domenica 31 luglio 2016

Bernardino Luini: da "castagnàtt" a sublime pennello

 
Le Sommeil De l'Enfant Jesus (Parigi, Musée du Louvre)

Alla fine del '400 tale Bernardino Scapi (1480 -1532), giovane di umili origini campagnole, ancora all'oscuro delle grandi qualità artistiche che lo avrebbero reso famoso, era abituato a spostarsi periodicamente come ambulante da un mercato all'altro tra le valli varesotte del Luinese e quelle del Canton Ticino, allora aggregate senza soluzione di continuità al più esteso Ducato Sforzesco di Milano. Bernardino portava avanti l’attività di famiglia: quella del "castagnátt" o venditore di castagne, ancora oggi così abbondanti, grandi e lucide, tra la Val Veddasca e la val Dumentina. Secondo il mito romantico Bernardino, poi chiamato Luini ("da Luino") iniziò a dare la punta al suo pennello di pelo di cinghiale  tra un mercato ortofrutticolo e l’altro; poiché ogni buon mito che si rispetti cela sempre un pizzico di verità, va effettivamente notato che il pittore visse in un contesto, quello tra fine '400 inizi '500, in cui l’attività artistica era un mestiere, non ancora un arte, ma con regole ben precise e affini a quelle della mercatura e dell’artigianato: e che gran artigiano diventò presto il nostro Bernardino!

 
San Giorgio di Runo, Dumenza (Varese)
Fu proprio a Luino, ai piedi dell'avito borgo di Dumenza, guarda caso tutt'oggi sede di un mercato antico e famoso, che il giovane mosse i primi passi nella periferia lacustre del Ducato Sforzesco. Sulle pareti della chiesa cimiteriale di san Pietro campeggia ancora una pregevole Adorazione dei Magi: tra i primi saggi a buon fresco che il pittore donó alla sua valle natia, essa ci permette, in compagnia degli affreschi del Carmine e dell'ignoto oratorio ticinese di Dino, di ricostruire i già fulgidi esordi del pittore. Chi si aspettava che Bernardino sarebbe diventato uno dei protagonisti della pittura del Cinquecento lombardo?
In virtù della sua mobilità, presto il Luini lasciò la sua terra natia per un primo trasferimento a Milano (1500): non un buon momento per la città, appena conquistata dalle forze armate del generale Gian
Giacomo Trivulzio, milanese voltagabbana al soldo dei Francesi. Ludovico il Moro, famoso duca di Milano, munifico committente di Leonardo da Vinci e Donato Bramante, era stato appena catturato e venduto al nemico dai terribili mercenari svizzeri: ecco perché il Luini fu costretto a lasciare la città per un oscuro e poco fruttuoso periodo di praticantato veronese (1506).

 Adorazione dei Magi (San Pietro, Luino)

Solo pochi anni d'attesa e Bernardino poté ristabilirsi in una Milano divenuta filo-francese, dove sotto la reggenza dello stesso Trivulzio poco era davvero cambiato, anzi: i francesi avevano permesso all'aristocrazia locale di costituire cenacoli artistici indipendenti, luoghi favorevoli dove procacciarsi committenze sacre e profane. Sulla scia del Bramantino, artista preferito dal Trivulzio, la città imparò a conoscere il primo Luini attraverso uno stile metafisico che, lungi dall'adeguarlo ai suoi contemporanei, anticipò De Chirico a distanza di quattrocento anni: il fatto accadde sotto la protezione della nobile famiglia dei Rabia, per i quali il Luini affrescò il palazzo cittadino e cicli mitologici nella Villa della Pelucca al tempo a Sesto san Giovanni, oggi staccati ed esposti a Brera (1512). Qui osserviamo le sue nude ninfe materializzarsi come note lievi sospese a pastello nell'etere senza tempo di un sogno, non troppo lontano dalle nude polinesiane di Gauguin o, meglio ancora, dai torsi dei Bagni Misteriosi di De Chirico al parco Sempione. Altre famose opere, sempre a tinte chiare ma di carattere sacro, le ritroviamo nella Madonna di Chiaravalle e della Certosa di Pavia (1512-1513).


 
Bagnanti di Villa Rabia della Pelucca (Brera, Milano)

Bernardino, sperimentatore quieto di cui scarseggiano dati biografici, cambierà presto registro stilistico al fine di riadattarlo alle richieste delle committenze religiose: nella cappella del Ss. Sacramento in san Giorgio a Palazzo  (1513-1515)  il pittore sperimenta dipinti a olio su tavola, smaltati come gioielli e dagli sfondi tenebrosi come quelli di un novello Caravaggio. Ed ecco il Luini iniziare a rivestire, gomito a gomito con un giovanissimo Gaudenzio Ferrari come collaboratore, il ruolo del più famoso pittore "leonardesco" del Rinascimento. Da questo momento Il suo stile, consacrato a una  grazia quasi peruginesca di pose e sguardi delicati, liquidando le inquietudini espressive bramantinesche degli esordi, si assesta.


 
S. Giorgio al Palazzo, Deposizione (Milano)

La maturità é giunta: tramite un'originale sintesi tra lo sfumato di Leonardo e il rigore metafisico-prospettico di glorie locali come Vincenzo Foppa, Bramantino e Zenale, nel 1522 Luini realizza i noti affreschi per il tramezzo del monastero di S. Maurizio. Nel grande ciclo presbiteriale del Santuario di Saronno (1525), il pittore inaugura invece scene dal nuovo respiro monumentale che sottolineano palesi aggiornamenti sulla cultura figurativa centro-italiana: la disposizione dei personaggi, di gusto leonardesco ma dalla rinnovata cromia urbinate, disposti per la prima volta entro quinte architettoniche che rimandano palesemente ai cicli raffaelleschi delle Stanze Vaticane, con particolare riferimento alla Scuola di Atene, alludono all'esperienza di un viaggio romano d'approfondimento.


 
S. Maurizio Maggiore,  Ss. Apollonia e Lucia (Milano)

"Pinctore delicatissimo, vago et onesto nelle figure sue", Luini gode ancora in tutto il mondo di  una fama notevole che si lega in gran parte alle tele di piccolo formato, al tempo destinate a committenza privata, assai apprezzate per la morbidezza e la delicatezza dei toni, oltre che per l'immediatezza nella resa dei soggetti. Ne sono esempi le numerose scene materne: una profusione di Madonne col Bambino dove l'artista imparò, in maniera quasi seriale ma qualitativamente elevatissima, a produrre "copie" dalla fisionomia Leonardesca estrapolandole da un gruppo di cartoni vinciani, di cui l'artista era in possesso: una pratica assai diffusa e portatrice di idee per tutto il '500.
Luini e Leonardo: la loro storia, come i binari di un treno che corrono fianco a fianco senza incontrarsi mai. Fu così che il più grande emulo di Leonardo da Vinci, eppure mai suo allievo, iniziò ad affinarne lo stile quando quest'ultimo era ormai transfuga ad Amboise, in Francia, e prossimo a spegnersi. Allora a Milano la via era libera; lo stile sublime ormai definito; i colori e la dolcezza dei volti femminili di queste imprese incarnarono per secoli l’identità figurativa di un’intera area geografica e culturale apprezzata in tutto il mondo: la Lombardia del Rinascimento. 
Non per nulla, da New York a san Pietroburgo, passando per Parigi e Bucarest, ogni museo che si rispetti ha il suo bel Luini, o anche più di uno!

 
Presentazione al Tempio (Santuario dei Miracoli - Saronno, Varese)

A distanza di 20 anni dagli esordi, lungi dal montarsi la testa Bernardino era un genio del mestiere che lavorava con la stessa lena di quando vendeva castagne. La fortuna critica del varesotto scaturì proprio dal suo classicismo moderato, a metà strada tra Leonardo e Raffaello, ma di ben più facile e scorrevole lettura in quanto purificato dalle ambiguità psicologiche del sommo toscano.  L'appezzamento per il Luino esplose proprio nel corso dell’Ottocento allorché Balzac , Ruskin e Stendhal ne lodarono le qualità in termini entusiastici; proprio quest'ultimo, di fronte alla tavola con Salomé e la testa del Battista degli Uffizi, provò un malore tale da dare il via al dibattuto mito romantico sulla “Sindrome di Stendhal”.


