La storia del cavallo e
del suo profondo rapporto con l’uomo ha radici ancestrali, talmente
durature da poter affermare che, tra tutti gli animali, sia stato
quello che ha segnato in maniera più decisiva il percorso evolutivo
della razza umana.
La primissima forma di
addomesticazione del cavallo risale all’alba dei tempi: il contatto
iniziale con i cacciatori-raccoglitori preistorici, per i quali il
cavallo era una semplice preda come altre, non era stato tra i più
felici finché, seimila anni fa, nelle lontane steppe del Kazakistan
scattò la scintilla: quando l’uomo capì di trovarsi di
fronte a un animale che, se ammaestrato, poteva diventare
sufficientemente docile da farsi cavalcare, la storia non fu più la
stessa.
I primi allevatori
poterono giovarsi non solo di quella possanza fisica, di
quell’agilità e facilità di corsa di cui loro, per propria
natura, non disponevano, ma anche di un forte e inatteso legame
affettivo che fino ad allora erano riusciti a dare soltanto i
«cani-lupi». Il cavallo dimostrò da subito di essere in grado di
adempiere a compiti piuttosto complessi, nella gestione delle greggi
e soprattutto nell’addomesticazione di interi branchi di propri
simili, altrimenti difficilmente controllabili; Ben presto, grazie
alla sua capacità di sopperire alle mancanze fisiche dell’uomo,
gli equini furono messi di fronte alle più svariate attività,
diventando fedeli strumenti, o meglio, guardiani e custodi dell’uomo
tanto al lavoro, quanto in guerra.
Di fronte all’umano
stupore il cavallo doveva per forza accogliere in sé connotati
divini: gli Sciti, popoli nomadi delle steppe, lo adoravano; i
Germani ammantarono la sua silhouette di sacralità. Animale
tipicamente sciamanico, il cavallo era un messaggero dell’Aldilà,
uno spirito ausiliario ed estatico per il cui tramite intraprendere
viaggi mistici. Secondo visioni ricorrenti presso tribù anche
lontane nello spazio e nel tempo, la cavalcata simbolica esprimeva la
trance estatica attraverso cui lo sciamano accompagnava il defunto
nel Regno dei Morti per comunicare e contrattare con gli dei. Basti
pensare al culto di Sleipnir, cavallo a otto zampe di Odino
«che scivola rapidamente»
e porta rune incise sui denti, che in Germania fu abolito soltanto
nel XII secolo.
Rilievi Fidìaci del Partenone (British
Museum, V sec. a.C)
I primi cavalli,
invero, erano ben diversi da quelli attuali: poco più grandi dei
pony, tozzi e pelosi, la loro altezza al garrese non era superiore ai
130 cm (razze Tarpan, Przewalskii). I primi popoli storici a
introdurne l’uso in maniera consistente furono gli indoeuropei
Ittiti e Mitanni, che li esportarono dall’Eurasia fino in
Mesopotamia. A seguire Assiri, Babilonesi ed Egizi diedero il via con
una cura tutta particolare ai primi «incroci», in cerca di nuove
specie dalle caratteristiche più utili ai casi specifici: fu così
che il cavallo divenne ben presto diverso da com’era stato un
tempo.
Secoli di selezione crearono nuove specie dotate di forza e
velocità che in natura non si erano mai conosciute: sempre più
maestosi, intelligenti e tuttavia docili ai comandi, lungi dal
rivestire il ruolo di meri strumenti da lavoro, cavalli sempre più
«puri» divennero protagonisti di un particolare rapporto di
simbiosi con l’uomo, contraddistinto da fedeltà e dedizione, tanto
nelle attività quotidiane quanto nelle imprese di guerra più
pericolose. Proprio l’utilizzo bellico e come mezzo di trasporto
portò il valore del cavallo e la sua considerazione sociale alle
stelle anche presso Greci e Romani, come ben dimostrano le
numerose opere d’arte: in tal senso la leggenda omerica del Cavallo
di Troia parla chiaro. Sempre Omero, che amava definire i Troiani
«domatori di cavalli» nell’Iliade cantò: «avresti detto che
anche il cavallo era consapevole della bellezza del suo padrone e che
si accorgeva di portare, lui bello, il più bello dei cavalieri:
infatti, agitando la criniera, con le orecchie dritte e la testa
levata, andava avanti fiero di sé e di colui che portava, battendo
il suolo con la punta degli zoccoli, adattando il suo passo a una
cadenza misurata».
