Parte 2a
I Facchini e il “Rabisch”: un’accademia e un linguaggio segreto per sfuggire
all’Inquisizione.
Vincenzo Campi – I pollivendoli
(Brera, Milano, 1580)
L’anonimo poeta del “Cheribizo” (Ghiribizzo), poemetto anonimo scritto in gustoso
dialetto lombardo, per persuadere la sua donna a sposarlo le offrì un dono singolare:
“un
baslòt de crestal montagnul, tut intaiat, per man del Nibalìn, che no gh’à par” (un bacile di
cristallo montano, tutto intagliato per mano del Nibalino, che non conosce
confronti): il bacile, simbolo di fertilità, funge da pretesto per descrivere
in versi un ritratto della Milano cinquecentesca, con gli occhi di un paesano
capitato nel paese del bengodi.
Dietro la città monumentale, i più nobili monumenti lasciano rapidamente spazio a un’infinità di osterie dalle insegne fantasiose e colorate come tarocchi medievali per cui Milano, un tempo, andava tanto famosa. Le vie popolose, con le botteghe stracolme di cibarie e mercanzie, le voci dei mercanti ambulanti e le squadre compatte dei facchini erano le caratteristiche che più colpivano il poeta: “vedarì po’ i fachin de l’Oltolina, e quei de Val Intragna e Palanzasc, e da Macagn e dalla Val Travaia, da Bierenzona, Vegiez e Morbegnasch, gaiardissem e furt tug de schena, ch’in tug me fedelissem compagnòn!”esclamava, con riferimento agli abitanti delle valli tra Italia e Svizzera, i cui confini corrono ancora da ovest a est lungo i bacini montani dei grandi laghi lombardi, Maggiore, di Como e Lugano.
Dietro la città monumentale, i più nobili monumenti lasciano rapidamente spazio a un’infinità di osterie dalle insegne fantasiose e colorate come tarocchi medievali per cui Milano, un tempo, andava tanto famosa. Le vie popolose, con le botteghe stracolme di cibarie e mercanzie, le voci dei mercanti ambulanti e le squadre compatte dei facchini erano le caratteristiche che più colpivano il poeta: “vedarì po’ i fachin de l’Oltolina, e quei de Val Intragna e Palanzasc, e da Macagn e dalla Val Travaia, da Bierenzona, Vegiez e Morbegnasch, gaiardissem e furt tug de schena, ch’in tug me fedelissem compagnòn!”esclamava, con riferimento agli abitanti delle valli tra Italia e Svizzera, i cui confini corrono ancora da ovest a est lungo i bacini montani dei grandi laghi lombardi, Maggiore, di Como e Lugano.
Coppa in cristallo di manifattura
lombarda (Vienna, Historisches museum, XVII sec.)
Proprio
da qui, nei secoli scorsi, erano soliti scendere a Milano forti leve d’uomini di
fatica; facchini, spazzacamini, taglialegna, osti e castagnai: uomini spinti
dalla povertà verso la ricca pianura e i commerci della grande città. Era gente umile
e laboriosa, dalle aspre parlate, tra loro imparentate, che nella grande
metropoli suonavano all’orecchio dei cittadini con sonorità forestiere,
barbariche e divertenti, tanto da essere prese, non senza umana simpatia, a facile
motivo caricaturale.
Col tempo andò formandosi una raccolta
di scritti e componimenti poetici, pubblicati a Milano molto tardi: non prima
del 1589, per timore della censura religiosa. Il testo era parte integrante dei
“Rabisch”: una raccolta di poesie in
dialetto lombardo dal significato volutamente misterioso.
“Idea del tempio della
Pittura”, trattato del Lomazzo (1590).
“Rabisch!”
Che
fosse un geroglifico, oppure un rebus? Il
termine risultava talmente ostico anche ai contemporanei. Gli studiosi e
dialettologi del tempo vi interpretarono una comunanza con smorfie sgarbate,
bersi triviali e plebei, ma anche bizzarri intrecci di foglie, fiori, frutti e
animali. Il titolo della raccolta, stesa in un bizzarro miscuglio di idiomi dialettali,
in realtà significava “arabeschi”: come a dire "i Grotteschi”, con riferimento
a quella pittura di grottesche pittoriche, molto di moda al tempo e ampiamente
menzionate nel capitolo scorso.