 
Madonna del Roseto (Milano, Pinacotea di Brera)

Prima di morire, Luini torno nella sua terra natia. L'ultima grande impresa a fresco fu la grande scena di Crocifissione del santuario della Madonna degli Angeli a Lugano (1529): "il più gran teatro del suo ingegno", dove rinnovò la gloriosa tradizione decorativa dei tramezzi monastici di Lombardia rifiutando la tradizionale suddivisione delle scene in riquadri separati già apprezzata in san Maurizio, a favore dell'unitarietà spaziale del racconto. Gaudenzio Ferrari, il suo successore spirituale, oltre ai dolci elementi  vaporosi e chiaroscurali di matrice leonardesca, avrebbe ereditato da lui anche questa propensione per i tramezzi affrescati.
La prolifica attività di bottega, continuata dai figli Pietro e Aurelio, avrebbe dato esiti talvolta interessanti, ma per nulla simili all'estro sognante di Bernardino


 
Crocifissione, S.Maria degli Angeli (Lugano, Ch)

Foto e testo: Marco Corrias (alias Marc Pevén)


Bibliografia
Gregori M.; Pittura a Milano, Rinascimento e Manierismo, 1998
Bandera S.; Fiorio, M.T.; Bernardino Luini and Renaissance Painting in Milan, 2000
M. Morandotti, Foppa, Zenale and Luini, Lombard painters before and after Leonardo, 2012
Agosti G.; Stoppa J.; Bernardino Luini e i suoi figli. Catalogo della mostra, 2014

Santa Maria dei Ghirli a Campione: tempio d'eretici in Lombardia

Cademario (Ch) - Affreschi in S. Ambrogio Vecchio (XV sec.)

Nello scorso articolo abbiamo trattato diffusamente del ciclo d’affreschi completato il 23 giugno 1400 sotto il portico esterno di Santa Maria dei Ghirli a Campione, enclave italiana in terra svizzera, soffermandoci sulla loro spiazzante unicità, sia stilistica, sia iconografica.
Dal punto di vista pittorico i misteriosi De' Veris, alimentando il senso di dramma ed esasperazione collettiva con un espressionismo inedito e nordicizzante, sembravano quasi dichiarare guerra ai modelli ufficiali e gotico-cortesi della corte viscontea. Dal punto di vista iconografico poi, padre e figlio azzardarono la fusione anomala tra il tema del Giudizio Universale e quello, allora molto diffuso, dei Trionfi della Morte.
Tuttavia, il cuore dell’enigma da scoprire si cela nel senso teologico del ciclo, insito nel rapporto con il dramma finale: di fronte la figura iconica del Cristo Giudice i peccatori, in attesa del proprio destino oltremondano, venivano privati di Maria e di tutti i Santi intermediari…quasi a inaugurare una dichiarazione di protesta luterana ante-litteram.
Timori apocalittici sulle rive del lago di Lugano, alimentati da committenti in odore di eresia.
Chi poteva aver richiesto una simile opera? In un’epoca apparentemente priva di scismi e calamità, faceva la sua apparizione una congrega misteriosa: quasi una setta segreta di accoliti, riuniti con finalità di mutua assistenza.

Cademario (Ch) - Affreschi in S. Ambrogio Vecchio (XV sec.)

* 1a tappa: in Svizzera. Oltre il confine, in cerca di cicli  affini.

Li ho scovati: il più significativo è conservato a Cademario, nella chiesa di Sant’Ambrogio; il secondo in Sant’Abbondio a Mezzovico: trovare due luoghi di culto, uno dedicato a un santo ambrosiano, l’altro a uno santo comasco a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro la dice lunga sulla storia complessa di queste terre da sempre contese tra potentati lombardi e leghe svizzere.
Un’analisi ai resti del ciclo eseguito nella chiesa cimiteriale di Cademario, riferibile alla prima metà del '400, ci porta a ritrovare l’iconografia del Cristo in trono e dalla posa particolare, già visto a Campione; nel registro inferiore, rovinatissimo, vi è anche l'Inferno a sfondo rosso. Fra i pochi brandelli superstiti si riconoscono Giuda impiccato ad un albero e una scena di elemosina. A Cademario, come a Mezzovico, anonimi imitatori dei De' Veris provarono l’impellente esigenza di aggiungere una lunetta superiore abitata dalla Vergine in gloria adorata dagli Apostoli inginocchiati. Ai lati sono raffigurati anche i santi Sebastiano e Rocco, protettori per eccellenza dalla peste: si tratta proprio di quegli intercessori che nel ciclo di Campione mancavano. Evidentemente, la questione iconografica non passò inosservata nemmeno ai contemporanei, anzi! Come mai?
E’ ancora troppo presto per rispondere a questo dilemma. Nel frattempo, la prima tappa ci rivela l'indizio-base da seguire: la peste incombente e i tentativi, da parte dell'uomo medievale, di esorcizzarla.

Pisa - Trionfo della Morte, particolare (Buffalmacco, metà del XIV sec.)

* 2° tappa: Toscana: a Pisa, di fronte al Trionfo della Morte di Buffalmacco

Ammiriamo uno dei più famosi Trionfi della Morte, antecedente di ben sessant’anni rispetto al nostro affresco: fu eseguito nel 1336-41 su committenza, questa volta “regolare”, dei frati domenicani, per il Camposanto di Pisa: un grande ciclo incombente sulle pareti del cimitero medievale, luogo in cui si aggiravano frati ansiosi di moralizzare la società del tempo con la predicazione e con le immagini dipinte. Il Trionfo della Morte è  strettamente legato alle credenze di una cultura, quella dell’uomo medievale, in un’epoca in cui lo spauracchio del decesso era percepito come minaccia onnipresente e incontrollabile: un castigo divino per i peccati commessi. Il grande affresco, stilisticamente ancora d'impronta giottesca, è dominato anche qui dalla credenza dell’Apocalisse con scene che alternano il gusto per l'orrido a tendenze comico-grottesche. Dame e cavalieri, simili a quelli che nel “Liebesgarten” di Campione venivano incalzati da un demone dal soffio pestilenziale, qui vanno a caccia in gruppo con vesti eleganti; purtroppo per loro, non avranno mai il tempo di godersi le delizie della vita cortese: la tragedia della morte trionfante sul mondo terreno già incombe su tutti!

Di fronte a un gruppo di tombe scoperchiate, un cavaliere si tappa il naso. Sono i cadaveri degli appestati dell'epidemia catastrofica del 1348 che decimò la popolazione europea.

In alto si consuma la battaglia tra Angeli e Demoni per la contesa delle anime dei defunti. Anche qui san Michele, con la spada stretta nella mano destra, ordina agli altri arcangeli di smistare le anime.

S. Maria dei Ghirli, Campione (Co) - San Michele smista le anime (XIV-XV sec.)

Caso più unico che raro, nel 1348 il Ducato Visconteo scampò miracolosamente alla Grande Peste: se ricordiamo però che il male, ormai endemico, penetrò infine in Lombardia nel 1399 causando violenti turbamenti nella società di allora e perfino la tragica morte (1402) del duca Gian Galeazzo Visconti detto il “conte di Virtù” possiamo finalmente comprendere le reazioni che determinarono espressioni figurative analoghe a quelle del Trionfo della Morte pisano, anche nel ciclo di Santa Maria dei Ghirli di Campione: il Ducato Milanese, a un passo dalla conquista  di Firenze e di tutto il centro Italia, perdeva di colpo il suo paladino migliore, e con lui il benessere e  le certezze godute per mezzo secolo.

La seconda tappa ha svelato il ritrovamento di un nuovo indizio: i turbamenti esistenziali del tempo. Questi toni pauperistici ed escatologici ci riportano all'ardua e sempre attuale questione circa la povertà originaria di Cristo: il problematico ritorno alla purezza che, ciclicamente, turbava gli animi degli uomini, di Fede e non. Il più grande effetto a catena era stato inaugurato alla radice dall’abate calabrese Gioacchino da Fiore, (1130-1202). Figura paradigmatica quella di Gioacchino, poiché con lui erano venuti al pettine i nodi irrisolti della problematica coesistenza, nella struttura gerarchica della Chiesa medievale, di opposte tendenze: da una parte quella razionale e intellettuale dell’Alta Scolastica, dall'altra quella intransigente e mistica, in lotta per il ridimensionamento del potere mondano del Clero. 


