martedì 8 gennaio 2019

“Ordal & Tournoi”: evoluzione del torneo nei secoli, da Giudizio degli Dei a disfida cortese.



Per parlare di torneo nel Medioevo è necessario introdurre il concetto di "ordalia”: termine desunto dall'alto germanico “ordaïl” che riportato in latino medievale come "ordalium" vuole dire "giudizio di Dio".  L'ordalia è un’antica pratica derivata da consuetudini in uso presso i popoli barbarici: una serie di prove come quella dell’acqua bollente o gelida, del ferro rovente oppure del duello, al fine di stabilire l’innocenza o la colpevolezza dell'accusato. Gli esiti della prova assicuravano la manifestazione del “iudicium Dei”, ossia della volontà divina: giudizio spettante agli dei del pantheon germanico o “Valhalla”, a cui più tardi si sostituì il Dio dei cristiani.
La risoluzione di contenziosi legali attraverso l’ordalia, nella forma del torneo all'ultimo sangue, trovò larga applicazione presso tutte le popolazioni germaniche: Goti, Longobardi, Franchi, Turingi e Sassoni sono solo alcuni tra gruppi etnici più citati. I primi riferimenti al duello come strumento di risoluzione di contese risalgono agli storici romani che, da Velleio Patercolo a Tacito, sottolinearono l'incompatibilità di tale prassi barbarica con la concezione romana dello Stato. La consuetudine del duello giudiziario, favorita dal carattere combattivo di quei popoli, a contatto con la dottrina cristiana anziché ammorbidirsi risultò ulteriormente rafforzata: il fondamento del giudizio si basava su un giuramento solenne che, invocando Dio in persona come testimone, rimetteva al suo volere non soltanto gli esiti dello scontro, bensì anche le anime dei contendenti.


La più antica, forse l’unica testimonianza di duello atavico tra eroi verificatosi nel corso dell’Alto medioevo europeo è stata identificata dallo scrivente in un episodio di apparente insignificanza, descritto nella “Storia dei Franchi” di Gregorio di Tours: correva l’anno 590 d.C., l’ultimo del regno di Àutari quando un esercito di Franchi, calati dai valichi dell’attuale Svizzera, fu arrestato presso Ponte Tresa, il cui nome da sempre indica la presenza di un passaggio per l’attraversamento di acque profonde. Qui si consumò un'ordalia tra guerrieri barbarici: un duello tra un Franco e un Longobardo, campioni scelti, a cui era stata affidata l’esecuzione del volere divino presso il confine simbolico del regno aggredito. La più antica testimonianza, invece, di un vero e proprio duello giudiziario sarebbe  riportata da Fredegario, altro storico franco, quando nel 624 Pittone, campione della regina Gundeperga figlia di Teodolinda uccise in singolar tenzone tale Adalulfo, che aveva accusato la sovrana di adulterio e tentato omicidio ai danni del re: l’esito dello scontro comportò la completa riabilitazione della regina. Poco più tardi (643 d.C), il duello per giudizio divino sarebbe stato riconosciuto per iscritto dal celebre Editto di Rotari.
La concezione alla base di tale istituto era quella, "barbarica", che vedeva i campi del diritto, tanto pubblico quanto privato,  quelli della morale e della religione come un tutt'uno inscindibile; inoltre, al culto del divino si accompagnava quello, mai sopito, della forza fisica e delle armi.
A proposito di armi è opportuno ricordare che parte dell'equipaggiamento da guerra, necessario nei secoli a venire, fu proprio introdotto nel corso dell’Alto Medioevo barbarico. Popoli nuovi, originari della steppa come gli Unni, di etnia mongolica e gli Alani e Àvari, turco-altaici, cavalieri eccezionali che passavano la maggior parte della propria vita letteralmente sul cavallo, tra il V e il VII secolo misero a ferro e fuoco prima ii confini dell'Impero romano, poi dei regni barbarici. Il ruolo primario del cavallo, che in età romana era stato impiegato in modo assai marginale e l'introduzione della staffa, sconosciuta al mondo classico e più tardi diffusa su vasta scala nell'esercito franco (VIII sec.) avrebbero pesantemente influenzato i futuri equilibri della neonata Europa. Non va nemmeno del tutto esclusa la possibilità che l'armamento da torneo del basso medioevo sia stato in parte ispirato dai catafratti (da κατά, "tutto", "fino in fondo" e φρακτός "coperto, protetto"): i primi corpi di cavalleria pesante della storia, introdotti dai persiani e ripresi dall'impero bizantino, dove il metallo proteggeva allo stesso tempo cavallo e cavaliere.



