lunedì 1 agosto 2016

Daniele Crespi, fulgore e meteora al tempo della peste




Daniele Crespi, fulgore e meteora: ultimo grande protagonista di una generazione d'artisti controcorrente. Nel Ducato di Milano caduto sotto il dominio spagnolo, agli inizi del Seicento la pittura aveva preso una strada tutta sua: rifiutato il realismo di Caravaggio e ripudiato il realismo carraccesco, i "tre moschettieri" del Seicento Lombardo, Cerano, Procaccini e Morazzone, inventarono un nuovo stile pittorico senza precedenti e lo resero icona:
Capricci spirituali a punta di pennello,
schermidori di sacrestia.
Languidezze e livori. Fiori, muscoli
e pestilenze.
Fossette di grazia e ferite di crudeltà
(R. Longhi, 1926)


Questo brano del famoso critico d'arte piemontese del Secolo Breve ben riassume lo stile che si diffuse a macchia d'olio non solo in Lombardia e Canton Ticino, ma anche nel Piemonte e nella Liguria della prima metà del XVII secolo. Allora il giovanissimo Daniele Crespi, figlio d'arte e membro di una famiglia di pittori di Busto Arsizio che diede pennelli importanti, tra cui lo stesso Cerano da Romagnano Sesia, chiuse la grande stagione col botto. La peste manzoniana era alle porte quando il giovane, in via di maturazione, decise  di smorzare l'esagerata tensione iperrealista dei suoi maestri per passare oltre.



Nel 28 novembre 1617 un tale De Rossi, ignoto committente milanese, versò gli ultimi 521 scudi dei 2000 già pagati a Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, pittore di media caratura proveniente da Casale Monferrato, per il completamento degli affreschi della cupola della grande basilica ambrosiana di S. Vittore al Corpo: una decorazione di ottanta riquadri ordinati in cinque cerchi  rappresentante un'ascensione celeste di serafini, angeli musicanti e sibille. Non sussiste più alcun dubbio sul fatto che queste ultime vadano attribuite al pennello di Daniele Crespi: il ruolo centrale del pittore nell'impresa decorativa del tempio è segnalato da un’abbondante documentazione seicentesca. Allora Daniele non era allievo, ma già collaboratore del Moncalvo, all'età di 19 anni!


L'anno successivo, il Crespi lavorò nella quarta cappella a sinistra del tempio, alle Storie di Sant'Antonio Abate: qui, come in altre cappelle di chiese ambrosiane della Controriforma, la concezione dello spazio va a delineare un’elaborata macchina teatrale composta da un ricco apparato decorativo a stucco, affreschi e dorature capaci di creare un insieme illusionistico del tutto autonomo, tale da accogliervi al meglio una triade di tele a tema.
Al centro campeggia “Sant’Antonio Abate assiste alla glorificazione dell’anima di San Paolo Eremita”, affiancato sui lati dall'estatico rapimento in cielo del santo salvato dagli angeli e dalla visitazione, con  Antonio confortato da Gesù dopo le tentazioni.
L’opera centrale raffigura la scena miracolosa in cui Sant’Antonio Abate, in muto colloquio con due figure angeliche trionfalmente sospese in volo, vive un’esperienza d’estasi visionaria. I due messaggeri alati sono colti nell'atto di portare in cielo il simulacro dell’anima dell'amico San Paolo Eremita: i resti mortali di quest’ultimo, segnato dall'avanzato stato di putrefazione, giacciono nell'ombra.


Il personaggio di San Paolo Eremita, dal punto di vista storico, è avvolto da un alone di mistero: tradizionalmente considerato primo tra gli eremiti cristiani, nel III sec. dopo Cristo abbandonò la città per il deserto della Tebaide al fine di scampare alle persecuzioni ordinate dall’imperatore Decio. Come da tradizione agiografica, la solitudine del deserto conquistò l’uomo di fede al punto da convincerlo a restare tra dune e scorpioni anche a pericolo scampato: più di sessant'anni. La sua più grande aspirazione, quella di vivere nella semplicità contemplativa, sarebbe stata coronata da una morte appartata. Ciò nonostante, San Gerolamo annotò sul suo conto un libro ricco di avventure tanto entusiasmanti quanto poco attendibili. L’ultima notizia del “santo silente”, già molto anziano, é tramandata dalla leggendaria visita di sant’Antonio Abate presso il suo eremo: una scena rara, rappresentata proprio dalla tela di Daniele Crespi. Sentendosi prossimo alla morte, Paolo Eremita fu avvolto in un letto di foglie di palma che Antonio aveva ricevuto in dono dal vescovo Atanasio e sepolto presso una fossa scavata da una coppia di leoni.



Osserviamo la tela del Crespi: capolavoro in cui convivono ancora le tre nature del giovane artista, in fase di sperimentazione. L'ampio settore inferiore, nettamente definito da un fondale scuro, accoglie il corpo di Paolo eremita adagiato sul giaciglio. Il viso e le mani del santo, il naso camuso, il labbro inferiore sporgente e le carni sfatte e giallognole emergono appena sotto un’impietosa luce giallognola; il destino dei mortali, ritratto in tutta la sua bruttura, é un regno di toni esacerbati e stravolti, tipici del primo Seicento lombardo: una tendenza fortemente segnata dall’opera del piemontese Cerano e del varesotto  Morazzone, paladini di una pittura fatta di  contrasti stridenti, bagliori improvvisi e visioni raccapriccianti.