Tomba di Gian Galeazzo Visconti - Certosa di Pavia (Cristoforo Solari, 1495)

Nei suoi scritti l’abate aveva profetizzato con larghissimo anticipo l'avvento di un nuovo ordine di monaci che avrebbero rinnovato la Chiesa e con essa il mondo. Molto più tardi, tra il 1322 e il 1368, nell'area compresa tra la Francia del sud e l'Italia settentrionale, feroci diatribe intaccarono gli stessi fondamenti dell'Ordine dei Francescani, al punto da causare scissioni interne tra i cosiddetti Osservanti, i Conventuali e i più rigorosi Spirituali. Questi ultimi, identificandosi nel “Nuovo Ordine”, potenziarono il messaggio originario di San Francesco, loro patrono, con quello visionario di Gioacchino e con i testi apocalittici apocrifi a lui attribuiti. Divenuti influenti in varie città importanti come Firenze, in seguito alla duplice sosta effettuata da san Francesco in nord Italia  (1215 e 1221), i predicatori Francescani trovarono terreno fertile anche a Milano. 

Nel 1230, con l’edificazione del San Francesco Grande in contrada S. Ambrogio ossia la più grande chiesa milanese prima dell’edificazione del Duomo (1386) la spuntò l'ordine degli Osservanti. Il complesso contiguo era provvisto di una scuola di teologia e di un dormitorio, In breve tempo, presso la chiesa francescana di Milano il numero di frati aumentò notevolmente: nel 1457 i pellegrini raggiungevano ormai la notevole cifra di centomila persone.

                                       Siena, San Domenico - esempio di architettura d'ordine mendicante (XIV sec.)

* 3° tappa: indietro nel tempo, nel cuore della Lombardia eretica.

Pur con duecento e più anni d’anticipo, le idee di Gioacchino da Fiore e degli Spirituali, ritenute potenzialmente pericolose, sopravvissero nel movimento ereticale dei Fraticelli che nel 1381-89, poco prima dell’esecuzione degli affreschi campionesi, furono oggetto di ordini d’espulsione e “roghi purificatori” protrattisi, perlomeno nelle Marche, fino al 1428. Alla fine del secolo gli Spirituali, confluendo  nell'ordine degli Osservanti, parvero scrivere la parola fine all’intera questione. Non fu così.

La fase di maturazione conclusiva per l'Osservanza si sarebbe concretizzata con l'adesione al movimento di grandi personalità come quella di san Bernardino da Siena, grazie al quale le vecchie tendenze eremico-contemplative lasciarono via via il passo allo studio e alla predicazione.
Non per nulla nel '500 anche lo "xenodochio", ossia l’ospizio per viandanti di Campione fu marchiato a fresco col simbolo con “l’orifiamma di san Bernardino”: eppure, questa prepotente presa di possesso da parte dei Francescani di un luogo che ne aveva condannato le nefandezze con affreschi eterodossi ha il gusto amaro di un’appropriazione indebita: nuove ombre celano la verità, in Santa Maria dei Ghirli. 
Se tutto pareva ormai spiegato, ora scopriamo che il cerchio non si è ancora chiuso.

Orifiamma di San Bernardino - S. Maria dei Ghirli, Campione d'Italia (Co) 

I problemi che la Chiesa dovette affrontare, prima con Gioacchino da Fiore, poi con San Francesco e gli Spirituali, pur coinvolgendo tutta Europa, ebbero come epicentro l’Italia centrale e sempre lì, addomesticate o soppresse dalla Chiesa ufficiale, si risolsero più o meno facilmente.
La Lombardia invece, che già in passato aveva vissuto l'esperienza dei dissidenti patarini in cerca di povertà, umiltà e semplicità contro la scarsa moralità e l'eccessiva interferenza del clero negli affari mondani (XI-XIII secc.) era aperta anche, anzi soprattutto agli influssi ereticali provenienti dal Nord.
Perfino gruppi di eretici catari, fautori di una nuova purezza spirituale di tipo oltranzista, nonché di una vera propria Chiesa alternativa a quella Cattolica Romana, sopravvissuti allo sterminio albigese patito in Francia del sud, agli inizi del Duecento si rifugiarono nella pianura Padana: la loro sede era  Concorezzo, in Brianza.
La carica sovversiva dei Catari era deflagrante: l’idea che, per ricoprire una carica importante non si dovesse essere necessariamente ricchi o nobili portava il discorso ai limiti della rivoluzione sociale. L’avventura dei catari in Pianura Padana però ebbe vita breve: presto a Como, a Milano, in Piemonte, a Piacenza e a Verona si accesero nuovi roghi. Eppure, più che il massacro in massa, pare che a dare il colpo di grazia agli ultimi catari sarebbe stata la loro vocazione all'isolamento dalla società…


Rocca di Queribus, covo di Catari - Francia, Mìdi Pirenei (XI sec.)

Ci avviciniamo a svelare il mistero del ciclo di Campione d'Italia soltanto introducendo la figura di un ricco mercante di Lione, che verso il 1172 decise di abbandonare tutti i suoi averi donandoli ai poveri e alle chiese del luogo per ritrovare la povertà di Cristo.
Predicando il Vangelo, il lionese lo fece tradurre in volgare allo scopo di renderlo accessibile a chi non conosceva il latino. Ed eccoci giunti al nodo cruciale della controversia: mentre Gioacchino da Fiore predicava in Italia, in Francia un uomo ancor più coraggioso propose la sua via personale. Pietro Valdo, (1140-1206)  detto “Valdesius”.


Il largo anticipo con cui Valdesio precorse non solo le novità portate da San Francesco, ma perfino la Riforma Luterana, ha dell’incredibile. Unica nota stonata, la via di predicazione preferenziale del lionese contemplava anche una lotta senza quartiere contro gli eretici, in particolare contro i catari.
Se, tuttavia, si trattava di una guerra intrapresa anche dalla Chiesa ufficiale, allora perché papa Lucio III incluse nella lista degli eretici da perseguitare anche i “pauperes de Lugdunum”, i poveri di Lione?
Il motivo è presto spiegato: Valdesio e seguaci, predicando senza autorizzazione, usurpavano le funzioni della Chiesa. Perché lo facevano? Perché il Clero incaricato di perseguitare gli eretici, sostenevano i seguaci di Valdo, non avevano né le capacità né la volontà di farlo.


Frate e monaca concubinari - S. Maria dei Ghirli, Campione d'Italia (Co) 


In Lombardia il rapporto tra i Valdesi e le realtà circostanti non fu conflittuale come Oltralpe. Ciò col tempo gettò perfino le basi per una sorta di tacito “patto di non belligeranza” con gli odiati catari, al fine di condividere i propri insediamenti con loro e altri gruppi di eretici. L'unione fa la forza.
Entrati in contatto con le potenti istituzioni comunali, il successo fu tale che a Milano i Valdesi ottennero una “Schola” tutta loro per riunirsi a predicare pubblicamente il Vangelo, in competizione con i Francescani Osservanti.
Nonostante il riconoscimento di Papa Innocenzo III (1208)  gettasse le basi per la nascita di un vero e proprio ordine religioso controllato dall'alto, coloro che restavano ancora fedeli all'idea delle origini, in parte francesi ("ultramontani") in parte lombardi ("ytalici"), declinarono l’offerta.
Il rifiuto di essere addomesticati dalla Chiesa di Roma, che peraltro continuava a considerare il fondatore Valdesio “come uno dei più tignosi eretici”, avrebbe trasmesso alla successiva storiografia protestante l’esempio vivente di “un testimone della verità repressa” dal papato oscurantista.

S. Maria dei Ghirli, in veste Sei-Settecentesca - Campione d'Italia (Co) 

* 4° tappa: tornando a Campione…la verità torna a galla.

“Patto di non belligeranza” con gli odiati catari, condivisione degli insediamenti con altri gruppi di eretici: è così che si svelano nuovi moti anticlericali insabbiati dalla storia ufficiale, e con essi il ruolo di Santa Maria dei Ghirli. Proprio sul finire del Trecento, anche col contributo della peste e l’ingresso nel nuovo secolo, nel ducato di Milano era in corso lo scontro tra due opposte fazioni religiose: da una parte quella dei Bianchi, attivi in seno alla Chiesa e particolarmente devoti alla Vergine; dall'altra, piccoli gruppi strettamente aderenti al principio neotestamentario secondo cui “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5,29), in cerca di un contatto diretto con un Dio che rifiutava  qualsiasi gerarchia ecclesiastica: probabilmente, si tratta sempre dei Valdesi.

Questo dilagante fenomeno sociale, basato soprattutto sulla comunicazione orale e su commenti alle Sacre Scritture andati tutti bruciati, a Campione d’Italia sopravvisse sulle pareti affrescate del ciclo di Santa Maria dei Ghirli.