Con l'evolversi del Regno longobardo, sotto Liutprando (712-44) si cercò di  limitare il “duello di Dio” a favore delle prove testimoniali, documentali e dei conseguenti risarcimenti dei danni, già precedentemente stabilite da Rotari con l’istituto del “guidrigildo”. Gli unici due casi in cui, in assenza di prove, nell’Italia alto medievale il giudice concedeva il duello riguardavano gli omicidi commessi col veleno o a tradimento e ovviamente, il crimine più grave di tutti:  quello di lesa maestà.
Tuttavia la caduta del regno (774) e il tentativo di sostituire la classe dominante longobarda con quella franca, rimasta ancorata alle tradizioni germaniche, restituì ampia diffusione alle vecchie pratiche. Dapprima la dinastia carolingia (VIII-IX sec.), poi quella ottoniana, sassone (X-XI secc.) sostennero apertamente la necessità del "combattimento giudiziario"; al contrario, esso era disapprovato dalla Chiesa come pratica paganeggiante, sanguinaria e portatrice di faide: d'altronde i signori germanici della guerra ritenevano assai più nobile imporre i propri diritti con la spada, agli impedimenti ecclesiastici di deporre le armi pena il rischio della dannazione eterna.
Proprio a partire dai fin qui analizzati Duelli di Dio, entro i confini dell’impero carolingio dal IX secolo iniziò a svilupparsi il concetto di torneo. Derivato dalla parola francese "tourner", (roteare, girare), il torneo nacque come  sorta di “festa in armi”, comprensiva di un’ampia rassegna di esercizi militari destinati all’allenamento dei nobili di più alto lignaggio: quegli stessi nobili armati che, con la nascita della leva obbligatoria, avevano il dovere di rispondere all’adunata annuale convocata dal sovrano presso i “Campi di Marzo”.
Fondamento essenziale della società armata d’età carolingia e, di riflesso, anche del torneo era "la cavalleria": struttura militare organizzata su base gerarchica, il cui famoso e spesso mitizzato codice, prima di  vedere una forma definitiva, richiese secoli di faticosa elaborazione.
Le prime regole del torneo non sono codificate: ci si basa su un codice di comportamento desunto dalle consuetudini. Fin dalle origini i tornei videro battersi opposti schieramenti di cavalieri, in furibonda mischia entro spazi pianeggianti rigorosamente collocati all’esterno dei centri abitati, con tanto di alberi per le imboscate. Nel giorno e all’ora stabilita,  ogni cavaliere partecipante doveva presentarsi con una piccola guarnigione formata da fanti, arcieri e scudieri. Uno  schieramento era formato dai “ténants”, che avevano lanciato la sfida, un altro dai “vénants” che l'avevano accettata; ed ecco delinearsi vere e proprie simulazioni belliche, pensate allo scopo di esercitare attivamente l’arte della guerra anche durante il periodo invernale, onde evitare che i combattenti potessero infiacchirsi.



Da intendersi come dimostrazioni laiche, i tornei erano indetti allo scopo di garantire efficienza militare, ma anche come occasioni per guadagnare onori e visibilità e, di conseguenza, rinsaldare alleanze politiche tra signori feudali. Lo scopo non doveva essere quello di uccidere ma, al contrario, sconfiggere l’avversario, farlo prigioniero e costringerlo a pagare un riscatto allo scopo di aumentare il proprio prestigio personale. Tuttavia è facile immaginare come, fin dalle origini, il torneo contemplasse scontri armati con alto rischio di morte. Per quanto simulato, esso incarnava pur sempre il momento in cui scatenare liberamente l’aggressività del clan, con tutto il bagaglio di significati annessi e connessi al concetto di “battaglia rituale”: la realizzazione di un meccanismo di predazione e ridistribuzione della ricchezza, tale e quale a quanto accadeva in tempo di guerra.
Il torneo conobbe la sua età dell’oro nel XII secolo: nonostante il primato francese, con l’affermarsi di élite cavalleresche all’interno delle istituzioni cittadine esso conobbe un grande sviluppo anche in Italia, dal Nord fortemente aristocratico e feudale, al Centro caratterizzato dalla presenza di un potente ceto borghese, al Sud normanno - svevo e angioino. L’animosità, di cui il torneo fungeva da tramite, era forte; le rivendicazioni politiche fioccavano in continuazione. Il torneo, effettivamente, incarnò l’ideale valvola di sfogo per una gioventù turbolenta, pericolosamente armata fino ai denti, vogliosa di mettere in mostra la propria grandezza familiare e che, quando non aveva una guerra vera da combattere, doveva pur sempre dare prova di ciò che sapeva fare meglio: combattere.



Osserviamo alcuni episodi da vicino.
Nel 1158, nel pieno dello scontro fra l’imperatore Federico I detto il Barbarossa e il papato, i cittadini cremonesi sfidarono i piacentini col pretesto di un "turneimentum" che nella pratica rivelò essere un regolamento di conti fra città rivali con tanto di morti, feriti e prigionieri. Quando il Barbarossa passò per Faenza, espresso il desiderio di vedere in azione i combattenti cittadini dei quali aveva sentito magnificare le abilità, l’esibizione dei cavalieri locali delle loro virtù belliche, per quanto schermata dal pretesto di un torneo, finì per assumere le sfumature di un monito indirizzato il sovrano stesso.
Fu l’arcivescovo Ottone di Frisinga, nel 1157, a dare a questo genere di esercizi militari il nome esplicito di “torneo”. Tuttavia, perché tale definizione si affermasse occorsero altri decenni: basti pensare che ancora nel 1179 il terzo Concilio Lateranense, convocato da papa Alessandro III allo scopo di vietarlo, lo definì genericamente “mischia” e talvolta anche “singolare tenzone”; i cronisti inglesi, chiamandolo “conflitto gallico”, ne certificarono l’area di origine in Francia.
Tra il XII e il XIV secolo, l’assenza di regole e la violenza imperante imposero la necessità di un codice di stampo non solo militare, ma anche morale: il cavaliere avrebbe dovuto battersi con lealtà, nel nome dei più elevati ideali cristiani; soccorrere i deboli, le donne e i poveri. L'ideale del prode cavaliere e i relativi rituali come la conquista della donna amata, elementi caratterizzanti del torneo e della giostra, ispirarono ideali ben presto sublimati dalla letteratura epico-cortese, in particolare delle “Chansons de Geste”: basti pensare ai personaggi del ciclo arturiano o carolingio, come Lancillotto e Parsifal, o il paladino Orlando. Chi non si atteneva al codice d’onore sarebbe stato marchiato con l’onta della fellonia…
…ma in verità, lungi dall’incarnare il perfetto prototipo del cavaliere senza macchia dei romanzi cortesi, quante volte il codice cavalleresco sarebbe stato impunemente violato?



