Capricci spirituali a punta di pennello,
schermidori di sacrestia.
Languidezze e livori. Fiori,
muscoli
e pestilenze.
Fossette di grazia e ferite di
crudeltà
(R. Longhi, 1926)
Questo brano del famoso critico
d'arte piemontese del Secolo Breve ben riassume lo stile che si diffuse a macchia
d'olio non solo in Lombardia e Canton Ticino, ma anche nel Piemonte e nella
Liguria della prima metà del XVII secolo. Allora il giovanissimo Daniele
Crespi, figlio d'arte e membro di una famiglia di pittori di Busto Arsizio che
diede pennelli importanti, tra cui lo stesso Cerano da Romagnano Sesia, chiuse
la grande stagione col botto. La peste manzoniana era alle porte quando il
giovane, in via di maturazione, decise
di smorzare l'esagerata tensione iperrealista dei suoi maestri per
passare oltre.
Nel 28 novembre 1617 un tale De
Rossi, ignoto committente milanese, versò gli ultimi 521 scudi dei 2000 già
pagati a Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, pittore di media caratura
proveniente da Casale Monferrato, per il completamento degli affreschi della
cupola della grande basilica ambrosiana di S. Vittore al Corpo: una decorazione
di ottanta riquadri ordinati in cinque cerchi
rappresentante un'ascensione celeste di serafini, angeli musicanti e
sibille. Non sussiste più alcun dubbio sul fatto che queste ultime vadano attribuite
al pennello di Daniele Crespi: il ruolo centrale del pittore nell'impresa
decorativa del tempio è segnalato da un’abbondante documentazione seicentesca.
Allora Daniele non era allievo, ma già collaboratore del Moncalvo, all'età di
19 anni!
L'anno successivo, il Crespi
lavorò nella quarta cappella a sinistra del tempio, alle Storie di Sant'Antonio
Abate: qui, come in altre cappelle di chiese ambrosiane della Controriforma, la
concezione dello spazio va a delineare un’elaborata macchina teatrale composta
da un ricco apparato decorativo a stucco, affreschi e dorature capaci di creare
un insieme illusionistico del tutto autonomo, tale da accogliervi al meglio una
triade di tele a tema.
Al centro campeggia “Sant’Antonio Abate assiste alla
glorificazione dell’anima di San Paolo Eremita”, affiancato sui lati
dall'estatico rapimento in cielo del santo salvato dagli angeli e dalla
visitazione, con Antonio confortato da
Gesù dopo le tentazioni.
L’opera centrale raffigura la
scena miracolosa in cui Sant’Antonio Abate, in muto colloquio con due figure
angeliche trionfalmente sospese in volo, vive un’esperienza d’estasi
visionaria. I due messaggeri alati sono colti nell'atto di portare in cielo il
simulacro dell’anima dell'amico San Paolo Eremita: i resti mortali di
quest’ultimo, segnato dall'avanzato stato di putrefazione, giacciono
nell'ombra.
Il personaggio di San Paolo Eremita, dal punto di vista storico, è
avvolto da un alone di mistero: tradizionalmente considerato primo tra gli
eremiti cristiani, nel III sec. dopo Cristo abbandonò la città per il deserto
della Tebaide al fine di scampare alle persecuzioni ordinate dall’imperatore
Decio. Come da tradizione agiografica, la solitudine del deserto conquistò
l’uomo di fede al punto da convincerlo a restare tra dune e scorpioni anche a pericolo scampato:
più di sessant'anni. La sua più grande aspirazione, quella di vivere nella
semplicità contemplativa, sarebbe stata coronata da una morte appartata. Ciò
nonostante, San Gerolamo annotò sul suo conto un libro ricco di avventure tanto
entusiasmanti quanto poco attendibili. L’ultima notizia del “santo silente”,
già molto anziano, é tramandata dalla leggendaria visita di sant’Antonio Abate
presso il suo eremo: una scena rara, rappresentata proprio dalla tela di
Daniele Crespi. Sentendosi prossimo alla morte, Paolo Eremita fu avvolto in un
letto di foglie di palma che Antonio aveva ricevuto in dono dal vescovo
Atanasio e sepolto presso una fossa scavata da una coppia di leoni.
Osserviamo
la tela del Crespi: capolavoro in cui convivono ancora le tre nature del
giovane artista, in fase di sperimentazione. L'ampio settore inferiore,
nettamente definito da un fondale scuro, accoglie il corpo di Paolo eremita
adagiato sul giaciglio. Il viso e le mani del santo, il naso camuso, il labbro
inferiore sporgente e le carni sfatte e giallognole emergono appena sotto
un’impietosa luce giallognola; il destino dei mortali, ritratto in tutta la sua
bruttura, é un regno di toni esacerbati e stravolti, tipici del primo Seicento
lombardo: una tendenza fortemente segnata dall’opera del piemontese Cerano e
del varesotto Morazzone, paladini di una
pittura fatta di contrasti stridenti,
bagliori improvvisi e visioni raccapriccianti.