La verità è così svelata: la drammatica rappresentazione di Campione andrebbe letta come espressione delle aspirazioni di misticismo e spiritualità, alla ricerca di un contatto diretto con Dio, volto rifiutare qualsiasi gerarchia ecclesiastica. Queste sono le stesse aspettative nutrite da molti abitanti del piccolo mondo delle valli alpine e prealpine, lombarde e svizzere, ispirati dalle idee giunte fin qui dalla Provenza e dalla Germania.

Capitello con maestranze di scultori - Francia, Conques, Mìdi Pirenei (XII sec.)


E così, con la quarta tappa, ci prepariamo a svelare anche l’ultimo enigma circa la misteriosa “schola” di committenti del ciclo.

Se, secondo Pietro Valdo, i predicatori non dovevano lavorare, bensì vivere in povertà e di offerte sul modello di Cristo e dei suoi apostoli al fine di scampare alla brama di ricchezze e alla corruzione, i predicatori Valdesi di Lombardia, separandosi da Valdo e scegliendosi un nuovo capo nella persona del piacentino Giovanni da Ronco detto il Buono, coltivarono invece un nuovo principio che più lombardo di così non poteva essere: ritenendo che il lavoro nobilitasse l’anima, essi entrarono a far parte di comunità di lavoratori come le maestranze Campionesi: gruppi di scultori, architetti e pittori organizzati anche su base familiare che, ricordiamolo, partendo da qui svolsero un ruolo di grande rilievo nella storia dell'arte italiana ed europea per tutto il XIV secolo e oltre.

La “schola” commissionaria degli affreschi di Campione andrebbe verosimilmente identificata con gli “eretici” scampati ai massacri, provenienti da svariate correnti pro-operistiche, popolari, apostoliche e “fraticelliste”, unite dalla tregua tra Valdesi e Catari e dalla comune certezza che la salvezza personale, senza intermediazioni di sorta, oltre che dalla Fede dipendesse anche dall'impegno personale nel mondo concreto. E’ più che probabile che il santuario, nel quale non si sono mai officiate cerimonie abituali, costituisse luogo di ospitalità e rifugio per gli eretici lungo la strada tra il passo alpino del San Gottardo e la pianura Padana.

Come tutti i movimenti detti "ereticali", anche quello valdese fu oggetto di repressioni e persecuzioni sanguinose da parte dei poteri civili e religiosi ma, a differenza dei catari, non si fece piegare dall'inquisizione. Vivendo in clandestinità, spesso celandosi in zone marginali, il movimento valdese si affacciò quasi incolume al XVI secolo e nel 1532, aderendo alla Riforma protestante calvinista, sopravvisse. Quando “l’orifiamma di san Bernardino veniva dipinta sulla parete dell'ospizio per i pellegrini di Campione, gli “eretici” se n’erano già andati. Oggi i Valdesi vivono sotto l’ala della Chiesa Protestante in forma di confessione riconosciuta, evangelica e riformata...

Marco Corrias (alias Marc Pevèn)


BIBLIOGRAFIA:
Algeri, G. Pittura in Lombardia nel primo Quattrocento, in La Pittura in Italia, Milano 1987
Bandera, S. Il Tardogotico, in Pittura a Como e nel Canton Ticino, Milano, 1994
Bellosi, L, Buffalmacco e il Trionfo della Morte. Torino, E, 1974.
Bianconi. P. La pittura medievale nel Canton Ticino, Milano 1939
Gregori, M. A proposito dei De Veris, in Paragone, VIII, Milano, 1957
Merlo, G. G. Valdo. L'eretico di Lione, Torino, Claudiana, 2010
Matalon, S., Mazzini, F. Affreschi del Tre e del Quattrocento in Lombardia, Milano 1958
Percivaldi, E, La vita segreta nel Medioevo, Milano, 2013
Rutz, V. Segre. Intorno agli affreschi di Lanfranco e Filippolo de Veris a Campione, Milano, 1988
Toesca, P. Il Trecento, Torino 1951
Toesca, P. La pittura e la miniatura nella Lombardia, Torino 1966

Il Giudizio Finale di Campione: e non vi sarà Pietà per nessuno!



Un’estesa pittura murale si mostra in tutta la sua terribile grandiosità sulla parete meridionale esterna di un enigmatico santuario lacustre, sorto “in mezzo alle terre”.
Al centro dell’affresco, la figura emaciata del Salvatore, dal corpo scheletrico e i tendini in forte e sconcertante risalto, si protende con posa innaturale dall’altezza di un trono bizzarro: un tabernacolo a traforo gotico, adorno di bifore e cuspidi, che pare la trasposizione onirica di una guglia del duomo di Milano.
I piedi titanici del Creatore, ritornato alla Fine del Mondo quasi come un distruttore, poggiano su un basamento semicircolare; la sua figura, severa e soprannaturale, è quella del temibile Giudice. La cuspide sopra la sua testa divina, coronata e nimbata allo stesso tempo, è risolta da un paio di statuine: una per lato. I due simulacri sono stati modellati a immagine e somiglianza di Adamo ed Eva, a ricordo dell’indelebile Peccato Originale. Ancora più in alto spicca il particolare inedito e apocalittico-astrologico del Sole, della Luna e dei Quattro Elementi personificati nelle figure profetiche di statue panneggiate.
Parusia escatologica: “È cosa terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Eb 10,31).





Tutt’attorno al trono è un folle agitarsi di cherubini in volo: venti figurette fanno da ghirlanda, stringendo gli strumenti della Passione: la croce, i chiodi, la corona di spine, la lancia che trafisse Gesù, la scala, il flagello...
Le schiere ricciolute, dai visi armoniosi e androgini, danzando flessuose dialogano con vivacità sull’etereo fondale ceruleo. I loro tratti cesellati non sono opera di veri e propri frescanti di mestiere, bensì di artisti virtuosi, perlopiù avvezzi a miniare preziosi codici scritti: ecco perché, oltre alle fisionomie e ai caratteri individuali degli angeli è acutamente indagato anche il loro abbigliamento fastoso: il "décolleté" delle vesti e le maniche alla moda sono solo un piccolo assaggio dell’eleganza raffinata diffusasi alla corte dei potenti Visconti nella Milano di fine ‘300.
                         


Dalla dimensione iperuranica, astratta, a quella terrena.
Al suolo, ai lati del trono si stringono le schiere dei supplici. La Resurrezione dei Morti, alla nostra sinistra, mostra impietosamente una piccola schiera di peccatori prostrati ai piedi del trono: chierici concubinari e corrotti, assassini e sovrani marchiati d’infamia. Corona sul capo, un re striscia a terra con un pugno teso verso la volta cerulea; a fianco, un alto dignitario cerca inutilmente l’aiuto di un frate francescano che, a differenza di lui, si staglia in tutta la sua altezza. Quest’ultimo, in tonaca marrone, con la cintura o “cingulum” stretta sui fianchi e la tonsura che lo ha insignito degli ordini sacri, ostenta un’arrogante posa plastica che lo contrappone a un ostilissimo arcangelo incalzante, armato di spada. Lo sguardo del frate, puntato contro un secondo angelo che piomba dal cielo, è pieno di superbia; il suo braccio destro si leva sulla difensiva, il sinistro si abbassa indicando un peccatore sfinito: un uomo comune. Quest’ultimo, macerato dal senso di colpa, col capo celato da un berretto, dà di spalle alla scena: forse è proprio lui, l’assassino.
Atteggiamento ambiguo, quello del frate francescano: il suo è un gesto d’intercessione, o di accusa verso il peggiore dei peccatori? Personalmente, lo interpreterei più come un tentativo di distogliere l’attenzione del furioso arcangelo da se stesso e dalla donna che si cela alle sue spalle: quest’ultima, inutilmente intenta a coprirsi i seni con un panno trasparente: il soggolo e il velo la identificano nei panni, scollacciati, di una monaca, forse certosina. Come in una scena boccaccesca, i due sono stati scoperti in flagrante fornicazione: di fronte a un Giudice che dal suo trono appuntito tutto vede, i voti di obbedienza, castità e povertà dei frati Francescani, manifestati dai tre nodi del “cingulum”, sono stati spudoratamente violati. Nel frattempo un altro peccatore, come schiantato da una forza superiore, ruzzola ai piedi del trono.