il cavallo era
profondamente legato al suo padrone, imperatore o condottiero che
fosse, da un rapporto simbiotico; il nobile animale, accompagnando le
gesta del suo cavaliere alla stregua di uno spirito protettore, finì
immortalato nell’arte di tutti i popoli antichi: inciso su
bassorilievi, scolpito nel marmo e colato nel bronzo, dipinto sulle
pareti e sul vasellame.
Nella cultura
guerriera, tanto barbarica quanto classica, il cavallo è quindi
tutt’uno con il suo cavaliere, perché è anch’esso artefice
delle vittorie di quest’ultimo, oltre che suo quotidiano compagno
di battaglie fondate sulla velocità e la destrezza. Gli
imperatori romani amavano far immortalare la propria immagine in
statue equestri di bronzo dai muscoli guizzanti, con le criniere
scompigliate e uno zoccolo proteso in avanti; le colonne trionfali
celebravano le vittorie di centurioni e destrieri nelle stragi di
massa dei «barbari»: proprio quei Daci, Sciti e Sarmati che per
primi avevano allevato i cavalli ora vedevano le loro città
distrutte per sempre. Se presso quei popoli, in epoca arcaica, il
cavallo era stato stato associato al regno dei morti e come tale
sacrificato ai defunti con l’eroe caduto in battaglia,
successivamente fu accomunato alle divinità solari: un destriero,
infatti, era l’animale da tiro che trainava il «carro
del cielo» condotto da
Apollo, Mitra ed il cristiano Elia.
Piazza Armerina (Enna) Scena di corsa
nel circo (IV sec d.C)
Questo stretto e continuo
fenomeno di antropizzazione portò presto a riconoscere nel cavallo,
come del resto anche in altri animali, vizi e virtù degli uomini. Il
greco Artemidoro (II sec d.C) nella sua «Oneirocritica»
scriveva che sognare di «montare un cavallo da corsa che obbedisce
bene alle redini e al cavaliere» fosse un presagio favorevole di una
futura unione carnale con una donna; il più celebre Ovidio, nella
sua «Ars amatoria»
(1 a.C. o 1 d.C.) consigliava agli sciupafemmine di non perdersi «le
corse dei nobili cavalli: l’ippodromo affollato presenta grandi
vantaggi. Le cavalle infoiate impazziscono e vanno per contrade
lontane, inseguendo i cavalli dai quali li divide il fiume… datti
da fare, impiega questi rimedi forti con la tua donna»
concludeva il poeta abruzzese, non senza una dose di compiacimento.
Ovidio avrebbe pagato a caro prezzo le sue rime licenziose con
l’esilio nella lontana colonia di Tomi, sul mar Nero: proprio nelle
antiche terre degli Sciti, da tempo colonizzate, e apparentemente al
sicuro dai cavalieri delle steppe…ma per quanto tempo ancora?
Mentre un nuovo impero,
quello bizantino, sorgeva a Oriente, quello d’Occidente era giunto
allo stremo. Le prime avvisaglie trapelano dalle testimonianze del
vescovo di Milano Ambrogio (IV sec d.C), quando «gli Unni
assalirono gli Alani, gli Alani assalirono i Goti, i Goti assalirono
Taifali…».
