mercoledì 9 novembre 2016

Guido da Velate (1045-1071 d.C): crudele depravato o vescovo ligio al dovere?

Sulle scale della Rocca d'Angera, teatro di fasti e misfatti (Va)

Velate, amena frazione situata a nord dell’area urbana della città di Varese, conserva una delle più impressionanti testimonianze medievali del suo territorio: il rudere di una colossale torre in pietra, facente già parte della linea fortificata altomedievale del “limes” prealpino della potente Castelseprio. Le origini antiche del luogo sono confermate dall’esistenza, in età tardoantica, di un borgo fortificato: il “castrum de Vellate”, strategicamente piazzato a controllo della strada principale per il lago Maggiore. La famosa torre di Velate, bene FAI dal 1989, incombe sul borgo limitrofo; i suoi ruderi in pietra viva sono visibili già nei pressi del cimitero, appena fuori dall'abitato. 

Fin dai primi studi la mole turrita, edificata dai nobili filoimperiali del casato Da Velate, ha costituito un vero e proprio enigma: generazioni di studiosi, da sempre colpiti dalle dimensioni dei resti, quasi fuori scala rispetto all’ambiente circostante, non erano mai state capaci di chiarire le vere funzioni di questa sorta di grattacielo datato attorno all’anno Mille.

La vertiginosa altezza della torre di Velate (Va)

La torre di Velate svetta all’altezza di 33 metri, con cinque piani anticamente collegati tra loro da un complesso sistema di scale. Indubbiamente non si tratta dell’unico gigante presente nel Verbano: anche la Torre Castellana della rocca di Angera (XI-XII sec.), antecedente al castello, presenta la rispettabile altezza complessiva di 31 metri per quattro piani; la tetra mole della contemporanea Torre Nera, inglobata nella cinta tre-quattrocentesca di Castelgrande di Bellinzona, s'innalza per 28 metri distribuiti addirittura su sei piani. La torre di Velate però riserva un’altra notevole diversità; si tratta di un corpo composito, costituito da un paio di blocchi assemblati: una torre maggiore e una minore, addossata su un lato. 

Credere che una struttura di tale imponenza e tipicità, unica in Italia, potesse essere adibita alle modeste funzioni di torre di vedetta, a questo punto, è diventato davvero difficile. L’arcano è stato infine svelato dagli ultimi studi del professor Tamborini: i caratteri della torre sarebbero quelli tipici dei primi “donjon” francesi dell’XI e XII secolo. Il dongione era la torre più alta del castello: l’edificio centrale della fortezza, dove era posta la residenza del signore progettata per servire sia come punto d’osservazione privilegiato sia da rifugio d’emergenza, nel caso in cui il resto della fortezza fosse caduto in mano nemica.

Non a caso, la parola francese “donjon” deve il suo nome al tardo latino “dominionus”, ossia residenza del signore. Ed ecco svelata la funzione della torre appoggiata al blocco principale: “le petit donjon” o piccolo dongione, di fatto, diventava anche un prezioso contrafforte, come quello che a Velate ha indubbiamente contribuito a salvare la parete superstite. La torre rappresenta ciò che avanza di quello che dovette essere un poderoso fortilizio: i capitani della famiglia Da Velate, che detenevano le proprietà e le ricchezze del monastero di Santa Maria, poi divenuta parte del Sacro Monte di Varese, erano ricchi nobili di provincia con solide alleanze al di là delle Alpi: Guido da Velate, arcivescovo di Milano tra il 1045 e il 1069, fu nientemeno che il cappellano dell’imperatore di Germania Enrico III detto il Nero. 

Ariberto, grande arcivescovo ambrosiano predecessore di Guido, ritratto a sbalzo sul piede della croce omonima (Mi, museo del tesoro del Duomo, XI sec.)