Fra mitrie vescovili, sfarzose tuniche e boccoli, alle spalle dell’arcangelo una processione di potenti inginocchiati attende il suo turno. Ed ecco sfilare le anime delle più alte gerarchie ecclesiastiche e laiche dell’epoca, teatro di vizi dell’umanità: l’usura, l’impudicizia, l’accidia e l’adulterio, oppressi dalla gestualità concitata dei castigatori in volo. Le loro vesti ricordano da vicino quelle del gruppo altrettanto nobile dei Giusti, prostrati a destra e chiusi in preghiera. Tra questi Beati metterei in risalto il trattamento speciale e disturbante riservato a un’infedele dal volto scuro, tenuta al guinzaglio da un demone svolazzante: poiché in vita non volle seguire il verbo di Cristo, ora la visione del Giudice in trono per lei è diventata, sempre se vorrà salvarsi, una costrizione violenta.
Sull’estrema destra dell'affresco campeggia un’altra tipologia di peccatori: al romantico suono del liuto di un musicista dal gozzo rigonfio, una coppia di nobili amanti si è data un rendez-vous clandestino in un “Liebesgarten”: il giardino d’amore è un topos ricorrente nell’iconografia a vasto raggio dello stile “gotico internazionale.”
L’idillio però, anche qui è minacciato dalla prefigurazione di un castigo imminente. A lato, un demone stronca il loro amore profano con un battito delle sue ali di pipistrello: è un potere insondabile che lo scrivente sarebbe portato a interpretare come una contagiosa folata epidemica. La forza drammatica della scena è resa particolarmente intensa dalla chiarezza del racconto, che con fine didascalico pone, accanto ai vari personaggi, cartigli con scritte esplicative. La scena intera colpisce per il senso drammatico, degno di una rappresentazione teatrale, che calcando la mano, anzi il pennello, rimarca l’ineluttabilità della giustizia divina e della miseria finale, anche per i potenti e i tiranni. "Benvenuti nella «sfera tumultuosa del manierismo gotico!"

Per l’esattezza, dove ci troviamo? A Campione, enclave italiana in territorio elvetico.
Borgo da sempre “diviso” tra Como e Milano e attualmente assai prossimo all’orbita varesina, per tutto il Medioevo Campione rivestì un ruolo di rilievo nella storia dell'arte lombarda e non solo: le pregevoli opere di artisti campionesi, soprattutto scultori e lapicidi e architetti si diffusero lungo la penisola italiana per tutto il XIV secolo.

                                       


E’ un caso unico che si protrae dal lontano 777 d.C., quello del “burgus” situato sulla sponda orientale del Lago di Lugano. Allora, quando il feudatario longobardo Totone, con atto testamentario, decise di donare parte delle sue terre al potente monastero milanese di sant'Ambrogio, Campione era un luogo pressoché ignoto, sito alla periferia del tardo regno longobardo.
Già allora, a una certa distanza dall’abitato, sorse un primo nucleo chiamato "Santa Maria in Willari". Pur non esercitando mai un vero e proprio ruolo di parrocchia, dopo il 1000 il luogo di culto fu adibito, quale luogo di passaggio, a “xenodochio”: ostello per viaggiatori, gestito da monaci cistercensi. La funzione assistenziale d'accoglienza di mercanti e pellegrini era tipica dei cenobi di frontiera situati lungo la via per le Alpi. Solo con l'incameramento di nuove entrate, l'esecuzione di svariate opere a fresco di particolare pregio pittorico iniziò a configurare il santuario campionese come centro di rilievo nell’area prealpina.

Da allora molto è cambiato. L'attuale nome del Santuario, “Santa Maria dei Ghirli”, forse dovuto al termine dialettale con il quale si usava chiamare i rondoni che in estate qui nidificavano, sembra quasi attendere noi, nuovi pellegrini: affacciato sul lago, proprio all'ingresso della cittadina, in effetti il santuario funge quasi da potente elisir ristoratore, a sanare lo scempio moderno introdotto dal mostruoso casinò di Mario Botta. L’aspetto architettonico del tempio è il risultato di continue trasformazioni, stratificatesi nel corso dei secoli: il rimaneggiamento d'intere parti (campanile, tiburio) col particolare prospetto scenografico barocco a tre ordini di rampe protese verso il lago, dona al complesso un fascino tutto particolare che ricorda da vicino gli approdi alle ville lacustri del Settecento lombardo. L'aggiunta dei portici laterali accresce la monumentalità della costruzione.




Ma torniamo al nostro affresco.
Un cartiglio, scoperto in extremis nel 1912 dal celebre Toesca, reca una frase latina. Così io ve la traduco: “Quest’opera, realizzata nel 23 giugno del 1400 con le elemosine offerte alla chiesa dai membri della scuola di Campione, fu dipinta da Lanfranco de Veris da Milano e da suo Figlio Filippolo.”
De Veris è la probabile storpiatura latina di Verri, tipico cognome lombardo. Padre e figlio erano parte integrante dell'entourage di pittori e miniatori prestigiosi alle dipendenze del duca Gian Galeazzo Visconti (1374-1402): il signore di Milano aveva da poco inaugurato un ambizioso programma politico, teso a unificare il Nord Italia e a inglobare il Centro in un potentato signorile assai simile a una monarchia, che vedeva cantieri artistici aperti nel Duomo di Milano, a Monza, a Cremona, alla Certosa di Pavia e nel suo castello. L'artista di corte più prestigioso, Giovannino de' Grassi, aveva da poco miniato un famoso libro di preghiere, detto "Offiziolo", con immagini cortesi di grande eleganza: tornei, dame, animali nostrani ed esotici, ritratti con accuratezza naturalistica e preziosità decorativa. Michelino da Besozzo, co-protagonista, ottenne uno stile molto più aggraziato e di grande successo, giocato su tinte tenui, personaggi attoniti e leggerissimi.




Il ciclo pittorico di Campione, pur pienamente partecipe della complessa cultura figurativa di gusto gotico internazionale sviluppatasi attorno al cantiere ambrosiano, rivela tuttavia una vena espressiva meno aulica e cortese: la pennellata incisiva del maestro e dell’allievo, rapida nei tratti e nei gesti dei personaggi, manifesta un interesse tutto particolare per le notazioni realistiche, al limite della caricatura. Lanfranco e Filippolo Verri, coppia di pittori altrimenti ignoti, costituì una piccola impresa a gestione famigliare di artisti sfuggevoli, i cui caratteri gotici si arricchirono di una peculiarità regionale del tutto particolare.
La critica ha da sempre osservato la stranezza di questi affreschi, dal fascino ambivalente e quasi trasgressivo, dotati di un goticismo smodato, di “aspetto bizzarro”, “stravagante unicità”, “frenetica agitazione”, “stregata follia” e “spirito perverso”.
La potente  allegoria della lotta tra il Bene e  Male inscenata dai due artisti ostenta sicurezza e abilità pittorica. Di fronte al tripudio drammatico e violentemente espressivo del ciclo campionese le caratteristiche principali dello stile stesso, ossia le delicatezze del gusto ereditato dagli artisti del Duomo vengono travalicate. Lo stile innovativo di Lanfranco e Filippolo fungerà da connessione con gli sviluppi della pittura successiva, riscontrata in cantiere nei primi decenni del '400. A maggior ragione, Il grande Giudizio Universale della coppia De Veris, denso di spunti tratti dal mondo cortese, con aneddoti grotteschi tipici del tempo, rappresenta una delle testimonianze più importanti del gotico internazionale in Lombardia.


Ed è così che, sul registro inferiore, si srotola una scena di gusto dantesco, con demoni e dannati sottoposti a varie torture. Qui, dove il ciclo purtroppo presenta un forte impoverimento della pellicola pittorica, su un simbolico fondo rossiccio che rievoca le fiamme dell’Inferno è rappresentato un campionario realistico di peccati: nella descrizione delle torture dei dannati, il pennello si sofferma con curiosità e spirito d’osservazione sulle deformazioni fisiche e caricaturali: ed ecco scorrere veloce la tortura della ruota, le angherie dei demoni, una madre che uccide suo figlio, Giuda suicida appeso all’albero e un ladro in fuga con il bottino sulle spalle, incurante di aver perso le proprie vesti proprio a causa dell’avidità. L’accentuato realismo passa in rassegna perfino una serie di utensili, a caratterizzare l'attività professionale di ogni peccatore: si riconoscono significativamente l'alambicco dell'alchimista, i dadi del giocatore d’azzardo, la cazzuola del muratore e le forbici del sarto...
La bizzarria del ciclo non si limita allo stile: anche l’iconografia è estremamente anomala, a dir poco azzardata. E’ assai interessante osservare come i de Veris, attraverso il medium pittorico, all’alba del ‘400 si facessero carico di una rischiosa missione: quella mettere a nudo una corruzione morale, apparentemente sopita ma a quanto pare più dilagante che mai, tanto in ambito laico quanto ecclesiastico. Infatti, pur trattandosi di un Giudizio Universale, soggetto di larghissima diffusione, l'affresco presenta uno schema iconografico commisto con le macabre rappresentazioni dei Trionfi della Morte: feroci denunce anticlericali, in polemica con le ricchezze terrene.  Gli estremismi di paura e angoscia si alimentano ulteriormente, in considerazione della collocazione all’esterno della chiesa: quasi un manifesto di “memento mori”: ricordati che, ricco o povero, chierico e laico, devi morire. Se consideriamo il momento storico e il luogo, il Ducato di Milano, apparentemente immune a fermenti di qualsivoglia tipo religioso, questo fatto risulta del tutto particolare.