G. Arcimboldo, l’Ortolano
(Cremona, Pinacoteca Ala Ponzone, 1590)
Il “rabisch”
in realtà era molto di più: con esso ci si riferisce quasi a un linguaggio
criptico, utilizzato da un’Accademia Segreta fondata nel 1560 in Milano da
alcuni dei più importanti artisti e letterati del tempo, tra i quali spiccava
il pittore e trattatista Giovan Paolo Lomazzo, allora appena ventenne. Essi
costituivano la cosiddetta “Accademia
della Val di Blenio”, che prendeva il nome in prestito da una valle a nord
est di Bellinzona, attualmente in Svizzera italiana ma allora facente parte del
Ducato di Milano, conosciuta fin dall’antichità come luogo privilegiato di
peregrinazioni di viaggiatori e riti pagani. Il circolo di artisti e letterati pensò pertanto di vestire i panni dei
facchini di queste valli e di simularne la lingua, gli usi e i costumi
facchineschi.
L’accademia,
di natura poetica, non forniva risposte immediate in campo artistico, ma
consentiva ai suoi membri di mettersi in rapporto tra loro e con le altre
culture anti-letterarie del tempo, come quella di Giuseppe Arcimboldo: lo stesso
grande artista milanese, prima di emigrare in Austria, suggestionato dalla cultura
dei Rabisch, nelle sue frutte e verdure non rinunciava ad accenni erotici, con
espliciti inviti a peccare nei formaggi, nelle carni e nei boccali di vino.
L’incontro tra due tradizioni,
letteraria e pittorica, entrambe caratterizzate da un alto tasso di bizzarria
umorale e invenzione artificiosa, di realismo e gioco, ci mettono di fronte a
un’idea di arte come creazione: una visione ereditata direttamente dallo
spirito d’osservazione di Leonardo da Vinci, che Lomazzo e gli artisti del suo
cenacolo fecero propria, isolandosi ed emarginandosi sempre più dal grande
cantiere del primo Borromeo.
Vincenzo
Campi, i Mangiatori di Ricotta (Musèe de Beaux Arts di Lione, 1580)
Il facchino bleniese, scelto come fonte d’ispirazione, era una variante del folle e del buffone della tradizione comico-popolare, ma sotto mentite spoglie vi si celavano anche il pastore arcadico, il buon selvaggio, il viandante, lo studioso, il filosofo e il mistico: insomma, come diremmo noi scherzosamente, anche il facchino a suo modo era un “Viaggiatore ignorante”; questa reazione segnalava il disagio del tempo presente: un’urgenza di verità e di libero appagamento dei sensi, privo di restrizioni morali e sofisticherie intellettuali della civiltà cittadina…non importa se ciò accadeva sognando il paese della Cuccagna, una terra mistica dell’antica Grecia, un postribolo della vecchia Milano o una terra ancor più inaccessibile, come il Nuovo Mondo da poco scoperto.
Capitolo significativo della storia
dell’arte, al cui centro si colloca la cultura figurativa comica e profana
della seconda metà del ‘500 a Milano, in Lombardia e Svizzera: l’accademia si rinforzò con l’elezione
perenne del Lomazzo ad abate.
G. P. Lomazzo. Autoritratto in veste
dell'abate dell'Accademia della val di Blenio (Milano, Brera, 1568)
Nel
noto ritratto dell’Accademia di Brera lo cogliamo di profilo, ancor giovane,
nell’atto di voltarsi verso il riguardante; La sua figura è avvolta in una
pelliccia ruvida; su una spalla regge un tirso attorto d’edera; la cartella e
il compasso che regge indicano la sua attività di pittore e la dignità di
“Abate”, nomina perpetua a capo dell’Accademia. Sfoderando un misterioso e
furbesco sorriso porta sul capo un cappello di paglia rozza, di tesa
larghissima, con foglie d’alloro e pampini: chiare allusioni al furore del vino
e all’estro poetico. Il tirso cuspidato e avvolto d’edera è anch’esso un
ricordo di Bacco: la sua forma, allusione a un simbolo fallico, è di quelle che
vogliono essere custodite in segreto (“la
servarem tra nugn de Bregn, in di còss secrett”). Appuntato al cappello
ostenta un medaglione ovale con l’immagine del dio Bacco, coronato d’alloro e
vite e seduto su un carro trainato da tigri e in mano un compasso: è un ritratto
nel ritratto, La duplicità del personaggio è dichiarata dalla scritta, apposta
dall’autore stesso, che si dichiara “Zavargna
nabas vallis Bregni Et Paulus Lomatius Pictor”.