Le poderose murature sopravvissute incombono sul visitatore; sulla sinistra si aprono piccole monofore strombate, tipicamente romaniche; sulla destra più ampi accessi ad arco. Il dongione era adibito a svariate finzioni: alla sua base si trovavano una cantina e un magazzino; il primo piano ospitava l’aula “donjonis” o sala di rappresentanza, dove si soleva trattare di affare e questioni pubbliche; il secondo e il terzo piano alloggiavano la stanza del signore Da Velate e della sua famiglia; il quarto e quinto erano occupati dagli alloggi delle guarnigioni e della servitù. I camini, presenti a ogni piano, assicuravano il riscaldamento all’intero complesso. Sulla cima, un tetto d’ardesia provvisto di spioventi assicurava lo scolo delle acque piovane. Anche a Velate la porta d’accesso si trovava al primo piano; tuttavia, allo scopo di utilizzare al meglio gli spazi abitabili, la rampa di scale era situata all’esterno: nel “petit donjon”.

La torre si erge a testimonianza di una serie infinita di vicende belliche che portarono il suo fortilizio alla definitiva scomparsa. Protagonista della guerra decennale tra Milano e Como, fu gravemente danneggiata alla fine del XII secolo dai milanesi vittoriosi sulle milizie imperiali e alleate del Barbarossa, tra cui militavano i nobili di Velate, e subì nuovi danni nel XIII secolo, durante la guerra tra Visconti e Torriani: la stessa guerra che segnò la fine di CastelSeprio. Se la vita dell'edificio come baluardo militare termina agli albori del Basso Medioevo, nuove ricerche ci informano sulla sua conversione agricola tra XIII e XIV secolo. Da campo di battaglia, Velate fu tramutata in terra di vigneti terrazzati: non per nulla, già dal medioevo l’alto Varesotto si era distinto come terra fertile, destinata all’agricoltura. Dopo secoli di abbandono, la donazione del 1989 ha permesso al FAI di recuperarla e valorizzarla.

Velate (Va): Antichissime monofore si aprono su una muratura di pietra grigia, mattoni e porfido rosa


Nonostante l’ameno paesaggio prealpino che la circonda, la torre rievoca le vicende di un personaggio oscuro e controverso: Guido (o Wido) da Velate. Discendente di una famiglia della nobiltà rurale, probabilmente d’origine longobarda, insediatasi nel territorio di Varese, Guido emerse dalle pagine della storia dal 1045, quando occupò la cattedra arcivescovile di Milano come successore del celeberrimo Ariberto d’Intimiano. Tutto ebbe inizio con i tentativi di rafforzamento dell’autorità regia in Italia da parte dell’imperatore di Germania Enrico III detto “il Nero”

Il sovrano, che era già riuscito a imporre ben quattro suoi favoriti sul soglio pontificio, era fermamente convinto di poter adottare la stessa tattica anche con i milanesi: fu così che, rifiutatosi di scendere a patti con una nobiltà cittadina particolarmente orgogliosa della propria storica autonomia, Enrico impose Guido, già cappellano di corte in terra tedesca, alla guida della cattedra ambrosiana. Le conseguenze di questa manovra spregiudicata non tardarono a farsi sentire: per una fetta della cittadinanza l’imposizione di un forestiero e sconosciuto ai più costituì un vero e proprio atto di lesa maestà. Certamente, il nuovo vescovo mirava a restituire all’Impero il potere perduto su Milano; eppure cercò anche di ricucire le spaccature sorte tra le fazioni cittadine in perenne lotta. 

La situazione si aggravò con lo scoppiò di un nuovo movimento ereticale: la “pataria”. Sviluppatasi a Milano a partire dalla predicazione di Arialdo da Cucciago, la consorteria dei patarini, ossia degli “straccioni” poiché costituita dal clero minore, dagli artigiani e dal popolo minuto, iniziò a predicare in città il ritorno alla povertà e alla purezza delle prime comunità cristiane. Particolarmente sentita era la necessità di riportare il clero ambrosiano, da tempo assuefatto alla pratica del matrimonio, del concubinato e della vendita delle cariche ecclesiastiche, ai costumi morali più consoni. Agli inizi il messaggio di Arialdo non ebbe grande presa: dalla parte dell'arcivescovo Guido vi era la maggior parte del clero, della nobiltà “corrotta” e perfino i papi di nomina imperiale. 