Questo effetto domino produsse una tale ondata di popolazioni che,
nel giro di un secolo, i Romani furono sconfitti più volte. I popoli
della steppa erano tornati dalle tenebre del passato: primi fra tutti
gli Unni, i quali emergendo da un mondo remoto e in parte
sconosciuto, l'Oriente sconfinato, provocarono un'ondata di terrore
senza precedenti. Lo storico Ammiano Marcellino, terrorizzato,
nelle sue Rerum Gestarum (IV sec d.C) sul conto degli Unni
riferì: «per quanto
abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenore
di vita da non aver bisogno né di fuoco né di cibi conditi, ma si
nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di
qualsiasi animale, che riscaldano per un po' di tempo fra le loro
cosce ed il dorso dei cavalli. Per questa ragione sono poco adatti a
combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti,
anche se deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne,
attendono alle consuete occupazioni. Stando a cavallo notte e giorno
ognuno in mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e,
appoggiato sul corto collo del cavallo, si addormenta così
profondamente da vedere ogni varietà di sogni. E nelle assemblee in
cui deliberano su argomenti importanti, tutti in questo medesimo
atteggiamento discutono degli interessi comuni…».
I «rozzi e barbari
unni» ovviarono per la prima volta all’ignoranza, da parte dei
Romani, di tecniche evolute di sellatura e ferratura di staffe, la
cui assenza fino a quel momento aveva reso la cavalcata decisamente
instabile. Solo grazie all’applicazione delle nuove tecnologie fu
possibile sfruttare appieno le capacità muscolari e l’agilità del
cavallo. Nel frattempo, a Oriente l’Impero bizantino si scontrava
con la possente cavalleria Persiana, abituata ad attirare i Romani in
deserti senz’acqua per soffocarli con la povere e la sabbia e
trafiggerli con frecce in grado di perforare la lorica più
resistente: i bassorilievi presso la necropoli iraniana di Naqŝe
Rostam mostrano ancora, a distanza di mille e seicento anni, i
purosangue Neani del regno di Persia, bardati secondo la moda
sassanide, con selle decorate a fiori geometrici, ciuffi di piume sul
capo, code annodate e criniere rasate da un lato schiacciare con
zoccoli possenti i nemici sconfitti dagli Scià di Persia. Presto la
pesantezza di tali armate orientali sarebbe stata spazzata via dalla
leggerissima cavalleria islamica del califfo Abu Bakr, abituata a
resistere al calore del deserto e specializzata in imboscate tra le
tempeste di sabbia.
Proprio in questa fase
si ebbe il graduale passaggio dalla cosiddetta cavalleria pesante
romana e persiana, dove cavalli robustissimi ma lenti sostenevano il
peso enorme di cavalieri dotati di armature in ferro, alla cavalleria
leggera, che affidava le sue possibilità di vittoria alla maggiore
agilità e velocità del cavallo, debitamente addestrato per compiere
operazioni militari. Il Medioevo stava per avere inizio, e con esso,
l’Età dell’Oro del cavallo.
Lamina di scudo, cavaliere longobardo (Firenze - VII sec. d.C)
Altri barbari appresero
le tecniche degli Unni: primi fra tutti le infinite carovane dei Goti
che, apparsi già sulle coste del mar Nero già nel III secolo,
mettendosi in marcia tra Italia e Spagna e sconfiggendo gli Unni, due
secoli dopo avrebbero posto le basi per la definizione di nuove
comunità complesse del mondo occidentale: i regni Romano-Barbarici.
Tra tutti gli animali,
pur non scordando mai l’orso e soprattutto il lupo, una delle
specie a cui l'uomo si sentiva più affine e che meglio di altri
rappresentava l'incarnazione delle sue aspettative, i suoi sogni e i
suoi desideri, doveva restare sempre il cavallo: incarnazione di
intrepidezza e nobiltà.
