domenica 24 luglio 2016

I "Facchini" della Val di Blenio: accademia segreta di Lombardia

Parte 2a
I Facchini e il “Rabisch”: un’accademia e un linguaggio segreto per sfuggire all’Inquisizione.


Vincenzo Campi – I pollivendoli (Brera, Milano, 1580)


L’anonimo poeta del “Cheribizo” (Ghiribizzo), poemetto anonimo scritto in gustoso dialetto lombardo, per persuadere la sua donna a sposarlo le offrì un dono singolare:
“un baslòt de crestal montagnul, tut intaiat, per man del Nibalìn, che no gh’à par” (un bacile di cristallo montano, tutto intagliato per mano del Nibalino, che non conosce confronti): il bacile, simbolo di fertilità, funge da pretesto per descrivere in versi un ritratto della Milano cinquecentesca, con gli occhi di un paesano capitato nel paese del bengodi.
Dietro la città monumentale, i più nobili monumenti lasciano rapidamente spazio a un’infinità di osterie dalle insegne fantasiose e colorate come tarocchi medievali per cui Milano, un tempo, andava tanto famosa. Le vie popolose, con le botteghe stracolme di cibarie e mercanzie, le voci dei mercanti ambulanti e le squadre compatte dei facchini erano le caratteristiche che più colpivano il poeta: “vedarì po’ i fachin de l’Oltolina, e quei de Val Intragna e Palanzasc, e da Macagn e dalla Val Travaia, da Bierenzona, Vegiez e Morbegnasch, gaiardissem e furt tug de schena, ch’in tug me fedelissem compagnòn!”esclamava, con riferimento agli abitanti delle valli tra Italia e Svizzera, i cui confini corrono ancora da ovest a est lungo i bacini montani dei grandi laghi lombardi, Maggiore, di Como e Lugano.

Coppa in cristallo di manifattura lombarda (Vienna, Historisches museum, XVII sec.)


Proprio da qui, nei secoli scorsi, erano soliti scendere a Milano forti leve d’uomini di fatica; facchini, spazzacamini, taglialegna, osti e castagnai: uomini spinti dalla povertà verso la ricca pianura e i commerci della grande città. Era gente umile e laboriosa, dalle aspre parlate, tra loro imparentate, che nella grande metropoli suonavano all’orecchio dei cittadini con sonorità forestiere, barbariche e divertenti, tanto da essere prese, non senza umana simpatia, a facile motivo caricaturale.
Col tempo andò formandosi una raccolta di scritti e componimenti poetici, pubblicati a Milano molto tardi: non prima del 1589, per timore della censura religiosa. Il testo era parte integrante dei “Rabisch”: una raccolta di poesie in dialetto lombardo dal significato volutamente misterioso.

 
“Idea del tempio della Pittura”, trattato del Lomazzo (1590).

“Rabisch!”
Che fosse un geroglifico, oppure un rebus? Il termine risultava talmente ostico anche ai contemporanei. Gli studiosi e dialettologi del tempo vi interpretarono una comunanza con smorfie sgarbate, bersi triviali e plebei, ma anche bizzarri intrecci di foglie, fiori, frutti e animali. Il titolo della raccolta, stesa in un bizzarro miscuglio di idiomi dialettali, in realtà significava “arabeschi”: come a dire "i Grotteschi”, con riferimento a quella pittura di grottesche pittoriche, molto di moda al tempo e ampiamente menzionate nel capitolo scorso.

G. Arcimboldo, l’Ortolano (Cremona, Pinacoteca Ala Ponzone, 1590)


Il “rabisch” in realtà era molto di più: con esso ci si riferisce quasi a un linguaggio criptico, utilizzato da un’Accademia Segreta fondata nel 1560 in Milano da alcuni dei più importanti artisti e letterati del tempo, tra i quali spiccava il pittore e trattatista Giovan Paolo Lomazzo, allora appena ventenne. Essi costituivano la cosiddetta “Accademia della Val di Blenio”, che prendeva il nome in prestito da una valle a nord est di Bellinzona, attualmente in Svizzera italiana ma allora facente parte del Ducato di Milano, conosciuta fin dall’antichità come luogo privilegiato di peregrinazioni di viaggiatori e riti pagani. Il circolo di artisti e letterati pensò pertanto di vestire i panni dei facchini di queste valli e di simularne la lingua, gli usi e i costumi facchineschi.
L’accademia, di natura poetica, non forniva risposte immediate in campo artistico, ma consentiva ai suoi membri di mettersi in rapporto tra loro e con le altre culture anti-letterarie del tempo, come quella di Giuseppe Arcimboldo: lo stesso grande artista milanese, prima di emigrare in Austria, suggestionato dalla cultura dei Rabisch, nelle sue frutte e verdure non rinunciava ad accenni erotici, con espliciti inviti a peccare nei formaggi, nelle carni e nei boccali di vino.
L’incontro tra due tradizioni, letteraria e pittorica, entrambe caratterizzate da un alto tasso di bizzarria umorale e invenzione artificiosa, di realismo e gioco, ci mettono di fronte a un’idea di arte come creazione: una visione ereditata direttamente dallo spirito d’osservazione di Leonardo da Vinci, che Lomazzo e gli artisti del suo cenacolo fecero propria, isolandosi ed emarginandosi sempre più dal grande cantiere del primo Borromeo.



