio che, se fin dalle origini aveva caratterizzato il modus
operandi della Veneranda Fabbrica del duomo milanese in chiave nordica, ora
andava diffondendo in tutto il ducato infinite reinterpretazioni di un gusto poi
orgogliosamente definito col nome di “bramantismo”.
BIBLIOGRAFIA
C.R. Frommel, L. Giordano,
Bramante milanese e l'architettura del Rinascimento lombardo, Marsilio 2002
S. Guagliumi, Donato Bramante :
pittore e sommo architetto in Lombardia e a Roma, Silvia ed., 2014
L. Patetta, Bramante e la sua
cerchia a Milano e in Lombardia. Skira, 2001
L. Patetta, Bramante architetto e
pittore (1444-1514), Caracol, 2009
AA. VV, Bramante a Milano: le
arti in Lombardia 1477-1499. Skira, 2015
Foto.
1 Bartolomeo di
Giovanni Corradini (Fra Carnevale). Nascita della Vergine - (1480-2. Già Tavole
Barberini. New York, Metropolitan Museum of Art)
2 Incisione
Prevedari, su disegno di Bramante (1481, Civica raccolta di stampe Bertarelli)
3 Bramante,
Uomini Arme e Filosofi di Casa Panigarola - Uomo con la Mazza (Milano,
pinacoteca di Brera)
4 Bramante,
Cristo alla Colonna (1480-90, Milano, Pinacoteca di Brera)
5 5 S. Maria
presso S. Satiro, trompe loeuil (1482-86)
6 S. Maria
presso S Satiro, pianta con tipica forma
a “Tau” (T) (1482-86)
7 Piero della
Francesca, Pala di Brera (1472, Milano, Pinacoteca di Brera)
8 S. Maria
presso S. Satiro, sacrestia a confronto con Piero della Francesca (1482-86)
9 Santa Maria
delle Grazie - Tribuna dall’esterno (1490-1500)
10 Santa Maria
delle Grazie -Tribuna dall’interno (1490-1500)
11 Santa Maria
di Abbiategrasso - doppio nartece (1488-90)
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