Veniamo a scoprire un ulteriore colpo di scena: a differenza di tutte le altre iconografie tipiche italiane, tipiche dei Giudizi Universali inaugurati dalla controfacciata della cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova in poi, in santa Maria dei Ghirli non troviamo rappresentati, nell’infinito universo raccolto intorno al grande Cristo Giudice, manca qualcosa di fondamentale.
Ai lati del Giudice vi è sì l’umanità, in attesa di responso, ma mancano le abituali figure della Vergine, del Battista e di tutti gli altri santi: tra la figura del Giudice e quelle dei penitenti non esistono intermediari!
La mancata d’intercessione del Giudizio Universale di Campione costituisce un unicum.
In questo contesto, il forte realismo e gli infiniti particolari descrittivi paiono allora palesarsi come espressione di una convinzione, se non addirittura di un credo portato a condannare l’umanità intera considerandola peccatrice in toto, destinata alla perdizione eterna: senza intermediari,  la speranza di salvezza diventa un miraggio luterano ante-litteram. Solo ora, le due figurine di Adamo ed Eva, rivelano il vero senso del ciclo:  basandosi sul rapporto con il Peccato Originale, nel Giudizio Finale di Campione non vi sarà pietà per nessuno! 
                           

Timori apocalittici: aspirazioni al misticismo e alla spiritualità, affondano le proprie radici in luoghi invisibili e criptici della spiritualità: chi può aver commissionato una simile opera? Nel cartiglio ormai semicancellato si accenna a una “scuola”: un’aggregazione non ben definita, tanto meno dichiarata, di accoliti riuniti con finalità di mutua assistenza.
Misteriosi “scholares”…fecero erigere un gran teatro mistico e apocalittico sulle rive del Lago di Lugano: tutto ciò, in un epoca senza eresie e calamità? Perché?
Lo scopriremo nel prossimo articolo.

Marco Corrias (alias Marc Pevèn)
BIBLIOGRAFIA:
Algeri, G. Pittura in Lombardia nel primo Quattrocento, in La Pittura in Italia, Milano 1987
Bandera, S. Il Tardogotico, in Pittura a Como e nel Canton Ticino, Milano, 1994
Bianconi. P. La pittura medievale nel Canton Ticino, Milano 1939
Gregori, M. A proposito dei De Veris, in Paragone, VIII, Milano, 1957
Matalon, S., Mazzini, F. Affreschi del Tre e del Quattrocento in Lombardia, Milano 1958
Rutz, V. Segre. Intorno agli affreschi di Lanfranco e Filippolo de Veris a Campione, 1988
Toesca, P. Il Trecento, Torino 1951

Toesca, P. La pittura e la miniatura nella Lombardia, Torino 1966

Gli oscuri trascorsi di Babbo Natale: santo, guerriero e cacciatore di demoni


Fotomontaggio dalla notte dei Krampus di Soncino 2017

Nell'immaginario recente di noi occidentali, il leggendario Vecchio elargitore di doni si presenta sotto il diffuso stereotipo dell'adorabile omaccione in là con gli anni, ben pasciuto e dalla lunga barba bianca.
Perennemente affezionato alla sua divisa d'ordinanza rossa bordata di pelliccia bianca, Babbo Natale, o Santa Claus, come lo chiamano gli anglosassoni, ogni notte della vigilia di Natale ha l'abitudine tutta particolare d’involarsi su di una fantasmagorica slitta trainata da renne volanti, allo scopo di distribuire doni ai bambini di tutto il mondo. Perlomeno, questo è quanto i grandi hanno voluto farci credere per anni.
Oh, caro eccentrico babbo, o meglio, nonno magico della nostra infanzia, sempre pronto a violare l’altrui proprietà privata senza mai rimetterci la pelle! Affermare che quella creatura, generata per certo da un altro mondo, possedesse qualcosa di miracoloso, era dir poco: dopo aver depositato con cura i doni più o meno candidamente richiesti dai piccoli nella fatidica letterina indirizzata al Polo Nord…o alla Lapponia…o alla Groenlandia…se ne spariva nel nulla, come qualunque altro famoso eroe mascherato o del fantasy che si rispetti. Insomma, pur non avendo mai per davvero afferrato quale fosse il vero recapito del Vecchio in Rosso, dopo insonni veglie notturne i doni sotto il nostro albero di casa o vicino al presepe puntualmente arrivavano. Questi strani eventi ci hanno da sempre emozionati, elettrizzati e talvolta anche insospettiti: soprattutto in Italia dove il presepe, molto diffuso, già di suo ha sempre fatto a pugni in muta e ambigua concorrenza con l’albero, le nostre piccole menti si chiedevano legittimamente: “ma alla fine chi porta i regali, Babbo Natale o Gesù Bambino?”
Alcuni di noi hanno perfino ipotizzato che il caro nonno di tutti, ancora gagliardo e fornito di tali e tanti poteri magici, a ragion di logica apparisse più credibile a compiere la grande impresa, piuttosto che un neonato in fasce. Per contro, la capacità di entrare perfino nelle abitazioni cittadine, anche quelle prive di camino, e di eludere serrature e antifurti (col rischio latente di lasciarci perfino il carbone al posto dei doni), mostrava in lui quel lato furfantesco, quasi inquietante del "trickster": spiritello burlone e irrequieto delle favole inglesi. Questo primo indizio soprannaturale accomuna la natura dello spirito buono del Natale con quella, opposta, suo temuto alter-ego: il crudele “Zwarte Piet”, ossia ”l'uomo nero”, che andava a trovare i bambini cattivi nel sonno per rapirli.

Vetrina viennese: Babbo Natale ubriaco e dormiente

Ma la magia delle favole, si sa, proprio come i miracoli della Fede, è spesso nata per non generare troppi quesiti: e quale magia per un bambino è più grande e potente di quella natalizia? Eppure, lasciar correre così, facendo finta di nulla, non è propriamente cosa facile!
Ancora in età moderna, il misterioso "kerstman", ossia l'uomo dei doni del folklore popolare germanico, non si era del tutto cristianizzato: in nord Europa, soprattutto nei Paesi Bassi, questa sorta di antenato di Babbo Natale si spostava ancora a cavallo, come un guerriero, per riempire di doni e dolciumi gli stivali dei bambini in cambio di carote, paglia o zucchero destinati al destriero Sleipnir, ossia la cavalcatura di Odino. Bella gatta da pelare per i protestanti!
Basti pensare che già ai primi del Seicento, al termine della guerra civile inglese, Oliver Cromwell, religiosissimo condottiero e primo ministro d’Inghilterra, osò addirittura mettere il caro vecchio al bando! E Roma, nel frattempo, che ne pensava?
Le dubbie origini, la presunta immortalità e il possesso di renne volanti (animali notturni e funerari della mitologia baltica) sono tutte capacità che, presumendo il ricorso alla magia, hanno da sempre generato un grandissimo disagio anche tra gli esponenti della Chiesa. Ed ecco affiorare il lato oscuro di Santa Claus…un vagabondo in odore di eresia e stregoneria: un pagano!