Vincenzo Campi, i Mangiatori di Ricotta (Musèe de Beaux Arts di Lione, 1580)


Il facchino bleniese, scelto come fonte d’ispirazione, era una variante del folle e del buffone della tradizione comico-popolare, ma sotto mentite spoglie vi si celavano anche il pastore arcadico, il buon selvaggio, il viandante, lo studioso, il filosofo e il mistico: insomma, come diremmo noi scherzosamente, anche il facchino a suo modo era un “Viaggiatore ignorante”; questa reazione segnalava il disagio del tempo presente: un’urgenza di verità e di libero appagamento dei sensi, privo di restrizioni morali e sofisticherie intellettuali della civiltà cittadina…non importa se ciò accadeva sognando il paese della Cuccagna, una terra mistica dell’antica Grecia, un postribolo della vecchia Milano o una terra ancor più inaccessibile, come il Nuovo Mondo da poco scoperto.
Capitolo significativo della storia dell’arte, al cui centro si colloca la cultura figurativa comica e profana della seconda metà del ‘500 a Milano, in Lombardia e Svizzera: l’accademia si rinforzò con l’elezione perenne del Lomazzo ad abate.


  G. P. Lomazzo. Autoritratto in veste dell'abate dell'Accademia della val di Blenio (Milano, Brera, 1568)


Nel noto ritratto dell’Accademia di Brera lo cogliamo di profilo, ancor giovane, nell’atto di voltarsi verso il riguardante; La sua figura è avvolta in una pelliccia ruvida; su una spalla regge un tirso attorto d’edera; la cartella e il compasso che regge indicano la sua attività di pittore e la dignità di “Abate”, nomina perpetua a capo dell’Accademia. Sfoderando un misterioso e furbesco sorriso porta sul capo un cappello di paglia rozza, di tesa larghissima, con foglie d’alloro e pampini: chiare allusioni al furore del vino e all’estro poetico. Il tirso cuspidato e avvolto d’edera è anch’esso un ricordo di Bacco: la sua forma, allusione a un simbolo fallico, è di quelle che vogliono essere custodite in segreto (“la servarem tra nugn de Bregn, in di còss secrett”). Appuntato al cappello ostenta un medaglione ovale con l’immagine del dio Bacco, coronato d’alloro e vite e seduto su un carro trainato da tigri e in mano un compasso: è un ritratto nel ritratto, La duplicità del personaggio è dichiarata dalla scritta, apposta dall’autore stesso, che si dichiara “Zavargna nabas vallis Bregni Et Paulus Lomatius Pictor”.
Scorcio della Val di Blenio (Ch. Canton Ticino)


La personalità eccentrica e dall’aspetto sfuggente e ingannevole del Lomazzo si palesa sempre più, come in una tela dell’Arcimboldo: il personaggio rappresentato è sia il pittore e studioso Lomazzo, sia il Compare Zarvagna, facchino e capo di un’accademia - corporazione segreta. Inoltre si tratta sì un essere umano, ma quasi trasfigurato dai molti connotati semi-divini, poiché ispirato e immedesimato nel dio dell’ebbrezza, della vis poetica e della resurrezione. Ed ecco scaturire sotto i nostri occhi la doppia personalità del Lomazzo: poeta, pittore, sommo mago di un gruppo di adepti…uno gnostico, un Simon Mago redivivo.

La pittura tese all'espressionismo, alla deformazione caricaturale, in voluta contrapposizione alla maniera imperante e alle richieste della Controroforma cattolica. Come accennato, oltre che pennello il Lomazzo fu una penna prolifica: la sua bibliografia multiforme, esordendo dal primo libro delle “Rime” in cui sciorinava inattesi sonetti in lode delle virtù cristiane, al “Trattato”, pesante censura delle immagini lascive, Giovan Paolo cambiò rotta con i “Rabisch”, scatenando la propria musa burchiellesca con visioni oniriche ed episodi da taverna, fino a trasformare gli dei dell’Olimpo in caricature di gusto popolare. Secondo passo, i “Sogni e Raggionamenti”, dove si abbandonò per la prima volta a un violento sfogo anticlericale, profondendosi perfino nella descrizione di rapporti sessuali dal realismo sconcertante. Fu così Lomazzo concorse, dal punto di vista letterario, con le più sfrenate fantasie oniriche di Paul Brughel, famoso pittore fiammingo.