Scorcio della Val di Blenio (Ch. Canton Ticino)
La
personalità
eccentrica e dall’aspetto sfuggente e ingannevole del Lomazzo si palesa
sempre più, come in una tela dell’Arcimboldo: il personaggio
rappresentato è sia il pittore e studioso Lomazzo, sia il Compare
Zarvagna,
facchino e capo di un’accademia - corporazione segreta. Inoltre si
tratta sì un
essere umano, ma quasi trasfigurato dai molti connotati semi-divini,
poiché
ispirato e immedesimato nel dio dell’ebbrezza, della vis poetica e della
resurrezione. Ed ecco scaturire sotto i nostri occhi la doppia
personalità del
Lomazzo: poeta, pittore, sommo mago di un gruppo di adepti…uno gnostico,
un
Simon Mago redivivo.
La pittura tese all'espressionismo, alla
deformazione caricaturale, in voluta contrapposizione alla maniera imperante e
alle richieste della Controroforma cattolica. Come accennato, oltre che
pennello il Lomazzo fu una penna prolifica: la sua bibliografia multiforme,
esordendo dal primo libro delle “Rime”
in cui sciorinava inattesi sonetti in lode delle virtù cristiane, al “Trattato”, pesante censura delle
immagini lascive, Giovan Paolo cambiò rotta con i “Rabisch”, scatenando la propria musa burchiellesca con visioni
oniriche ed episodi da taverna, fino a trasformare gli dei dell’Olimpo in
caricature di gusto popolare. Secondo passo, i “Sogni e Raggionamenti”, dove si abbandonò per la prima volta a un violento
sfogo anticlericale, profondendosi perfino nella descrizione di rapporti
sessuali dal realismo sconcertante. Fu
così Lomazzo concorse, dal punto di
vista letterario, con le più sfrenate fantasie oniriche di Paul Brughel, famoso
pittore fiammingo.
Scena di convivialità di pittore fiammingo
Conclusa la cappella Foppa, il destino
del Lomazzo pittore era già segnato. Divenuto cieco nel 1572 per via di una
malattia, il milanese si dedicò a nuovi scritti teorici e letterari che
lasciarono il segno nella Storia dell’Arte; opere in grado di fornire
un’insostituibile testimonianza della cultura lombarda del ‘500: dal “Trattato dell’Arte della Pittura”
(1584) all’”Idea del tempio della
Pittura” (1590).
Proprio
in quest’ultima opera il Lomazzo offrì la descrizione di un utopico tempio, le
cui immaginarie colonne di metallo prezioso erano niente meno che i “Sette
Governatori dell'Arte”: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Polidoro da
Caravaggio, Andrea Mantegna, Tiziano e Gaudenzio Ferrari. La presenza di due pittori lombardi e due veneti già da sé sarebbe
stata più che sufficiente a scardinare i criteri dell’allora imperante
“toscanocentrismo”; invece il contributo letterario del Lomazzo, intriso
com’era di esoterismo e metafisica, diede alla critica artistica dell’epoca
qualcosa di più fresco della solita ricognizione di meraviglie e aneddoti
tipica del celebre ma ormai antiquato Giorgio Vasari.