Le fonti ricordano ancora
la fierezza e l’altissima stima goduta, al tempo, dal cavallo
turingio o «stellato»: una specie rarissima, dal manto color
dell’argento. I cavalli dei Goti passarono ai posteri tanto per la
loro bellezza, quanto per il coraggio e la forza nell’affrontare
qualsiasi impresa e comprendere ogni ordine impartito, «perché
discendevano da una razza assai bellicosa, allevata su pascoli
invernali».
Guerriero longobardo a cavallo (Cividale - VII sec d.C)
D’altra parte il noto
storico Tacito, già mezzo millennio prima nel «De
Germania» (I sec d.C)
aveva dato risalto all’abitudine dei Germani di giovarsi degli
ammonimenti dati loro dai loro stessi cavalli. Essi ritenevano che,
proprio come i Greci antichi, tra tutti gli animali solo il cavallo
potesse provare emozioni di dolore tali da piangere per un uomo.
Anche per questo, presso i Goti mangiare carne di cavallo costituiva
reato gravissimo.
Stroncati dalle insidie della Guerra Greco-Gotica (535-553), gli Ostrogoti cedettero il passo ai Longobardi: «Gens
etiam Germana Feritate Ferocior»
(popolo addirittura più feroce della ferocia germanica,) i cui
spostamenti a cavallo segnarono modifiche molto profonde sugli
assetti dell’Occidente.
Mai venuti a contatto coi
Romani, i Longobardi si vantavano con fierezza del loro «stato
brado». In una forma di civiltà progenitrice di quella vichinga, il
cavallo svolgeva un ruolo talmente importante che, come chiosa
l’Editto di Rotari (VII sec. d.C) «portare
le armi e andare a cavallo è un privilegio concesso esclusivamente a
uomini liberi».
Anche nella mitologia di questi popoli è sempre il cavallo, montato
da valchirie, a trasportare gli uomini tra le braccia degli dei
dell’Olimpo germanico: il Walhalla. I Longobardi, che avevano
vissuto più di cinquant’anni in Ungheria, attraverso i vicini
Àvari, diretti discendenti degli Unni ma ancor più bellicosi,
avevano appreso tutto quanto vi era da conoscere sui più ancestrali
riti guerrieri un tempo appartenenti agli Sciti: l’intera esistenza
di questo nuovo popolo nordico temprato dalla steppa ruotava
interamente attorno alla venerazione per il cavallo. Perfino le donne
d'alto rango, sebbene l'Editto di Rotari lo vietasse, si misuravano coi
rischi del tempo galoppando a caccia di bestie feroci.
Sepoltura
longobarda con cavallo (Cividale - VII sec. d.C)
Con la fondazione della
Langobardia Maior, lo stanziamento comportò l’importazione
e la diffusione in Italia di usi e costumi di origine asiatica: gli
eccezionali ritrovamenti archeologici di San Mauro a Cividale del
Friuli e di Vicenne in Molise attestano il particolare rituale della
sepoltura del cavaliere insieme al suo destriero: il guerriero e il
suo migliore amico, sacrificato per l’occasione, furono uniti nella
morte così come lo erano stati in vita.
La presenza del destriero
immolato accanto al suo padrone, oltre al grande attaccamento nei
confronti della cavalcatura, ribadì ancora una volta il primordiale
ruolo di «psicopompo», ossia accompagnatore delle anime dei morti
nell'Oltretomba. Il ritrovamento di staffe in tutte le tombe di
guerrieri dimostra l’uso di equipaggiamento equestre avanzato già
dal VI secolo. Il seppellimento contestuale dell'uomo e del cavallo
si era già peraltro segnalato un secolo prima presso la necropoli
Ostrogota torinese di Collegno.