Scena di convivialità di pittore fiammingo
 
Conclusa la cappella Foppa, il destino del Lomazzo pittore era già segnato. Divenuto cieco nel 1572 per via di una malattia, il milanese si dedicò a nuovi scritti teorici e letterari che lasciarono il segno nella Storia dell’Arte; opere in grado di fornire un’insostituibile testimonianza della cultura lombarda del ‘500: dal “Trattato dell’Arte della Pittura” (1584) all’”Idea del tempio della Pittura” (1590).
Proprio in quest’ultima opera il Lomazzo offrì la descrizione di un utopico tempio, le cui immaginarie colonne di metallo prezioso erano niente meno che i “Sette Governatori dell'Arte”: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Polidoro da Caravaggio, Andrea Mantegna, Tiziano e Gaudenzio Ferrari. La presenza di due pittori lombardi e due veneti già da sé sarebbe stata più che sufficiente a scardinare i criteri dell’allora imperante “toscanocentrismo”; invece il contributo letterario del Lomazzo, intriso com’era di esoterismo e metafisica, diede alla critica artistica dell’epoca qualcosa di più fresco della solita ricognizione di meraviglie e aneddoti tipica del celebre ma ormai antiquato Giorgio Vasari.

Ma qual era il luogo di ritrovo dei Facchini? In verità non fu mai la val di Blenio, luogo letterario e fonte d’ispirazione; i “gnieregad”, ossia conviti segreti dei ribelli si consumavano alla luce delle candele degli angoli più bui delle molte e rinomate osterie di Milano: le stesse descritte dal “Cheribizo”, all’inizio del nostro racconto. Un simbolo caratteristico dell’Accademia, non a caso, era il “galigliobgn”: interpretato come un’offerta al dio Bacco, esso era un recipiente per bere a forma di tubo, introdotto nell’accademia da “compà Vinasc”, il che è tutto un programma: un galeone che andava sempre tenuto colmo di vino da poterne bere a garganella: “vino maschio, buono per far figli”. E chi non aveva mai bevuto a garganella da quello “sporett” non poteva sapere cosa fosse il vero piacere, di cui solo i facchini conoscendone le virtù, ne erano degni.

A. Magnasco, il mercato del Verziere (Milano, Castello Sforzesco, 1733)


Componendo versi goliardici, proibiti dalla severa censura della Controriforma in quanto influenzati dalla teologia orfica, dalla cabala e dalla magia naturale e approfondendo in pittura gli esiti del caricaturismo leonardesco sotto l’immaginario patronato di Belenos, dio del Sole, Apollo dell’Olimpo celtico, e soprattutto di Bacco, gli accademici della val di Blenio agivano contro il decoro e gli ordini imposti dal regime ecclesiastico dell’arcivescovo Carlo Borromeo. Queste aspirazioni si realizzarono con l’uso del “plurilinguismo”, della grottesca, del sogno, della metamorfosi, del banchetto e della zuffa, alla ricerca di una contaminazione degli stili: Scapigliatura o Futurismo ante litteram?
Avanguardia cinquecentesca.
L’obiettivo prefissato era il raggiungimento di un’idea d’arte come creazione, come attitudine allo sconfinamento, allo scopo di coalizzare le forze rimaste isolate rispetto alla cultura dei più pedanti esponenti della Controriforma.
Eppure molti altri artisti, non solo del luogo, ma anche i nuovi arrivati furono attratti dalle bizzarrie dei “compari” della Val di Blenio…tra di essi possiamo identificare il ticinese Annibale Fontana (scultore virtuoso, gioielliere e cristalliere), il genovese Ottavio Semino (prolifico pittore neo-raffaellesco), Aurelio Luini (figlio d’arte di Bernardino) e il Duchino (altro pittore, di levatura medio-bassa); tra gli altri vi erano perfino un rinomato ricamatore (Scipione Delfinone), un musico (l'organista del Duomo Giuseppe Caimo), e un ingegnere militare e idraulico (Giacomo Soldati). Con gran divertimento di tutti ciascuno di essi si celava, come nelle maschere della contemporanea Commedia dell’Arte, dietro un soprannome dialettale: compà Zarvagna, compà Lovign’…presto anche il bolognese Camillo Procaccini, capostipite di una famiglia di eccellenti pittori, ne sarebbe stato totalmente coinvolto.  Le raffigurazioni bacchiche descritte dall’accademia bleniese dovettero attirare anche il giovanissimo Caravaggio e i suoi primi dipinti di genere: la loro poetica irregolare forse influenzò le prime opere capitali del genio autodidatta, come la Canestra di Frutta e il Bacchino Malato.
Ma come poté un gruppo del genere non incorrere mai nelle ire del potente vescovo Carlo Borromeo? Semplice: i Facchini, oltre a celarsi dietro idee conformiste e cattolicissimi dipinti, godevano di un protettore ben più concreto del vagheggiato Bacco: proprio in quegli anni (1560-1604) un parente dello stesso Carlo, Pirro Visconti Borromeo, si era fatto notare come talentuoso promotore delle arti.
 