Eppure, le tinte fosche dei
maestri “pestanti” parrebbero già traghettare il giovane, sul registro
superiore della tela, verso i lidi più calmi e contemplativi della futura
pittura milanese.
Eretto come una statua sopra la salma inerte, Sant’Antonio
Abate, parzialmente illuminato dalla luce miracolosa proveniente dall'alto,
osserva La glorificazione in cielo dell'amico. La sua immagine é potentemente affermata dall’ombra sfuggente
del fedele leone e dal tipico emblema del “Tau”, appuntato sul collo della
tonaca. Agli occhi dei fedeli del tempo, la scena alludeva al passaggio di
testimone tra i due santi: dal vagabondaggio eremitico tipico degli inizi del
cristianesimo, non più consentito, alla nascita di un primo vero ordine gestito
non a caso dall’abate Antonio, fondatore del monachesimo: narrazione di un
episodio lontano, riletta alla luce della didattica controriformata che si
prefiggeva di estirpare bizzarrie pittoriche fuori tema tali da confondere il
fedele, a favore di narrazioni chiare e trionfanti.
Ex tenebris lux!
Ed ecco contrapporsi, nella parte
superiore del dipinto, la scena della rivelazione sacra: l'ascensione vorticosa
degli angeli dalle ali multicolori é esteticamente sensuale e luminosa,
d'impronta tipicamente emiliana: eredità del maestro bolognese Giulio Cesare
Procaccini. Recenti studi hanno proprio permesso di ricomporre l’intenso e
febbrile sperimentalismo degli esordi di Daniele, giocato sulla
contrapposizione tra lo stile dei suoi tre maestri: quello elegante e caldo del
bolognese e quello cupo e sprezzato dei due lombardi. In quest’ottica, la pala
in San Vittore costituisce un testo di capitale importanza.
Questi, gli ingredienti
attraverso i quali il giovanissimo Daniele Crespi raggiunge anticipatamente la
conquista di una personale cifra stilistica, all'avanscoperta di territori,
ancora inesplorati, di quello stile poi definito “Barocco”.
Capace perfino di
"addomesticare" il tenebrismo del Caravaggio, nella celebre, cupa e
introspettiva Cena di San Carlo Borromeo eseguita per i canonici di Maria della
Passione il giovane lombardo realizza altissimi brani di sobria ritrattistica e
natura morta.
Affrancatosi definitivamente dai
maestri, nel 1620 il Crespi, in rapporto di sintonia programmatica con le
direttive fornite dalla pittura del cardinal Federico Borromeo, attraverso la
fondazione dell’Accademia Ambrosiana giungerà a maturazione con l'esecuzione
del ciclo affrescato presso la certosa milanese di Garegnano: luogo di memorie
petrarchesche e bucoliche, affossato nel Secolo breve dall'espansione urbana e
dall'imboccatura autostradale Milano-Laghi.
Poco dopo aver rilevato la
prestigiosa bottega di Camillo Procaccini, fin da subito Daniele fu
richiestissimo al punto da inaugurare al cantiere della Certosa di Pavia nuovi
cicli pittorici: le Storie di San Bruno, avvolte in cieli azzurri e rosati,
sono di un’esplosione barocca inattesa.
1630: data fatidica. L'epidemia
di peste bubbonica bussa alle porte di Milano. Sono i tenebrosi anni, di
manzoniana memoria, dei monatti, del lazzaretto e della Colonna Infame. La
breve e illusoria parabola artistica di Daniele si spegne: forse gettato su un
carro da qualche bravaccio dalla caviglia sonante, in compagnia dei corpi
infetti degli appestati e portato alla fossa comune, a causa della morte
improvvisa "l'enfant prodige" del Seicento lombardo lasciò incompiuta la sua
opera di maggiore impegno all'età di 28 anni.
Il ciclo pavese è l'ultima
testimonianza di un grande e sfortunato talento che, come un bucaneve,
sbocciando anzi tempo trionfò sulla morte a colpi di pennellate dalle tinte
chiare, vaporose e serene: sommo testamento di un artista che partendo dalla tenebra lasció ai posteri un'impronta
di speranza salvifica e con essa il rinnovamento della pittura in Lombardia e
fonte d'ispirazione per spagnoli celebri...
...ma se, come Tiziano o Michelangelo,
Daniele Crespi fosse vissuto per altri quarant'anni, cosa ci saremmo dovuti
aspettare da lui?
Marco Corrias (alias Marc Pevèn)
Bibliografia
W. Neilson, Daniele Crespi, 1996,
pp. 47-50.
F. Frangi, Un vertice giovanile di
Daniele Crespi, in Itinerari d'arte in Lombardia dal XIII al XX secolo,1998, pp.
217 - 25.
Autori vari, Pittura a
Milano dal Seicento al Neoclassicismo, 1999, pp. 226-7
A. Spiriti, Daniele Crespi, un
grande pittore del ‘600 lombardo, 2006, pp. 36 e 202-3.
F. Frangi, Daniele Crespi, la
giovinezza ritrovata, 2012, pp. 16-46.
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