Cavaliere toscano con lancia in resta. Miniatura attribuita a Pacino di Buonaguida (XIV sec.)

Nel 1057 Arialdo e il suo alleato Landolfo Cotta, chierico e   notaio, chiamati a discolparsi al sinodo di Fontaneto presso Novara, non si presentarono: la scomunica in contumacia nei loro confronti si rese immediata. Fu allora che Arialdo scatenò nel contado una fiera rivolta contro Guido da Velate. Il tumulto, diffusosi anche in città, culminò in violenti scontri; non soddisfatto, Arialdo favorì l'invio da Roma di una missione a carattere esplorativo, con l'incarico di porre fine alle pratiche sacrileghe del clero ambrosiano; se l’eretico riuscì a pilotare una delegazione guidata da temibili legati pontifici come Anselmo da Baggio e Ildebrando da Soana, evidentemente Guido non era il solo “uomo molto abile nelle faccende temporali”. 

Di fronte alla morte di Landolfo, caduto in un imboscata, l’arruolamento da parte di Arialdo di suo fratello, il cavaliere Erlembaldo Cotta, gli diede la possibilità di disporre di un braccio armato per intervenire nelle faccende del mondo monastico milanese: gli abati eletti da Guido furono scacciati con violenza dalle proprie sedi, le loro case saccheggiate e date alle fiamme. A quel punto i patarini azzardarono l’attacco frontale a Guido stesso, definito “lussurioso, simoniaco e incestuoso”. Paradossalmente, l’offensiva degli eretici al clero regolare e alle istituzioni ecclesiastiche milanesi favorì il rinsaldarsi di un fronte compatto: clero maggiore, aristocrazia feudale e arcivescovo misero da parte i conflitti reciproci a vantaggio degli interessi comuni. Ma il destino di Guido era segnato: dopo anni di dispense papali, la politica pontificia era prossima al cambiamento. Nel 1066 Anselmo da Baggio, divenuto papa col nome di Alessandro II, inviò a Guido la bolla di scomunica. 
Quest’ultimo, accusando a ragione i capi patarini di voler sottomettere la Chiesa ambrosiana a Roma, incitò i cittadini a difenderne l'onore e il prestigio: effettivamente, Arialdo si era perfino spinto nel tentativo di romanizzare l’antichissima liturgia della chiesa ambrosiana. 

Guerrieri lombardi in assetto da guerra (Como. S. Abbondio, XIV sec.)

Scoppiarono ancora una volta violenti scontri e con l’appoggio del nuovo papa, infine, Milano cadde in balia dei patarini. L’arcivescovo, esasperato, lasciò la città alla volta della rocca d’Angera e da qui inviò i suoi sicari in cerca di Arialdo. Pochi giorni dopo il fomentatore fu catturato, trasportato alla fortezza e ucciso. 
La tradizione martirologica vuole che qui, presso la vicina isolotto di Partegora, Arialdo fosse orribilmente torturato e castrato dagli alleati del Seprio per ordine di Donna Oliva, nipote e amante di Guido. Il suo corpo fu gettato a lago, perduto e ritrovato più volte, fino alla definitiva beatificazione e traslazione nel Duomo di Milano. Guido fu scomunicato dal papa, ma questo affronto alla dignità della Chiesa milanese spostò nuovamente il favore del popolo dai patarini all'arcivescovo. 

Dopo due anni d’anarchia, Erlembaldo si pose alla guida del movimento degli "eretici" armati, che si ricompattò grazie anche a un nuovo intervento regolatore della Curia pontificia: Guido, attaccato insieme ai suoi parenti e sostenitori, non fu più in grado di fronteggiare la nuova offensiva e preferì rinunciare alla cattedra milanese, restituendo nel 1068 all'imperatore Enrico IV le insegne episcopali. Nell’ultimo tentativo di tornare in città allo scopo di intavolare trattative con Erlembaldo, Guido lasciò il sicuro rifugio delle possessioni episcopali e fu catturato, condotto a Milano e rinchiuso nel monastero di S. Celso. 