Per la Chiesa non fu facile tollerare lo spettacolo di cavalieri cristiani che si sfidavano, talvolta fino ad ammazzarsi per motivazioni poco onorevoli come l'amore del gioco, del rischio e del denaro; tanto meno gradì le nuove usanze dell’amor cortese, per le quali i duellanti gareggiavano in nome della loro servitù d'amore verso una dama che si concedeva come ricompensa, spesso in senso esplicitamente sessuale, al vincitore. 
Proprio nel momento in cui  la passione per i tornei iniziava a dilagare in tutta Europa, tra il 1130 e il 1131 il concilio di Clermont e quello di Reims decretarono la scomunica per i partecipanti e vietarono la sepoltura cristiana a coloro che avrebbero trovato la morte nello scontro. L'opposizione della Chiesa ai tornei, appoggiata anche, per motivi di ordine pubblico, dalle monarchie nazionali, fu perseguita attraverso una potente propaganda coltivata al fine di allontanare la classe feudale dai suoi ideali originari: i nuovi modelli proposti allo scopo di incanalare tanta violenza gratuita furono le crociate. I papi cercarono anche di imporre periodi di tregua, detti “Paci di Dio”, in concomitanza con le festività cristiane. Ciò nonostante la popolarità crescente del torneo, unita ai numerosi accorgimenti di riforma del regolamento, nel 1281 avrebbe portato la Chiesa ad abolire tali proibizioni.
In conformità con le esigenze del tempo, i tornei diventarono sempre più spettacolari e fastosi: in virtù del pubblico consenso, tra il XII e il XIII secolo essi iniziarono ad ricevere visibilità e spazio anche all'interno delle mura cittadine. Dal punto di vista pratico, il regolamento formalizzò la prassi e la regolamentò sempre più dettagliatamente: le armi da difesa e offesa, i colpi, i vestimenti, le parate, i saluti al pubblico ricevettero una codificazione sempre più complessa, legata a rigidi cerimoniali.
Ciascun cavaliere in gara veniva chiamato dall’araldo al cospetto del pubblico e dell'autorità che aveva indetto il torneo; ne venivano descritte le armi, il blasone nobiliare ed eventuali vittorie. L'esigenza di distinguersi portò alla diffusione dell’uso di colori e di emblemi sugli scudi e le gualdrappe; i cavalli dovevano essere addestrati alla giostra come in battaglia, in sintonia totale coi comandi del cavaliere.