Ma
qual era il luogo di ritrovo dei Facchini? In verità non fu mai la val di
Blenio, luogo letterario e fonte d’ispirazione; i “gnieregad”, ossia conviti segreti dei ribelli si consumavano alla
luce delle candele degli angoli più bui delle molte e rinomate osterie di
Milano: le stesse descritte dal “Cheribizo”, all’inizio del nostro racconto. Un
simbolo caratteristico dell’Accademia, non a caso, era il “galigliobgn”: interpretato come un’offerta al dio Bacco, esso era un recipiente per bere a
forma di tubo, introdotto nell’accademia da “compà
Vinasc”, il che è tutto un programma: un galeone che andava sempre tenuto
colmo di vino da poterne bere a garganella: “vino
maschio, buono per far figli”. E chi non aveva mai bevuto a garganella da
quello “sporett” non poteva sapere
cosa fosse il vero piacere, di cui solo i facchini conoscendone le virtù, ne erano
degni.
A. Magnasco, il mercato del
Verziere (Milano, Castello Sforzesco, 1733)
Componendo
versi goliardici, proibiti dalla severa censura della Controriforma in quanto
influenzati dalla teologia orfica, dalla cabala e dalla magia naturale e
approfondendo in pittura gli esiti del caricaturismo leonardesco sotto
l’immaginario patronato di Belenos, dio del Sole, Apollo dell’Olimpo celtico, e
soprattutto di Bacco,
gli accademici della val di Blenio agivano contro il decoro e gli ordini
imposti dal regime ecclesiastico dell’arcivescovo Carlo Borromeo. Queste aspirazioni si realizzarono con l’uso
del “plurilinguismo”, della grottesca, del sogno, della metamorfosi, del
banchetto e della zuffa, alla ricerca di una contaminazione degli stili:
Scapigliatura o Futurismo ante litteram?
Avanguardia cinquecentesca.
L’obiettivo prefissato era il
raggiungimento di un’idea d’arte come creazione, come attitudine allo
sconfinamento, allo scopo di coalizzare le forze rimaste isolate rispetto alla
cultura dei più pedanti esponenti della Controriforma.
Eppure molti altri artisti, non solo del
luogo, ma anche i nuovi arrivati furono attratti dalle bizzarrie dei “compari”
della Val di Blenio…tra di essi possiamo identificare il ticinese Annibale
Fontana (scultore virtuoso, gioielliere e cristalliere), il genovese Ottavio
Semino (prolifico pittore neo-raffaellesco), Aurelio Luini (figlio d’arte di
Bernardino) e il Duchino (altro pittore, di levatura medio-bassa); tra gli
altri vi erano perfino un rinomato ricamatore (Scipione Delfinone), un musico
(l'organista del Duomo Giuseppe Caimo), e un ingegnere militare e idraulico
(Giacomo Soldati). Con gran divertimento
di tutti ciascuno di essi si celava, come nelle maschere della contemporanea
Commedia dell’Arte, dietro un soprannome dialettale: compà Zarvagna, compà
Lovign’…presto anche il bolognese Camillo Procaccini, capostipite di una
famiglia di eccellenti pittori, ne sarebbe stato totalmente coinvolto. Le raffigurazioni bacchiche descritte
dall’accademia bleniese dovettero attirare anche il giovanissimo Caravaggio e i
suoi primi dipinti di genere: la loro poetica irregolare forse influenzò le
prime opere capitali del genio autodidatta, come la Canestra di Frutta e il
Bacchino Malato.
Ma
come poté un gruppo del genere non incorrere mai nelle ire del potente vescovo
Carlo Borromeo? Semplice: i Facchini, oltre a celarsi dietro idee conformiste e
cattolicissimi dipinti, godevano di un protettore ben più concreto del
vagheggiato Bacco: proprio in quegli anni (1560-1604) un parente dello stesso
Carlo, Pirro Visconti Borromeo, si era fatto notare come talentuoso promotore
delle arti.
Camillo Procaccini, Villa Borromeo Litta di
Lainate, (XVI-XVII sec., Milano)
Consolidato il patrimonio familiare, Pirro aveva dato il via all’ambizioso cantiere della villa di Lainate: un palazzo principesco affrescato dal bolognese Camillo Procaccini e provvisto di un impressionante ninfeo provvisto di statue classiche e giochi d’acqua.