La confusione seguita a un incendio gli permise di evadere dalla prigionia e di rinchiudersi nella rocca di Bergoglio nell’Alessandrino: da qui continuò a rifiutare le ingerenze del papa, che voleva arrogarsi il diritto di eleggere i vescovi, e propose egli stesso il suo successore nella persona del suddiacono Gotofredo da Castiglione, che ricevette l'investitura da parte di Enrico IV nel 1070. I milanesi si dice, generalizzando, rigettarono il nuovo arcivescovo proprio come era accaduto a Guido: la lotta non era finita.

L'isolotto Partegora, dove il corpo di S. Arialdo fu ripescato, è oggi area naturalistica protetta



Lungi dal voler riabilitare la figura equivoca di Guido da Velate in un’epoca in cui gli ecclesiastici erano facilmente “vescovi-conti”, violenti e per nulla intenzionati a rinunciare alla vita mondana, il giudizio dei posteri, inquinato da logori stereotipi, ha cristallizzato il personaggio storico in un malvagio da romanzo gotico. 

Bisognerebbe ricordare che Guido aveva ereditato la cattedra vescovile più bollente d’Europa: Milano, città ricchissima e ambita, era perennemente funestata da rivalità tra Papato e Impero, tra vassalli maggiori e valvassori. 
Benché il vescovo in questione si adoperasse, spesso con successo, proprio in difesa delle prerogative ambrosiane dall'ingerenza della chiesa romana, la cosa non è mai stata messa in luce nella maniera dovuta. Le sue virtù di mediatore tra le avverse fazioni, lungi dall’essere apprezzate, gli valsero giudizi negativi come quello del cronista Arnolfo, che lo definì “uomo molto abile nelle faccende temporali e nelle trame segrete, ma quasi per nulla erudito nelle cose divine” e di Landolfo Seniore, che lo bollò come «idiotam et a rure venientem» (ignorante e campagnolo). Premesso che tali cronisti erano filo-patarini, non bisogna nemmeno scordare che Guido, già cappellano imperiale, non doveva essere poi così incolto. 

Scavando nella storia, inoltre, si è perfino scoperto che prima dell’imposizione imperiale di Guido da Velate i nomi del "beato" Arialdo, di Landolfo Cotta e di Anselmo da Baggio erano a loro volta iscritti alla lista dei candidati alla successione dell’ambita cattedra ambrosiana: un retroscena che svela un probabile complotto. 

Come a chiudere il cerchio magico, noteremo che dopo Anselmo da Baggio fu, non a caso, il turno del suo succitato collega, Ildebrando di Soana, divenuto poi celeberrimo papa con il nome di Gregorio VII: con Matilde di Canossa sua alleata e l'odiato imperatore Enrico IV, protagonista vigoroso della celebre e violenta “lotta per le investiture.” 
Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia...





Bibliografia

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G. Vismara, A. Cavanna, P. Vismara, Ticino medievale, storia di una terra lombarda, Dadò editore Locarno, 1990

30 commenti:

  1. Interessante. Una parola sui Vescovi Conti. L'investitura di un feudo,faceva dell'investito la personificazione del feudo stesso. Cioè,il Signore era il feudo. Tutto ciò che esso conteneva,uomini ,animali,piante e terra gli appartenevano come se fossero parti del suo stesso corpo. Neanche a chi glielo aveva concesso era possibile revocarlo,se non con la forza. Questo creava delle "dinastie",anche se minori,non sempre facili da gestire, Una soluzione fu trovata con la figura del Vescovo Conte,che,evidentemente, non poteva avere figli e se anche ne aveva,questi erano considerati bastardi,e quindi privi del diritto di ereditare il feudo paterno. Alla morte del Vescovo Conte,non essendoci eredi legittimi, il feudo tornava alla Corona e poteva così essere riassegnato. Le cose non andavano sempre così,ma l'intento era quello.