L’incontro si svolgeva entro un recinto provvisto di un paio di ingressi, ai cui margini si accalcavano gli spettatori: frequentemente, su gradinate intorno alla tribuna centrale, nella quale prendevano posto gli ospiti d’onore e le dame. Un palco a parte era occupato dai giudici della gara, incaricati di tenere il punteggio dei colpi dati e ricevuti, di stilare la classifica finale e proclamare il vincitore. Nella prima fase della storia del torneo, lo svolgimento corretto era garantito dagli araldi stessi; in un momento successivo si costituirono apposite commissioni giudicatrici. Se la giostra si svolgeva entro uno scenario urbano, le finestre che affacciavano sulla piazza erano gremite di pubblico e addobbate con di arazzi e di fiori.
Il torneo fu, almeno fino all’affermazione di un ceto medio dotato di cospicue ricchezze, un esercizio a lungo riservato all’aristocrazia: la sola in grado di potersi permettere di sostenere gli ingenti costi che tali competizioni comportavano in termini di cavalcature, di armi e scudieri al seguito. Se nei secoli precedenti aveva prevalso l’uso della cotta di maglia ad anelli, a partire dalla fine del XIII secolo sopra l’usbergo, ossia sulla cotta di maglia completa si iniziò a indossare singole  piastre metalliche, a proteggere ulteriori parti del corpo sia del cavaliere, sia del cavallo. Gli armaioli svilupparono una particolare capacità nell’ideare singole lamine e piastre flessibili. Di conseguenza, il costo di un’armatura su misura di alta qualità era davvero notevole.
L'equipaggiamento dell'animale era comprensivo di sella dall’arcione ampio, per proteggerne il basso addome e a volte anche le gambe del cavaliere; la testiera era molto spessa e copriva gran parte della visuale del cavallo, di modo che non reagisse di propria iniziativa nello scontro.
Il torneo vero e proprio era preceduto dai preliminari o "commençailles", fatti di sfide personali e combattimenti individuali dove i cavalieri più giovani coglievano l'occasione per mettere in mostra le loro capacità. Ad essi seguiva lo scontro di tutti contro tutti, caratterizzato dalla moltitudine dei combattenti e dalle esibizioni dei cavalieri più esperti e famosi.
Nell’attesa dello scontro vero e proprio, nessun dettaglio era trascurato: prima che il cavaliere montasse e iniziasse a duellare, l’equipaggiamento veniva esaminato attentamente. I combattenti erano presentati dagli araldi; talvolta ingaggiavano gare d’insulti e giungevano perfino a invocare Dio per assicurarsi il suo favore: forse si tratta di elementi residui dell’antica ordalia, sopravvissuta ai secoli. Il premio destinato al vincitore del torneo o della giostra era un bene concreto: armi, cavalli, vesti preziose, fino  all’amore di una dama, magari da avere in moglie.
Allo scopo di limitare gli incidenti mortali fu attuata la distinzione tra tornei con armi "à outrance" o armi nude, cioè da battaglia, e armi "à plaisance", o da cortesia, ossia smussate o con la punta coperta. Anche la sequenza nell’uso delle armi prevedeva un codice di regole: lo scontro iniziava con armi lunghe come la lancia, l'asta e la zagara, funzionali a disarcionare l’avversario; seguiva il turno, forse meno spettacolare ma decisivo, del corpo a corpo con impiego di armi bianche come spade, asce, mazze. Il regolamento giunse perfino a considerare il numero di cariche a cavallo e di colpi che ciascun duellante poteva infliggere con ciascuna arma.
Un celebre esempio di cavaliere in carne ed ossa, affermatosi partendo dal nulla, fu quel Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), poi conte di Pembroke, attentamente descritto dallo storico Georges Duby: annoverato tra i più famosi combattenti noti nell’Inghilterra del XII secolo, Guglielmo iniziò la sua partecipazione ai tornei sconosciuto e povero, senza nemmeno avere un cavallo di sua proprietà, ma impressionando fin dall'inizio per la sua capacità di avere la meglio su professionisti più esperti ed equipaggiati: in onore alle sue vittorie sarebbe perfino stato dedicato un poema cavalleresco.
Ben diversa dal torneo, per quanto derivata da esso, è la giostra: la disfida tra due cavalieri che si lanciano l’uno contro l’altro. Preceduta dall’antico "hastiludium", che a partire dall'XI secolo aveva diffuso il concetto di combattimento a cavallo con la lancia, questa pratica di origine tipicamente italica accentuò la tendenza all’esibizione personale, decretandone il successo.
Fuori dal mucchio selvaggio del torneo, che in Italia era definito con l’inconsueto nome di “battagliola”, l’ideale della sfida personale lanciata a un avversario affinché la raccogliesse per non perdere la faccia diventò lo spettacolo più richiesto e più adatto ad acquisire fama, onori e ricchezze.
Approfondiamo le caratteristiche di questa nuova disciplina, originatasi nel corso del XIII secolo.



Il termine “giostra” deriva da “juxta” (vicino) e “juxtare” (da cui “giostrare”). Organizzata, rispetto al torneo, entro uno spazio più circoscritto, la giostra consisteva nel duello individuale di uomini a cavallo. Dal XV secolo, in virtù della sua maggiore spettacolarità la giostra fu consacrata come competizione di maggior successo. Apprezzata presso un pubblico sempre più ampio e variegato, essa assunse un aspetto elegante e sfarzoso, codificato da un complesso cerimoniale idoneo alla celebrazione di vittorie, ricorrenze, accordi tra signori, feste religiose ed eventi mondani: occasione favorevole all’esibizione di armature sempre più ricche e personalizzate, con bardature e colori sgargianti.
In queste occasioni i principi delle corti italiane ed europee usavano inviare in rappresentanza i cavalieri del proprio seguito, se non partecipare personalmente alle giostre; talvolta vi prendevano parte anche i capitani di ventura, approfittando dei combattimenti cortesi per dimostrare propagandisticamente la propria efficienza bellica.
Entro il recinto fu introdotta una barriera divisoria tra contendenti che esaltasse lo scontro individuale e abilità atletiche come la coordinazione e la precisione nell’uso delle armi al galoppo: lo steccato, detto “lizza”, termine derivato dall’antico tedesco, è preso in prestito ancora oggi con riferimento alla scesa in campo per qualsiasi contesa.
Essa prevedeva l’uso di uno scudo di legno rivestito di cuoio, fissato sulla piastra pettorale della corazza e di una lancia “in resta", ossia saldamente assicurata alla corazza, sotto il braccio destro, con il compito di reggere il peso e assorbire parte del colpo inferto.
Al fine di consentire al cavaliere un urto ottimale, nella giostra con divisorio era indispensabile che il cavallo fosse ben addestrato a tenere il galoppo sullo zoccolo destro, da cui appunto deriva il nome destriero. Lo scopo era quello di disarcionare l'avversario con l'urto della lancia, senza colpire l'elmo.
La lancia da cavaliere in guerra era formata da un palo di legno lungo circa 4 metri e pesante diciotto chilogrammi; il suo eccessivo ingombro ne consentiva l’utilizzo soltanto a cavallo. La consistenza più leggera delle lance da torneo, appositamente di frassino affinché si frantumassero al contatto, doveva evitare lo sfondamento dell'armatura del contendente colpito; l’elmo, della tipologia a “bocca di rana”, era costituito da una fessura a protezione degli occhi e buchi per seguire l’avversario al momento dell’impatto.  Anche con questi accorgimenti non mancarono gli incidenti;  tra i casi più celebri si annovera quello di Enrico II, re di Francia dal 1547 al 1559, che durante un torneo fu colpito ad un occhio da un frammento di lancia che in poco tempo lo portò alla morte.
Nonostante tutti gli sforzi profusi, un vero e proprio regolamento standard non dovette esistere mai, se in ciascuna edizione si potevano dettare regole diverse per rendere il torneo più spettacolare, fino a permettere i colpi proibiti. Formalmente, nel combattimento a cavallo era vietato colpire l'avversario sotto la linea della sella, così come nella fase a piedi non si poteva colpire altro che la testa o il busto; in tempi successivi si sarebbe potuto colpire l’avversario anche “sotto la cintola”. Le regole della giostra di Foligno, per fare un esempio, in quest'epoca permettevano di colpire nella visiera, nella baviera e nel petto e perfino le parti basse...