Eppure, le tinte fosche dei maestri “pestanti” parrebbero già traghettare il giovane, sul registro superiore della tela, verso i lidi più calmi e contemplativi della futura pittura milanese. 
Eretto come una statua sopra la salma inerte, Sant’Antonio Abate, parzialmente illuminato dalla luce miracolosa proveniente dall'alto, osserva La glorificazione in cielo dell'amico. La sua immagine é  potentemente affermata dall’ombra sfuggente del fedele leone e dal tipico emblema del “Tau”, appuntato sul collo della tonaca. Agli occhi dei fedeli del tempo, la scena alludeva al passaggio di testimone tra i due santi: dal vagabondaggio eremitico tipico degli inizi del cristianesimo, non più consentito, alla nascita di un primo vero ordine gestito non a caso dall’abate Antonio, fondatore del monachesimo: narrazione di un episodio lontano, riletta alla luce della didattica controriformata che si prefiggeva di estirpare bizzarrie pittoriche fuori tema tali da confondere il fedele, a favore di narrazioni chiare e trionfanti.
Ex tenebris lux!



Ed ecco contrapporsi, nella parte superiore del dipinto, la scena della rivelazione sacra: l'ascensione vorticosa degli angeli dalle ali multicolori é esteticamente sensuale e luminosa, d'impronta tipicamente emiliana: eredità del maestro bolognese Giulio Cesare Procaccini. Recenti studi hanno proprio permesso di ricomporre l’intenso e febbrile sperimentalismo degli esordi di Daniele, giocato sulla contrapposizione tra lo stile dei suoi tre maestri: quello elegante e caldo del bolognese e quello cupo e sprezzato dei due lombardi. In quest’ottica, la pala in San Vittore costituisce un testo di capitale importanza.



Questi, gli ingredienti attraverso i quali il giovanissimo Daniele Crespi raggiunge anticipatamente la conquista di una personale cifra stilistica, all'avanscoperta di territori, ancora inesplorati, di quello stile poi definito “Barocco”.
Capace perfino di "addomesticare" il tenebrismo del Caravaggio, nella celebre, cupa e introspettiva Cena di San Carlo Borromeo eseguita per i canonici di Maria della Passione il giovane lombardo realizza altissimi brani di sobria ritrattistica e natura morta.


Affrancatosi definitivamente dai maestri, nel 1620 il Crespi, in rapporto di sintonia programmatica con le direttive fornite dalla pittura del cardinal Federico Borromeo, attraverso la fondazione dell’Accademia Ambrosiana giungerà a maturazione con l'esecuzione del ciclo affrescato presso la certosa milanese di Garegnano: luogo di memorie petrarchesche e bucoliche, affossato nel Secolo breve dall'espansione urbana e dall'imboccatura autostradale Milano-Laghi.


Poco dopo aver rilevato la prestigiosa bottega di Camillo Procaccini, fin da subito Daniele fu richiestissimo al punto da inaugurare al cantiere della Certosa di Pavia nuovi cicli pittorici: le Storie di San Bruno, avvolte in cieli azzurri e rosati, sono di un’esplosione barocca inattesa.



1630: data fatidica. L'epidemia di peste bubbonica bussa alle porte di Milano. Sono i tenebrosi anni, di manzoniana memoria, dei monatti, del lazzaretto e della Colonna Infame. La breve e illusoria parabola artistica di Daniele si spegne: forse gettato su un carro da qualche bravaccio dalla caviglia sonante, in compagnia dei corpi infetti degli appestati e portato alla fossa comune, a causa della morte improvvisa "l'enfant prodige" del Seicento lombardo lasciò incompiuta la sua opera di maggiore impegno all'età di 28 anni. 
Il ciclo pavese è l'ultima testimonianza di un grande e sfortunato talento che, come un bucaneve, sbocciando anzi tempo trionfò sulla morte a colpi di pennellate dalle tinte chiare, vaporose e serene: sommo testamento di un artista che partendo dalla tenebra lasció ai posteri un'impronta di speranza salvifica e con essa il rinnovamento della pittura in Lombardia e fonte d'ispirazione per spagnoli celebri...

...ma se, come Tiziano o Michelangelo, Daniele Crespi fosse vissuto per altri quarant'anni, cosa ci saremmo dovuti aspettare da lui?



Marco Corrias (alias Marc Pevèn) 


Bibliografia
W. Neilson, Daniele Crespi, 1996, pp. 47-50.
F. Frangi, Un vertice giovanile di Daniele Crespi, in Itinerari d'arte in Lombardia dal XIII al XX secolo,1998, pp. 217 - 25.
Autori vari, Pittura a Milano dal Seicento al Neoclassicismo, 1999, pp. 226-7
A. Spiriti, Daniele Crespi, un grande pittore del ‘600 lombardo, 2006, pp. 36 e 202-3.
F. Frangi, Daniele Crespi, la giovinezza ritrovata, 2012, pp. 16-46.

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