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  2. ellissimo! Grazie! La torre di Velate è a 1 km da casa mia ma non conoscevo assolutamente tutta questa storia!
    Pierluigi

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    1. Pierluigi spesso più un luogo é vicino a casa meno lo si conosce bene. A volte é proprio questo che vi spinge ad approfondire 😉

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  3. dev'essere un gran bel libro Marc, complimenti
    Adriano

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  4. Che storia!
    E poi scrivi benissimo
    Sara

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  5. Veramente interessante!
    Giuseppe

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  6. Complimenti! Io vivo sulle colline tra lago Maggiore e Orta e adoro conoscere la storia di questi luoghi. Non mancherò di acquistare il tuo libro!
    Beatrice

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  7. Ma mi sorge un dubbio che questa torre stranamente alta e misteriosa non sia stata altro che un osservatorio astronomico?
    Che ne dici marc? Ciaoooo
    Marina R.

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    1. No no, non lo fu. Solo esigenze difensive, abitative e di ostentazione. Ciao Marina😉

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  8. Di torri alte in giro per l'Italia e non solo ce ne sono tante, le conclusioni lette in ciò che ha postato Marc a me sembra che è in linea con gli usi medioevali. Invece mi piace leggere su personaggi meno conosciuti del medioevo come questo Guido. Grazie Marc.
    Valentino

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    1. Grazie Valentino, attento lettore😉 Sí, spesso tra le pieghe Dell storia tradizionale ci si perde la vita di personaggi"minori" che poi tanto piccoli non furono...

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    2. Dal punto di vista architettonico invece, per quanto possa sembrare una torre come tante altre, presenta questa caratteristica strutturale di avere una torre-contrafforte, come un pianerottolo sporgente ma murato a collegare tutti i piani, di tipo transalpino, appunto il cosiddetto "dongione" che nel 1000 non presenta casi analoghi in Italia. Bisognerà attendere ancora due secoli per vedere i primi esempi diffondersi anche qui

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  9. Ottimo lavoro Marco. Come sempre.
    Gianluigi

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  10. brrrrrrr brrrrividi !!!!
    Carmen Rita

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  11. a pochi kilometri da me
    Loredana

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  12. È davvero piacevole leggere le vicende dei personaggi della storia passata riscritte con tale scioltezza! Sei davvero bravo Marc Pevén.
    Marina M.

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    1. Marina tu non sei della zona, ma in provincia il soggetto in questione è roba "che scotta": viene fatto passare in modo "fiabesco" come un cattivone leggendario e i suoi avversari tutti santi, ma nessuno conosce questa versione. Non tutti, poiché influenzati dal famigerato luogo comune, potrebbero condividerla: la "damnatio memoriae" coltivata da secoli dalla propaganda papalina e anti-imperiale ha come "cristalizzato e archiviato" la colpevolezza assoluta di questo personaggio storico. Per quel che mi riguarda, mi sono limitato a far parlare fonti che, pur a portata di mano, paradossalmente e di proposito sono state ignorate.

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    2. In effetti, non potevo cogliere con cognizione tutta la portata sovversiva delle affermazioni fatte nell'estratto del tuo libro Marc!!!
      Marina M.

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  13. ho letto l'articolo e lo trovo molto intrigante perché tu sai inserire il rigore storico in una narrazione romanzesca che avvince e non stanca! Mi piace molto il tuo modo di scrivere: perfetto nella forma e mai banale! al tutto si aggiungono le tue infinite conoscenze nel campo dell'arte...una miscela perfetta!
    Paola

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  14. Wow bella storia davvero
    stefania

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    1. Per la serie....il vescovi non sono certamente stati sempre espressione del potere papale (talvolta il contrario) e a loro volta gli eretici non erano tutti stinchi di santi, né indipendenti dai poteri forti,,,potrebbe servire come lezione di storia per F.C da Gravellona, Stefania no? ;)

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    2. E come...Sai come si inc. ...za
      Stefania

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  15. Ho letto con molto interesse e piacere. Il testo è molto scorrevole chiaro e dettagliato. E soprattutto molto avvincente. Grazie di avermi fatto conoscere figure storiche che non conoscevo nei particolari, avvolte da aloni di mistero e intrighi, raccontate con un' eleganza e maestria che solo tu puoi avere. Comprerò sicuramente il libro...e.. aspetto.. l altra storia....
    Maria L.

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  16. Interessante da leggere e scoprire fatti/stOria ben espressi e documentati Bravo Marc

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