Con lo sviluppo del ceto borghese, soprattutto in Francia e in Italia, dal XIV secolo le classi sociali emergenti fecero di tutto per inserirsi nel sistema feudale; lo scopo fu raggiunto attraverso la sponsorizzazione dei tornei stessi. Le spese venivano recuperate attraverso il commercio: l'afflusso in città di spettatori e duellanti forestieri, infatti, oltre ai benefici ricavati dalla città per il solo fatto di essere sede ospitante, incrementavano i guadagni di armaioli, sellai, maniscalchi, sarti e cerusici a livelli esponenziali. Nel 1330 i borghesi di Parigi organizzano una serie di combattimenti su imitazione perfetta di quelli aristocratici e invitando a prendervi parte le città vicine, riscossero un successo strepitoso. Poco più tardi, un ricco mercante di Tournai organizzò una confraternita di trentuno borghesi ricchi quanto lui, tutti ammiratori dei romanzi del ciclo arturiano: ciascuno di essi assunse il nome di un personaggio letterario, con l’impegno di offrire a turno un banchetto domenicale a tutti gli altri. Fu così che la borghesia iniziò a vantare il diritto di avere uno stemma sullo stendardo personale, un araldo e di partecipare a tutte le cerimonie familiari e religiose degli altri: questa nuova nobiltà avrebbe presto duellato in compagnia di quella di più antiche origini, senza provocare particolari obiezioni. Dal XV secolo, a Firenze la giostra finì per aprirsi a tutti i gruppi sociali: quella del 1406 vide il premio assegnato a un mercenario sforzesco; quella del 1415 annoverò tra i partecipanti cittadini di borghesi come banchieri Bardi e Acciaioli, i Soderini che già erano nobili ma si fecero mercanti per guadagno. Lo stesso andava accadendo a Milano con i Borromeo, allora nobili da poco e neppure del tutto meneghini: passati alla storia come il casato che diede i natali a San Carlo, ai primi del '400 si trattava di una consorteria famigliare di banchieri fiorentini e padovani.
Verso il 1420 erano stati sviluppate armature a piastre complete che includevano pezzi di ricambio, a seconda delle diverse esigenze. Un’armatura completa a piastre in acciaio doveva pesare tra i 15 e i 25 chili: eppure, chi lo indossava non era del tutto impedito dal peso dell'armatura, distribuito uniformemente su tutto il corpo, dal collo ai piedi, per mezzo di un sistema di articolazioni. Il XV e il XVI furono i secoli che più di tutti conobbero armorari dotati di grandi abilità artistiche. I più abili d’Europa erano i milanesi (Pompeo della Cesa, Filippo e Giovanni  Paolo Negroli) e i bavaresi. Col termine “armi bianche” ci si riferiva a quelle di produzione italiana, innovative nell’uso di piastre a coprire quelle giunture che precedentemente erano difese soltanto dalla maglia metallica; per contro, i loro concorrenti tedeschi producevano le cosiddette “armature gotiche”, altrettanto richieste per via delle tipiche scanalature, ideate allo scopo di proteggere dai colpi. Dall’unione tra i due maggiori tipi d’armatura, quella lombarda e quella tedesca, nacque la cosiddetta armatura “massimilianea” (1514), che costituì un modello definitivo da giostra e da battaglia. Fatta risalire all'imperatore Massimiliano I d'Asburgo e realizzata dall'armoraro di Norimberga Lorenz Helmschmied, essa costituì l'archetipo per lo sviluppo delle successive armature a piastre d’età rinascimentale (XVI secolo). Alla fine del '400, proprio l'imperatore Massimiliano I d’Asburgo si era personalmente impegnato nel perfezionamento della tecnica, al punto da essere soprannominato "l'ultimo cavaliere".