Camillo Procaccini, Villa Borromeo Litta di Lainate, (XVI-XVII sec., Milano)

Consolidato il patrimonio familiare, Pirro aveva dato il via all’ambizioso cantiere della villa di Lainate: un palazzo principesco affrescato dal bolognese Camillo Procaccini e provvisto di un impressionante ninfeo provvisto di statue classiche e giochi d’acqua.
Paradosso: proprio a partire da casa Borromeo il gusto per le grottesche, lo stesso che avrebbe attecchito in seguito a Villa Cicogna Mozzoni a Bisuschio (Va), piuttosto che in Villa Medici a Frscarolo (Va) o sull’Isola Bella (Vb), incominciò a proliferare in maniera contagiosa,. Ovunque iniziarono a campeggiare mosaici di ciottoli dipinti e fantasie affrescate, mediate attraverso la conoscenza del parmense Correggio.
Non a caso, Pirro Visconti Borromeo e Giovan Paolo Lomazzo si conoscevano! Il loro incontro fu decisivo: l’episodio fondamentale della cultura artistica della Milano profana viveva sotto la protezione del potente Pirro, che dopo la morte di Carlo permise a Lomazzo e ai “facchini” di venire finalmente alla luce!
In un sonetto dedicato alla difesa dell’Accademia rivolto a un compagno. Lomazzo scrisse “E fù’d sta scient or Lucca. Impirem on librasc di nòst scriciur, ch’o faran stà i minchiogn ascòs ar scur” (E fuori che sarà da questo mondo il Luca, riempiremo un grosso libro dei nostri scritti che obbligheranno i minchioni a starsene nascosti al buio): il progetto programmatico dei Facchini, evidentemente, era oscuramente subordinato alla morte di qualcuno che prudentemente fu adombrato sotto il nome fittizio di Luca: Carlo Borromeo.

 
Camillo Procaccini, Villa Borromeo Litta di Lainate, (XVI-XVII sec., Milano)


E fu così che un’accademia gaudente, guidata da un leader dalla fervida mente piena di dottrine filosofiche e misteriosofiche, eletto dal gruppo come il più idoneo e preparato dal punto di vista culturale, proliferò a insaputa del pericoloso Carlo con l’aiuto dell’orgiastico dio del vino e di quello più terreno e concreto del suo parente Pirro Visconti Borromeo.
Quasi come in una reminiscenza del Decamerone del Boccaccio i Facchini pensavano, prima o poi, che la forza “orgiastica” della vita avrebbe trionfato sull’oppressione ideologica del tempo e sulla sciagura sopraggiunta in città della peste bubbonica. Ma i Facchini avrebbero mai visto quel giorno tanto sperato?

Soltanto per pochi anni: dopo la morte di Carlo, l’avvento di Federico Borromeo quale nuovo arcivescovo avrebbe segnato una nuova fase nella vita sociale e artistica di Milano e di tutta la Lombardia. Troppo artificiosa e idealista, l’Accademia dei Facchini della Val di Blenio si estinse non perché perseguitata, bensì per conto proprio. Con Federico, a Milano scaturì una nuova e bizzarra arte a cavallo tra manierismo internazionale e Barocco che non trovò riscontro in Italia: fu l’ultima grande stagione culturale per Milano e la Lombardia intesa in senso ampio (..Piemonte, Svizzera italiana..): presto una nuova ondata di peste, quella ricordata dal Manzoni nei suoi “Promessi Sposi”, avrebbe cancellato quasi ogni forma di vita.

Marc Pevèn (pseud. Marco Corrias).




BIBLIOGRAFIA
AA.VV, Rabisch. Il grottesco nell’arte del ‘500, catalogo Skira, 1998
Iorio, Mitra, il mito della forza invincibile, 1998
AA.VV, Pittura a Milano, rinascimento e manierismo, Cariplo, 1998
AA.VV,  Il Cinquecento, in "Itinerari di Milano e provincia", Provincia di Milano, Milano, 2000
Carlo e Federico, la luce dei Borromeo nella Milano spagnola, Catalogo mostra museo diocesano 2005
C. Augias, Inchiesta sul cristianesimo, 2008
Dodds, i Greci e l’irrazionale, 2008
Ehrman – il vangelo del traditore, 2010
AA.VV, Arcimboldo, Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio, catalogo Skira, 2011
Vangelo, qualsiasi versione

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