Nell’atmosfera
tipicamente malinconica e rarefatta delle saghe germaniche, lo stesso
autore del poema sassone Beowulf (VII sec.d.C) dopo aver
ricordato i suoi cavalli validi in guerra lanciati al galoppo con i
manti fulvi dove le vie dei campi sono più conosciute, mise sulla
bocca del protagonista, mortalmente ferito dal drago e ormai giunto
alla fine dei suoi giorni, queste significative parole: «È
scomparso il piacere dell’arpa, il diletto del legno sonoro; non
vola più nella sala il bravo falco, il mio cavallo veloce non
scalpita più nella stalla, dentro la rocca. Una mala morte ha
scacciato via le specie viventi. Così, con mente lugubre, Beowulf
piangeva la sua pena».
A parte questa e poche
altre eccezioni, perdute le leggende tramandate per via orale in
assenza di un autore greco o romano che potesse trascriverle,
possiamo aiutarci con l’etimologia della lingua italiana, che nelle
parole di origine germanica ha conservato chiari riferimenti
all’onnipresenza del cavallo: «blank»
si riferiva al loro mantello chiaro, «marh»
significava cavallo marrone, poi più semplicemente cavallo, da cui
derivava anche il termine «mahrskalk»
ossia maniscalco; «blada»
era la biada, «bregdan»
significava tirare le briglie, «wiffa»
era un fascio di paglia e la «stalhalle»
o casa lunga di legno, tipica degli insediamenti rurali, divenne la
stalla per i cavalli.
Il nobile equino visse
però la vera sua età dell'oro dall’VIII al XIV secolo, quando
divenne il simbolo stesso della società feudale e del più potente
dei gruppi umani dell'epoca: la cavalleria barbarica dei Carolingi.
Fonte battesimale, magister Robertus (Lucca, S. Frediano - XII sec.d.C)
Il terreno fu preparato
dall'utilizzo della cavalleria pesante, che sfruttava la nuova
tecnica dell’inarrestabile forza d'urto promossa da Carlo Magno e
dai suoi successori, che strutturarono tutta la società franca al
punto da permettere il reclutamento e il mantenimento di una efficace
forza di cavalleria. Con «l’adozione per arma», secondo una
consuetudine ancora di stampo barbarico, il rapporto vassallatico
consentiva ai primi signori feudali di procurare ai loro vassalli il
cavallo da guerra, lo scudo e le armi in cambio del servizio militare
e dell’impegno di radunarsi al «campo di Marzo» al fine di
misurare la forza e la coesione collettiva: la stessa coesione con
cui i Franchi, dopo 3 secoli di tentativi, misero fine al regno
longobardo d’Italia. Il legame psicologico dei giuramenti e la
forza tecnica del cavallo sellato, ferrato e munito di staffe fecero
di questa disordinata accozzaglia di uomini, senza strategia né
disciplina militare, una macchina da guerra poderosa.
Fu da quel momento in
poi, grazie ai Franchi e ai Normanni, che la figura corazzata del
cavaliere in sella, armata di lancia o spada divenne l’immagine per
eccellenza della guerra medievale; il destriero, di suo, incarnava
più che mai gli antichi valori, d’ora in poi assimilati dai nuovi
ideali cavallereschi. Presto la guerra avrebbe conosciuto un tripudio
colorato d’infiniti simboli araldici: tra di essi anche forme
mitologiche e idealizzate dello stesso cavallo, in veste di pegaso e
unicorno.
Nella civiltà europea
basso-medievale l’importanza di avere un cavallo da guerra definì
lo status sociale della nuova classe dominante, ossia quella della
nobiltà militare, fino al XIV-XV secolo. In quest’epoca la
letteratura cavalleresca ci tramanda la memoria, spesso ammantata da
una leggendaria aura nebbiosa di innumerevoli imprese compiute a
cavallo. Informazioni sul come i cavalieri medievali concretamente
montassero i loro destrieri e di come questi venissero domati,
addestrati, accuditi ci giungono in maniera chiara dal trattato di
Giordano Ruffo di Calabria, ufficiale negli allevamenti imperiali
alla corte di Federico II. (prima metà del XIIII sec.). che tratta
di allevamento, di alimentazione e riproduzione, di doma e
addestramento, morsi, ferratura e struttura fisica dell’animale.