Paradosso:
proprio a partire da casa Borromeo il gusto per le grottesche, lo stesso che
avrebbe attecchito in seguito a Villa Cicogna Mozzoni a Bisuschio (Va),
piuttosto che in Villa Medici a Frscarolo (Va) o sull’Isola Bella (Vb),
incominciò a proliferare in maniera contagiosa,. Ovunque iniziarono a
campeggiare mosaici di ciottoli dipinti e fantasie affrescate, mediate
attraverso la conoscenza del parmense Correggio.
Non
a caso, Pirro Visconti Borromeo e Giovan Paolo Lomazzo si conoscevano! Il loro
incontro fu decisivo: l’episodio fondamentale della cultura artistica della
Milano profana viveva sotto la protezione del potente Pirro, che dopo la morte
di Carlo permise a Lomazzo e ai “facchini” di venire finalmente alla luce!
In un sonetto dedicato alla difesa
dell’Accademia rivolto a un compagno. Lomazzo scrisse “E fù’d sta scient or Lucca. Impirem on librasc di nòst scriciur, ch’o
faran stà i minchiogn ascòs ar scur” (E
fuori che sarà da questo mondo il Luca, riempiremo un grosso libro dei nostri
scritti che obbligheranno i minchioni a starsene nascosti al buio): il progetto
programmatico dei Facchini, evidentemente, era oscuramente subordinato alla
morte di qualcuno che prudentemente fu adombrato sotto il nome fittizio di
Luca: Carlo Borromeo.
Camillo Procaccini, Villa
Borromeo Litta di Lainate, (XVI-XVII sec., Milano)
E fu così che un’accademia gaudente,
guidata da un leader dalla fervida mente piena di dottrine filosofiche e
misteriosofiche, eletto dal gruppo come il più idoneo e preparato dal punto di
vista culturale, proliferò a insaputa del pericoloso Carlo con l’aiuto
dell’orgiastico dio del vino e di quello più terreno e concreto del suo parente
Pirro Visconti Borromeo.
Quasi
come in una reminiscenza del Decamerone del Boccaccio i Facchini pensavano,
prima o poi, che la forza “orgiastica” della vita avrebbe trionfato
sull’oppressione ideologica del tempo e sulla sciagura sopraggiunta in città
della peste bubbonica. Ma i Facchini avrebbero mai visto quel giorno tanto
sperato?
Soltanto per pochi anni: dopo la morte
di Carlo, l’avvento di Federico Borromeo quale nuovo arcivescovo avrebbe
segnato una nuova fase nella vita sociale e artistica di Milano e di tutta la
Lombardia. Troppo artificiosa e idealista, l’Accademia dei Facchini della Val
di Blenio si estinse non perché perseguitata, bensì per conto proprio. Con
Federico, a Milano scaturì una nuova e bizzarra arte a cavallo tra manierismo
internazionale e Barocco che non trovò riscontro in Italia: fu l’ultima grande
stagione culturale per Milano e la Lombardia intesa in senso ampio (..Piemonte,
Svizzera italiana..): presto una nuova ondata di peste, quella ricordata dal
Manzoni nei suoi “Promessi Sposi”, avrebbe cancellato quasi ogni forma di vita.
Marc Pevèn
(pseud. Marco Corrias).
BIBLIOGRAFIA
AA.VV, Rabisch. Il grottesco nell’arte
del ‘500, catalogo Skira, 1998
Iorio, Mitra, il mito della forza
invincibile, 1998
AA.VV, Pittura a Milano, rinascimento e
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AA.VV,
Il Cinquecento, in "Itinerari di Milano e provincia",
Provincia di Milano, Milano, 2000
Carlo e Federico, la luce dei Borromeo
nella Milano spagnola, Catalogo mostra museo diocesano 2005
C. Augias, Inchiesta sul cristianesimo,
2008
Dodds, i Greci e l’irrazionale, 2008
Ehrman – il vangelo del traditore, 2010
AA.VV, Arcimboldo, Artista milanese tra
Leonardo e Caravaggio, catalogo Skira, 2011
Vangelo, qualsiasi versione
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