A tal riguardo è doveroso citare il “Freydal”, manoscritto con disegni e annotazioni sui sessantaquattro tornei a cui Massimiliano aveva preso parte. Le nuove forme di torneo ed equipaggiamento sportivo a cui l’imperatore Massimiliano diede vita avrebbero fatto nascere i ben noti luoghi comuni moderni sulla pesantezza o goffaggine delle armature “medievali". Nel frattempo si mosse anche l’Inghilterra: l'armatura di Greenwich, voluta da Enrico VIII, fu realizzata da un laboratorio reale inglese che aveva ai suoi servizi artigiani italiani, fiamminghi e tedeschi. Un altro modello, più attardato, legato al nome di Massimiliano II d'Asburgo, ultimo grande committente di armatura scanalate (1557) delineò in  maniera definitiva la supremazia del “design italiano” nelle armature da parata.
In epoca tarda la giostra si sarebbe trasformata in una sorta di esibizione dove atletismo e coraggio contavano sempre meno. Tutta l’attenzione ricadde sulle elaboratissime armature da parata, ideate da veri e propri artisti specializzati. Il tripudio di tessuti e gioielli, di stemmi e imprese cavalleresche, nel Rinascimento tramutò la giostra in vera e propria “sfilata di moda”. Nel XVII secolo il cavalier Marino, famoso poeta barocco, si soffermò ironicamente su un gruppo di cavalieri italiani e stranieri protagonisti di un torneo che agghindati, luccicanti e truccati non avevano più nulla a che spartire con ii loro predecessori; nel famoso don Chisciotte a sua volta, lo spagnolo Cervantes, descrivendo le tragicomiche disavventure di un vecchio hidalgo decaduto, descrisse il definitivo tramonto di un’epoca: la fine della cavalleria, dei tornei, delle imprese, della giostra.
L’eredità del torneo sarebbe dignitosamente sopravvissuta come tradizione nell’ambito di ricorrenze e festività tipiche di molti centri storici, fortemente legati al loro passato. È il caso, tra gli altri, della Giostra della Quintana di Ascoli Piceno: rievocazione storica medioevale con giostra equestre che si svolge la prima domenica di agosto in occasione della festa di Sant'Emidio, patrono e primo vescovo della città marchigiana.



BIBLIOGRAFIA:

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I predatori più temuti del medioevo: l'orso, il lupo...e l'uomo


“A fronte praecipitium, a tergo lupi”, cita un antico proverbio latino, ossia "un precipizio davanti, i lupi alle spalle". Questo e altri motti ci riportano ad una delle più grandi paure dell'uomo medievale: quella del lupo. , Si tramanda che il predatore, favorito da inverni eccezionalmente rigidi, assalisse le greggi e i pellegrini in viaggio; talvolta, spinti dalla carestia, i branchi si spingevano fino ai monasteri e alle città: ed eccoli, soprattutto nelle cronache basso medioevali, penetrare furbescamente attraverso le mura, per  insanguinare le stalle e "portare via" perfino gli infanti dalle culle!

Non troppo diversamente da oggi, la notizia di un uomo sbranato da una bestia selvatica tendeva a dipingere quest'ultima come una creatura  fuori dal comune: i "misfatti" del lupo, per sua natura cacciatore, correndo di bocca in bocca tendevano a ingigantirsi fino all'esagerazione grottesca: la fama sinistra  dell'infallibile cacciatore antropofago, demoniaco portatore di morbi e messaggero di sciagure, iniziò ben presto a fare del lupo il protagonista di leggende e note favole del folklore europeo. Imbattersi nei temuti canidi selvaggi, nel medioevo, doveva essere indubbiamente facile: certamente più usuale di un incontro, pressoché impossibile, con l'esotico leone e altre belve mostruose dell'imaginario medievale, scolpite nelle basiliche del XII-XIII secolo. Il lupo, semplicemente, abitava in quegli stessi boschi e montagne che l'uomo, costretto a confrontarsi quotidianamente con la natura, tentava faticosamente di addomesticare: ed ecco emergere, nel colono medievale, sentimenti di paura rivolti all'ignoto. Una paura che, nonostante tutto, non era affatto ancestrale: anzi, tra le altre cose fu alimentata a tavolino dalla Chiesa, per dissuadere gli uomini dal ritorno ai culti pagani di tipo "totemico". Il primo a violare questo rapporto di antico e delicato equilibrio simbiotico fu Carlo Magno: nel suo celebre "Capitulare de Villis", all'alba del IX secolo si nominavano appositi funzionari per la caccia al lupo, detti “lupari”. Duecento anni dopo anche re Berengario II e numerosi vescovi si fecero promotori di grandi battute di caccia "per salvaguardare la popolazione" o meglio, i loro allevamenti.

"Ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi" esclamò Cristo, anticipando un concetto espresso da molti teologi tra Tardoantico e alto medioevo, Sant'Ambrogio in primis. Papa Gregorio Magno, in una lettera della fine del VI secolo indirizzata al basileus Maurizio di Bisanzio, specificò che "stiamo nella Chiesa, eppure non miriamo che alla grandezza; non siamo i dottori ma i duchi della superbia; sotto l'aspetto di agnelli nascondiamo denti di lupo" (Reg. V, 37)
Queste e numerose altre profezie provano come la mentalità del tempo, attraverso il confronto con i cosiddetti "bestiari moralizzati", miniati e successivamente scolpiti nella pietra, non intendesse soltanto condannare il lupo inteso in senso stretto, ma anche salvaguardare simbolicamente il fedele dai suoi stessi simili che presentassero connotati bestiali e "anticristiani":  i pagani, gli eretici, i ladri e gli assassini.
Eppure, se i casi in cui i santi addomesticarono i lupi erano così famosi, tale guerra doveva ipoteticamente essere destinata a finire. Francesco d'Assisi, ultimo di una lunga serie di santi (l'anatolico Biagio, sant’Amico, sant'Anselmo da Padova, san Colombano) é anche il più celebre:   forse che anche l'episodio della sua abilità nel persuadere il lupo di Gubbio a non commettere più scorrerie nel territorio andasse interpretato come "exemplum", parabola di vita indirizzata a un predone redento?

"Ferocissimus, atrocissimus ursus!"