Circa l’allevamento equino selettivo, l’allevamento dei cavalli
nel Medioevo, pur importantissimo, non si basava più sul lignaggio
genetico i cavalli, ma ai fini della loro destinazione pratica.
Come abbiamo visto fino
ad ora, nell’immaginario pagano e militare il cavallo ha sempre
evocato con unanimità i valori di libertà, forza e bellezza: ma non
è stato sempre così. In particolare, la concorrenza del Clero ha
permesso che la passione per le simbologie implicanti Vizi e Virtù
fosse applicata anche sul cavallo con interpretazioni dal duplice
aspetto: la Chiesa del Mille, non volendosi associare con troppo
entusiasmo alla nascita della Cavalleria e al suo stile di vita
dilagante, andò a rispolverare nelle citazioni dell’antico
Fisiologo, capostipite di tutti i Bestiari moralizzati, passaggi
veterotestamentari in cui cavallo era citato perlopiù negativamente:
ed eccolo spiccare come campione di stolta alterigia, di passionalità
sfrenata e incapacità di obbedire senza l’imposizione della forza.
«Non siate come il
cavallo e come il mulo privi di intelligenza»,
esorta ad esempio il salmista (Salmo 32, 9). E che dire del profeta
Geremia? Drammatizzando la delusione del Signore per il tradimento
dei figli del suo Popolo, egli li definì «come
stalloni pasciuti focosi: ciascuno nitrisce dietro la moglie del suo
prossimo» (Geremia, 5,
8). Come ignorare che il cavallo è anche forte, potente nella corsa
e irresistibile in battaglia?
Questa caratteristica
nell’Antico Testamento viene addirittura condannata, perché,
ammonisce ancora salmista, «il
cavallo non giova per la vittoria, con tutta la sua forza non potrà
salvare». Solo
chi confida in Dio e nella Salvezza verrà risparmiato. E il profeta
Isaia: «guai a quanti scendono in Egitto per cercare aiuto e
pongono la speranza dei cavalli senza cercare il Signore». Il
destino di chi prenderà questa strada è impietoso come quello dei
Faraoni che inseguirono gli Ebrei fuggiti dall'Egitto: «allora
il terribile esercito del faraone fu travolto dalla potenza di Jahvé
che ha gettato in mare cavallo e cavaliere».
(Isaia, 31, 3).
T. Schuler, Carro della Morte (Strasburgo, Palais du Rohan -1844)
Nel Nuovo Testamento, il
messaggio giovanneo dell’Apocalisse, piuttosto criptico, vede
raffigurati quattro cavalli: un cavallo bianco, e colui che lo
cavalcava aveva un arco; un altro cavallo, rosso fuoco, al cui
cavaliere fu consegnata una grande spada; quindi un cavallo nero, e
colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano; infine un cavallo
verdastro, a cui veniva dietro l'inferno.
Gli ultimi tre cavalieri
sono chiaramente identificabili nelle personificazioni della guerra,
la cui cavalcatura ha manto rosso sangue; della carestia, nera come
la fame e della morte, con la cavalcatura livida come un cadavere in
decomposizione. Ma il primo cavaliere, quello che monta il cavallo
bianco, chi è? Forse non s tratta di una forza distruttrice, ma
della figura del Cristo trionfante che monta sul destriero bianco
della vittoria. Non a caso anche i cavalieri dell’iconografia
cristiana, come San Giorgio che uccide il drago, San Martino che
divide in due parti il suo mantello per donarne una a un povero, San
Paolo che viene disarcionato sulla via di Damasco e Sant'Ambrogio che
armato di flagello, irrompe fra le schiere nemiche montano tutti su
cavalli bianchi. Gli esegeti affermano quindi che ci sono cavalli di
Dio e cavalli del demonio.