Odino il Viandante, Georg von Rosen 1886


La questione andava ricomposta al più presto: fu così che, nel tentativo di "esorcizzare" questa incontrollabile tradizione fin dalle radici, la Chiesa si spinse molto, forse anche troppo in là. Alle antiche origini pagane di Babbo Natale fu sovrapposta alla bell’e meglio la figura di san Nicola, vescovo di Myra, città dell'attuale Turchia ma un tempo parte del cristianissimo impero bizantino: il sant’uomo, che avrebbe sottratto a un oste assassino i cadaveri di cinque fanciulli per poi farli risorgere, è reputato dagli agiografi protettore dei bambini. Giusto per alimentare il dubbio, san Nicola non solo divenne prima un santo barese (per via del noto furto di reliquie operato nel 1000 a fini politici), ma talvolta fu addirittura sostituito da altri uomini di Fede: san Basilio Magno in Grecia, San Martino di Tours in Belgio: ma che confusione!



 Icona russa di San Nicola.

Anche i Protestanti anglosassoni, per una volta d’accordo all’unanimità con i Cattolici, decisero di "battezzare" il pericoloso “outsider” con il nome di Santa Claus: per l’appunto, San Nicola. Ma un "ego te absolvo" e via non era sufficiente a spazzar via le reminiscenze di uno degli dei più importanti del passato remoto.
La vicenda, ancora una volta, puzzava d’inganno. Il confronto tra l'uomo rubizzo che tutti noi conosciamo, giunto fin qui dalle gelide terre del Nord con tanto di renne, è assimilabile a stento con l'immagine di un santo cristiano del Medio Oriente, dedito alla scolastica, alla teologia e alla lotta ai primi eretici. E poi, san Nicola viveva in un clima, quello della Turchia del sud, tra i più mediterranei possibili: il solo fatto che in Russia e nei paesi Baltici Babbo Natale sia ancora ricordato col soprannome chiaro e inconfondibile di "Nonno Gelo" (Died Maròs), sempre accompagnato dalla sua assistente “Sniegurochka”, fata delle nevi, non lascerebbe alcun dubbio circa le vere origini del mito, e l'immenso intrigo internazionale che hanno voluto celare!
Ricomposta la questione con l’omertoso benestare di tutti, oggi il dilemma circa le tradizioni legate a Babbo Natale restano insondabili, proprio come la neve che un tempo il 24 notte cadeva silenziosa e furtiva. Resta da anni la domanda apparentemente più ingenua: “chi é quell'uomo e come fa a fare quello che fa? Ma soprattutto, perché lo fa?”


Cartolina di Santa Claus del 1907 

Sostenere che avrebbe operato per mano del Dio dei cristiani é inaccettabile.
La figura popolare dell'uomo di Natale come lo conosciamo oggi fu dapprima delineata dalla penna di Charles Dickens in "Canto di Natale" (quanti di noi ricordano ancora l'inquieta prima apparizione dell'uomo barbuto e vestito di verde, conosciuto come "Spirito del Natale presente?). Proprio a partire da questa citazione letteraria, rispolverata e riadattata "ad hoc", l'attitudine al consumismo sfrenato indotta a partire dal XX secolo ha attutito il dilemma di fondo: le più esasperanti strumentalizzazioni pubblicitarie e consumistiche operate dal mondo commerciale, in primis statunitense, hanno sepolto il mistero sotto un cumulo di neve fresca. Ai signori della Coca Cola l’aspetto demodé del vecchio Babbo, vestito di verde come un gigante buono o un "green Man" di quelli scolpiti sulle chiese medievali, non andava proprio a genio: il cambio di palandrana da verde a rossa sarebbe stato operato proprio dalla grande azienda, agli inizi degli anni ’30, in concomitanza con il boom di vendite della nota bibita. Ad oggi il cerchio parrebbe essersi chiuso una volta per tutte, e invece…
Tutti questi dilemmi, questi ricordi indotti nelle nostre fragili menti infantili, sono destinati a crollare come un vecchio diorama alla Truman show, sotto il peso di una verità ben poco nota, ma più inquietante. La risposta, di certo, non la troveremo tra i santi d’Oriente ma a nord, che, guarda caso, è proprio la patria del nostro caro Babbo.
Procediamo per gradi, a ritroso, recandoci in primis nelle terre di confine tra i popoli, dove il sincretismo religioso e culturale ha regnato per secoli senza troppi strappi: le Alpi. Qui una tradizione del folklore germanico narra le vicende epiche di uomo, un guerriero, puntualmente tramutato anche in questo caso nell'onnipresente san Nicola, che armato di sola Fede avrebbe fermato orchi e demoni: personificazioni del gelo massacrante d’alta quota, della carestia incombente e delle imboscate dei briganti, nel folklore del nord-est italiano e in Austria questi mostri hanno preso il nome di Krampus.


Esibizione di Krampus a Soncino 2017

Ed ecco palesarsi, tra le brume dell'inconscio, i confini con le lande teutoniche. Spostandoci ancora più a nord e più indietro nel tempo, ossia alle origini del mito, scopriamo che presso i popoli germanici e anglosassoni il dio Odino (“Wotan”), accompagnato dagli altri dei e dagli spiriti dei guerrieri caduti, ogni anno organizzava una grande battuta di caccia proprio nel periodo coincidente col solstizio invernale (“Yule”). Ed ecco tutti i nodi venire al pettine: sotto il cappotto rosso dell'uomo rubizzo, inopportunamente cristianizzato e umiliato come un clownesco rivenditore di bevande gassate made in U.S.A, si cela la scomoda e ancestrale immagine di un nume germanico crudele e spietato, ma all'occorrenza anche giusto e generoso.
ODINO, WOTAN.
Il signore della battaglia, colui che prima di tutti portò lancia ed elmo, era un guerriero barbuto e cieco da un occhio, che celava la sua menomazione sotto un cappellaccio a tesa larga; versione selvaggia del più benevolo santa Claus e del più recente Gandalf il Grigio, Odino era un “wölkervanderer”: un viandante dei popoli, onnipresente e omnisciente. Dall'alto del suo alto trono montano (“Hliðskjálf”) egli spiava gli eventi dei pianeti sottostanti ben prima del Sauron di Tolkien, inviando nel vento i suoi messaggeri alati: i corvi Huginn e Muninn, ossia “Pensiero” e “Memoria.”
La personalità del signore di Asgard, dio dell'Olimpo del Nord, cinico, freddo e dalla mente tortuosa, era assai complessa. Sangue di gigante scorreva nelle vene del “Padre di Tutto”: dio minaccioso e spietato, provava piacere nello scatenare lotte fratricide. Casco d’oro sul capo, compariva dal nulla dinnanzi alle schiere, guidato dal mero capriccio di sorteggiare a caso tra i morti e i sopravvissuti. Prima di subire il processo da parte del cristianesimo, Wotan disponeva dell’aiuto delle bellissime valchirie, che sceglievano i guerrieri caduti con onore in battaglia, per portarli nella “Sala d’Oro”: qui si passava il tempo a dare di scherma, bere e sollazzarsi in attesa del “Ragnarok”: la battaglia finale contro le forze oscure e soprannaturali. La dolce compagnia femminile di Odino, lungo l’inevitabile processo di demonizzazione, sarebbe stata via via sostituita da quella meno allegra di lupi e folletti: gli antenati degli aiutanti di Babbo Natale.
Per giungere a tali traguardi, il nume dovette superare numerose e terribili imprese: molto prima di san Nicola e i Krampus, Odino sfidò orchi nelle profondità della foresta e spaccò i loro crani, abbatté le fortezze dei giganti, li sfidò in astuzia e ne rapì le figlie con l'aiuto della lancia Gungnir, dell’anello dell’invisibilità Draupnir e dell’inseparabile cavallo Sleipnir. Tra le molte imprese del dio vanno annoverate la guerra fratricida tra gli dei Asi e Vani, il furto dell’idromele della poesia sotto il naso di Suttungr e delle mele d’oro di Idun e la gara d’indovinelli vinta contro Gagnrad: in queste imprese il dio uccise molti avversari, tutti giganti, e sedusse le loro figlie.

Hannover (Germania), Monumento a Odino/Wotan con i suoi corvi e lupi (Foto dell’autore)

Ma il "nonno di Santa Claus” cosa donava agli uomini? Forza, coraggio, prontezza di riflessi, capacità poetiche in rima, virilità e vis procreatrice di clan numerosi; virtù innate, allora più importanti dei comuni giocattoli di oggi, in grado i assicurare la sopravvivenza: non per nulla, nel mondo germanico i bambini iniziavano a esercitarsi con spada e scudo fin dalla più tenera età.
La grande prova iniziatica della conoscenza e del coraggio vide il dio appeso per nove giorni e nove notti con la sua stessa lancia infilata nell'occhio, a sua volta conficcata nel tronco dell’Yggdrasill, o albero cosmico. Fu così che, proprio come Prometeo, il Padre di Tutto apprese i misteri più antichi e insondabili della terra e in parte li tramandò agli uomini. Egli non solo conosceva i misteri dei Nove Mondi, ma anche il destino dei mortali e il fato stesso dell'universo.