Giacché Nell'antico Testamento il profeta Amos soleva osservare “come quando uno fugge davanti a un leone e si imbatte in un orso” nemmeno l'orso, nell'immaginario medievale cristianizzato, se la sarebbe passata meglio.  Nelle Sacre Scritture, infatti, non vi era belva che fosse in grado di competere con esso in quanto a violenza.
“Come un'orsa privata dei figli” era un'altra metafora significativa di una violenza che, una volta scatenatasi, non poteva più essere contenuta.
Ancor più dell'incontro col lupo, quello con l'orso infuriato rappresentava per l'uomo medievale la peggiore di tutte le esperienze: solo i grandi eroi, protetti da volere divino, potevano misurarsi con questa bestia, incarnazione dell'ira, e uscirne vincitori.
Oltre alla mole colossale, agli artigli e alle zanne, nell'ottica del tempo la caratteristica che rendeva l'orso inquietante era la capacità di alzarsi su due zampe e combattere in posizione eretta: in tal modo la fiera assumeva sembianze grottescamente umanoidi, che gli valsero l'accusa di volersi innalzare al livello morale dell'uomo ad immagine e somiglianza di Dio: creatura iraconda, pigra, golosa e invidiosa, il plantigrado era accusato e perfino di  rapire fanciulle allo scopo di violentarle.
Fu così che domare un orso e incatenarlo diventò metaforicamente l'atto del dominio  sugli istinti e le tentazioni peccaminose: ed ecco   fiorire tradizioni moraleggianti che vollero orsi domati e quasi ridicolizzati. Per penitenza, san Marino  impose a un orso il lavoro alla macina, al posto dell'asino che aveva divorato:  in questo modo la natura selvaggia e "pagana" della fiera veniva simbolicamente esorcizzata.
Più rispettoso é l'episodio di San Colombano, che vivendo con gli orsi  e condividendo il cibo con essi ricorda il paradigma, scordato  dai più, di un'epoca antica di convivenza pacifica tra uomo e natura.
Eppure, prima che fosse rimpiazzato dall'esotico leone, ai signori medievali e ai cavalieri in araldica longobarda e carolingia non dispiacque mai il blasone dell'orso, né le sue caratteristiche di forza e imponenza, tant'è che nel mondo celtico e germanico e il fiorire di nomi ad esso riferiti, come Bernardo e Artù, e di città, come Berna. Ancora una volta, i timori quotidiani dell'uomo comune  si rivelarono generati dall'uomo stesso.

QUANDO L'EROE SI ANIMALIZZA.

”Ora lotta coi draghi e coi lupi, ora con tori, con orsi e cinghiali e giganti che dagli alti dirupi lo inseguono”. (Beowulf). La presenza dell’orso e del lupo, compagni di viaggio dell'uomo fin dalle radici della cultura preistorica ha generato miti, leggende, rituali e fiabe. Inseguire le fiere nella solitudine della foresta spesso portava gli eroi a diventare come loro. Il rapporto ambivalente tra uomo e lupo ha radici antiche; accanto alla paura, infatti, conviveva l'ammirazione per quelle caratteristiche di cacciatore imbattibile che resero il lupo animale totemico per eccellenza dei popoli barbarici.
Anche l'orso, prima dell'avvento del cristianesimo, possedeva valenze positive come simbolo di forza e generosità: il guerriero le ereditava da antenati o parenti adottivi dai tratti ursini, oppure li acquisiva attraverso uno scontro simbolico con la bestia stessa. In entrambi i casi, prima che fosse sostituito dall'emblema del leone, fu proprio il legame  con l’orso a rendere un uomo degno di essere un re.
Presso le popolazioni guerriere germaniche e scandinave in cui era sopravvissuto qualche residuo di sciamanesimo, vi erano gruppi di guerrieri scelti che andavano in battaglia vestiti di pelli animali. I primi si chiamavano úlfheðnar (pelli di lupo), berserkir i secondi (pellicce d'orso): entrambi i gruppi erano accomunati da uno stato di trance forse  generato da un mix di birra e sostanze allucinogene e psocotrope (fungo "amanita muscaria", digitale) che, rendendoli particolarmente feroci e insensibili al dolore, ne faceva nemici pressoché invincibili.
I longobardi non temevano i lupi, anzi:  destinare ai propri figli nomi totemici di lupi a scopo protettivo e scaramantico (Aginulf, Adalulf, Hrodulf...) significava porsi sotto la protezione dell'animale più venerato.  Spesso gli arimanni o uomini liberi del clan, legittimati all'uso delle armi,  usavano riunirsi in un cerchio sacro detto "wulfhrings": il recinto del lupo. Queste consuetudini "ferine" darebbero state confermate dallo storico longobardo cristianizzato Paolo Diacono (VIII-IX sec.) a proposito dei cynocefali: guerrieri "testa di cane", intruppati tra le schiere dei suoi antenati agli albori della loro storia.

"Allora la testa del gigante Mimir pronunciò le rune possenti. Disse che erano incise sullo schermo posto a scudo del sole splendente, sul trono di Odino, sugli artigli dell’orso, sulle grinfie del lupo, sul becco dell'Aquila...(...)"


LA CARNE DELL'ORSO: IL BANCHETTO DEGNO DI UN RE.
"Vi cibate con la carne delle fiere. Lupi e orsi che non hanno ancora digerito carni umane, cinghiali che si sono bagnati nel sangue degli uomini che hanno dilaniato. Cannibali! (Tertulliano, Apologetico)
Alle origini l’orso suscitò un'impressione tale da essere considerato alla stregua di una divinità e di uno spirito benefico: il plantigrado era considerato un messaggero degli dei, inviato dall’aldilà per dare  stagione favorevoli e caccia abbondante. Esso era venerato...e anche...mangiato! Il suo sacrificio era una cerimonia di venerazione e la sua uccisione rituale incarnava l’ostacolo che il cavaliere più coraggioso doveva  superare per compiere  la sua missione più eroica.