Sant’Ambrogio
stesso che amava andare a cavallo, considerò con saggezza che la
simbologia del cavallo potesse essere considerata buona o cattiva a
seconda che la virtù dei loro cavalieri, o meglio delle loro anime
fosse stata in grado di cavalcarne o dominarne le passioni.
Resta il fatto che, in
ogni caso, nell’immaginario collettivo fiabesco l'eroe, il buono,
non potesse non montare una cavalcatura bianca: simbolo di purezza,
riflesso della stessa nobiltà d'animo del cavaliere.
Nel Rinascimento, lo
studio dell’equitazione in campo manualistico dimostrò che non vi
fu altra attività dell'uomo in cui, nel corso della storia, fossero
stati scritti così tanti testi di approfondimento. Ma il rapporto
che si stabilì nei secoli tra uomo e cavallo si modificò
gradualmente nell'ultimo periodo storico, da quando cioè il motore a
scoppio trasformò il modo di viaggiare e di fare la guerra. Infine,
dal Novecento in poi l'equitazione perse la propria importanza
utilitaristica e si trasformò in attività meramente
ludico-sportiva.
Eppure, il simbolo
artistico del monumento equestre come simbolo di potenza e prestigio
prospererà ancora per molto, in maniera più o meno politicizzata,
in tutta Europa: basti pensare ai grandi studi artistici dedicati
alla fisionomia equina effettuati dal Verrocchio, Donatello e da
Leonardo da Vinci, ma anche alle numerose statue equestri
post-risorgimentali, più o meno retoriche, che abbondano nelle
nostre città dalla fine dell’800.
Steppa con cavallo e rovine romane (Histria, Romania)
Ma che ne è stato
dello «spirito originario» del cavallo? Dapprima mistificato da
un clero fuorviato da interessi politici, obliato negli ultimi secoli
dagli incroci estenuanti tra specie che, con la presunzione della
purezza di sangue, hanno minato la salute e la resistenza di molti
esemplari, esso pare essersi definitivamente volatilizzato. Unica
possibilità forse, sarebbe quella di andare a rileggerlo in un
passato molto recente ma ugualmente estintosi, in maniera tragica:
quello degli indiani d’America. Introdotto nel Nuovo Mondo
dagli Spagnoli del XVI, la diffusione graduale e il ripopolamento del
cavallo furono incentivati da episodi come ribellioni, furti di
bestiame e la cattura di esemplari precedentemente tornati alla vita
selvatica.
Per gli indiani, che prima dell’arrivo degli Europei
avevano sempre percorso lunghe distanze sulle loro gambe, tutto
cambiò rapidamente. Come in una sorta di reminiscenza arcaica gli
sciamani amerindi, con una sensibilità degna dei popoli celtici
compresero da subito le potenzialità mistiche del cavallo,
attribuendogli le antiche virtù protettrici dello spirito-guida. Fu
così che, eletta la misteriosa creatura arrivata dall’Europa al
primo posto tra i totem animali del selvaggio West, ne percepirono da
subito l’energia ancestrale legata al mondo dell'aldilà. Essi,
ritenendo che la forza simboleggiata dal cavallo fosse la saggezza,
confidavano che il suo spirito si sarebbe avvalso della capacità di
trovare per il suo cavaliere i passi giusti lungo strada nella vita
presente, con l’aiuto delle reminiscenze di quelli realizzati nelle
vite precedenti.
A tal proposito un vecchio saggio indiano avrebbe detto:
«Fatti piccolo
davanti a lui e quando vuoi qualcosa, chiediglielo. Vedrai che i tuoi
occhi, attraverso i suoi, scopriranno un mondo che tu non hai mai
visitato». Ed
ecco il cavallo tornare ad essere inteso come medium spirituale, come
chiave per carpire i segreti delle forze creatrici di un altro mondo:
quel Nuovo Mondo che, con la sua immensa natura vergine, ha sopperito
al lontano ricordo di un’antica Madre Terra, cancellata per sempre.
Marco Corrìas (alias Marc Pevén)
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