"Io so che ad un albero al vento pendetti,
per nove notti intere,
ferito da una lancia ed immolato da Odino,
io stesso a me stesso,
su quell'albero che nessuno sa
da quali radici nasca".


Il più grande degli alberi, Yggrasill per i Vichinghi e Irminsul per i Sassoni, estendendo i suoi rami ai confini del cielo garantiva la coesione verticale del mondo; ma anche tutti gli altri alberi, fin dai primordi, fungevano da sacri pilastri che, reggendo il cielo, univano in sposalizio la dea della Terra e quello del Sole e degli astri. Per i celti e i Romani l’albero eletto era la quercia, per i vichinghi il frassino; ma le conifere, onnipresenti nei riti i tutto il mondo nordico come alberi che scaldano e proteggono, più di ogni altra essenza arborea hanno contribuito alla nascita dell'albero di Natale.
Odino era protettore di eroi leggendari, che a sua volta assumevano i suoi tipici tratti. Legati al suo culto bellicoso erano i clan di guerrieri sciamanici, gli úlfheðnar e i berserk, (orsi o lupi mannari, vestiti di cappotti di pelo) i quali, prima della battaglia, entravano in uno stato di furia nel quale cominciavano a ringhiare e a mordere i propri scudi.
I barbari dedicavano a Odino sacrifici di sangue: eppure il dio, nell’ottica del tempo, non era malvagio.
Presso popoli avvezzi a una vita dura, che da tradizione non facevano differenza tra il bene e il male, Odino era ispiratore di passioni a 360 gradi: il suo culto ispirava violenza, guerra e vendetta, ma anche poesia e sapienza. 

 Vienna – albero natalizio in Skt. Stefanplatz (Foto dell’autore)
 
Tra i misfatti e le bizzarrie bestiali commesse dai guerrieri di Odino vi fu Harald il Volsungo, re di Danimarca: Odino gli concesse la vittoria rendendo il suo corpo invulnerabile all'acciaio in cambio delle anime delle vittime che sarebbero morte sotto i suoi fendenti e gli insegnò la tattica militare dello schieramento a cuneo. In seguito a uno scontro fratricida, dopo aver scoperto che le armate svedesi del terribile Starkad avevano assunto la medesima tattica per via del tradimento del dio, Harald fu colpito a morte da Odino stesso travestito da suo auriga. Dopo la morte dell'eroe, suo figlio Hadding fu mandato in Svezia e cresciuto dai giganti in attesa di vendicare suo padre: qui ebbe rapporti carnali con la sua madre adottiva, una temibile gigantessa esperta di magia ed erbe. I consigli suoi e quelli di Odino, come l’abilità nello spezzare le catene e la forza mostruosa acquisita tramite lo sbranamento di un leone, portarono Harald a realizzare la sua vendetta finale. Spesso i favori concessi da Wotan erano tragicamente legati a tabù e maledizioni, come l’impiccagione, il sacrificio umano, l’impalamento, la messa al rogo o addirittura l’annegamento in una grande tinozza di birra. Ma la fine più onorevole era la morte in battaglia: vero e proprio lasciapassare per il Valhalla, l’Olimpo degli dei nordici.
Il più truculento e fedele eroe odinico, e anche il più somigliante al nume, fu Starkad: ennesimo figlio di giganti e inizialmente dotato di otto braccia, Starkad commise molti crimini come l’uccisione del suo capoclan, Vikar, tramite il macabro rituale detto “aquila di sangue”: vera e propria cerimonia consistente nella frattura violenta e apertura delle costole dalla colonna vertebrale della vittima, al fine di estrarre i polmoni per appoggiarli infine sulle spalle, nel gesto di un paio di ali di rapace ripiegate. Dopo una vita “borderline”, alla fine dei suoi anni l’eroe semi-mitico, diventato ormai raggrinzito e barbuto si presentò alla ricca magione del suo vecchio compagno di guerra Ingell: lo ritrovò circondato da ruffiani e nemici del passato, rammollito e sbevazzante alla sua ricca tavolata reale. Dopo aver seminato discordia, Starkad lo incitò ad afferrare la spada come in passato: da quel banchetto, a parte Starkad, non ne uscì vivo nessuno. Molto più tardi il guerriero sarebbe caduto in battaglia contro l’eroe danese Helgi, ma il suo corpo continuò a combattere anche quando la sua testa fu mozzata….
Nessuno di questo è altri misfatti, come prima accennato, è mai descritto come un crimine, ma solo come un dato di fatto e una necessità di libertà ferina e sfrenata. Nel frattempo Odino resta a vedere il coraggio dei suoi combattenti, senza prenderne mai parte.


Copenhagen, Valchiria a Cavallo, dettaglio (Foto dell’autore)

Io ho incitato i principi
E mai ho fatto pace.
Solo Odino promuove ogni male;
egli provocò inimicizia tra i parenti”.


Potremmo chiederci il perché di tutta questa immotivata violenza. La risposta é alquanto semplice: Odino/Wotan era un dio “creato” per la sopravvivenza, e un messaggero del Fato: in un mondo selvaggio un destino favorevole, se accolto con leggerezza, può facilmente tramutarsi in una sorte avversa e terribile. Per questo il dio è sempre lì, pronto a minacciare i guerrieri e i re che troppo hanno bramato, per punirli puntualmente.

“Lo stesso Starkad fu poeta”, diceva un islandese, e “i suoi versi sono i più antichi che si conoscano.” Versi che cantano la saga degli uomini e delle loro vicissitudini. Ogni mortale che abbia scoperto i segreti di Odino potrà essere un saggio guerriero e uno sciamano: viaggiatore in cerca di verità altrimenti nascoste dalle rune insondabili. Perché Wotan, nonostante tutto, resta lo Spirito divino e istintivo insito della Natura, che tutto penetra e tutto conquista.
Buon Natale a tutti.

Marco Corrìas alias Marc Pevén


Magia dell'infanzia: bambini che socializzano con un krampus 




Bibliografia:
Agrati, Gabriella, e Magini, Maria Letizia, Vichinghi, miti e saghe, Mondadori, Milano, 1990.
Eliade, Mircea, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, ed. Mediterranee, Roma, 2005.
Di Nola, Alfonso Maria, James Frazer, Il ramo d’oro, Studio sulla magia e sulla religione, Newton Compton, Ariccia (Roma), 2014.
Lecouteux, Claude, Dizionario della mitologia germanica, Argo, Lecce, 2007.
Murdoch, Brian, e Read, Malcolm, Early germanic literature and culture, Camden House, Woodbridge, Suffolk, 2004
Turville-Petre, Religione e miti del Nord, Il Saggiatore, Milano, 1964





1- M. Presnyakov. Odino. 2008. (Wikipedia, Odino)
https://it.wikipedia.org/wiki/Odino#/media/File:%D0%9E%D0%B4%D0%B8%D0%BD.2008%D0%B3.%D1%81%D0%BC%D0%B5%D1%88.%D1%82%D0%B5%D1%85%D0%BD.20,5%D1%8529.jpg
2- Vetrina viennese: Babbo Natale ubriaco e dormiente (Foto dell’autore)
3- Odino il Viandante, Georg von Rosen 1886
https://it.wikipedia.org/wiki/Odino#/media /File:Georg_von_Rosen__Oden_som_vandringsman,_1886_%28Odin,_the_Wanderer%29.jpg
 4- Icona russa di San Nicola (Wikipedia)
https://it.wikipedia.org/wiki/San_Nicola_di_Bari#/media/File:Nikola_from_1294.jpg
5- Cartolina di Santa Claus del 1907 (Wikipedia)
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Chrisrmas_postcard_1907.jpg
7- Esibizione di Krampus a Tarvisio centrale. Ringraziamenti alla Dott.ssa S. Radoani, (copyright 2015)
7- Hannover (Germania), Monumento a Odino/Wotan con i suoi corvi e lupi (Foto dell’autore)
8- Vienna – albero natalizio in Skt. Stefanplatz (Foto dell’autore)
9- Copenhagen – Copenhagen, Valchiria a Cavallo, dettaglio (Foto dell’autore)
10- Krampus con bambini a Tarvisio centrale. Ringraziamenti alla Dott.ssa S. Radoani, (copyright 2015)