La carne d’orso veniva presa in considerazione ancora nel basso medioevo  ma si avverte che è pesante da digerire, nuoce al fegato e alla milza, contiene molte scorie, toglie l’appetito e provoca senso di nausea in chi la mangia.



M. Montanari - Il bosco nel Medioevo
Gregorio Magno Storie di santi e diavoli
Cattabiani
Frigerio
Julien Ries)


La caccia nel medioevo: dal rito arcaico alla moda cortese



Medioevo Misterioso 2017
Marco Corrias

L’alba del Medioevo fu un’epoca piena di insidie, dominata da preoccupazioni costanti: prima fra tutte, la lotta per la sopravvivenza. Con l'arrivo dei Longobardi, il più feroce tra i popoli barbari, dal 568 d.C. nobili ”farae” calate in Italia dalle Alpi nord-orientali si presentarono agli italici superstiti come tribù animate da un’etica fondata sul coraggio e l’esaltazione ferina. Se presso l’Italia costiera occupata dai bizantini, dediti all'allevamento intensivo e alla pesca, l’interesse per la caccia era pressoché ininfluente, nell'entroterra germanizzato l'attività venatoria fu parte integrante di una quotidianità fondata su riti tribali volti ad esaltare gli antichi dei della guerra: la sua centralità nella formazione dei giovani arimanni affonda le radici nei primordi della tradizione indoeuropea. Lo spazio consacrato alla caccia era la foresta: luogo di tenebra materiale e astratta, rifugio di belve e paure inconsce riservato all’avventura e al superamento di riti di passaggio. Chi ne usciva trionfante diventava guerriero, oppure riacquistava l’onore che per qualche motivo aveva perduto. Chi, invece, pur sopravvivendo ai tranelli del bosco, vi soggiornava per troppo tempo, rischiava di perdere la sua umanità. L’anonimo autore del “Beowulf”, noto poema sassone del VII secolo, riferendosi al destino dell’eroe narrava: “ora lotta coi draghi e coi lupi, ora con gli orchi che stan tra le rocce; ora con tori, orsi, cinghiali e giganti che dagli alti dirupi lo inseguono”.  Tutto ciò significava che, a forza di inseguire belve, prima o poi il guerriero stesso avrebbe rischiato a sua volta di tramutarsi in “orso della sera o lupo mannaro” ossia in qualcosa di incontrollabile. Il rapporto complesso e ambivalente quando non addirittura simbiotico con la bestia selvaggia è descritto in maniera efficace nella Völsunga saga, dove il rito iniziatico consisteva nell’impadronirsi di pellicce che una volta indossate, permisero agli eroi di divenire lupi mannari. Anche lo storico longobardo Paolo Diacono narrò dei cinocefali, guerrieri dalla testa di lupo bevitori di sangue umano, invincibili quanto temuti e perciò emarginati dalla società civile.
La stima nutrita dai barbari verso il lupo e l’orso era tale da chiamare i propri figli con nomi composti da una doppia radice: l’appellativo totemico di “Beo + Wulf”, per esempio, era destinato ad attirare sul nascituro le qualità delle due belve ammirate, nonché il favore dei loro spiriti tutelari.
Il rapporto tra caccia e guerra nel Medioevo risulta chiaro: l’una è sorella dell’altra. Soprattutto in tempo di pace, la caccia funge da palestra in attesa di battaglie imminenti: il suo esercizio costante è finalizzato al farsi trovare preparati nel giorno un cui i corni da guerra chiameranno le schiere in rassegna davanti al sovrano.
Nell’Europa del millennio più lungo, cavalieri uniti in consorterie armate stringevano sodalizi rinsaldati da imprese condivise; assaporavano esistenze fatte di guerre, caccie e banchetti, scalpitando in attesa di un buon destriero, per ripartire al più presto al galoppo verso l'ignoto. La necessità di ostentare valore, talvolta, li spingeva a disdegnare la caccia estiva, quando la selvaggina è stanca e più facile da abbattere, a favore di quella invernale. Col favore di un terreno reso insidioso dalle nevi e dal fango, le bestie, feroci e affamate, avrebbero opposto una resistenza tenace, tale da permettere agli avventurieri più temerari di identificarsi con gli eroi dei tempi antichi, capaci di forgiare il proprio destino attraverso la “caccia eroica”.
La ricerca esasperata dello scontro fisico in circostanze proibitive coinvolgeva perfino i re, desiderosi di confermare periodicamente, sotto lo sguardo degli infidi sudditi, la loro leadership: documenti del IX secolo testimoniano l’abitudine dell’imperatore Carlo Magno di ingaggiare scontri “extracta spada”, ossia corpo a corpo, niente meno che con i bisonti. Sulla scorta di questa e altre testimonianze del tempo è facile intuire perché la percentuale di decessi durante le battute di caccia fosse tanto elevata!
Il più grande compagno dei barbari era il destriero: la cultura del guerriero a cavallo, poco sviluppata in età romana, si consolidò con l’irruzione, nell’Europa del V secolo, di implacabili predoni nomadi, originari delle steppe centro-asiatiche, ricordati dai posteri con il temuto nome di Unni. La cosiddetta “orda” era costituita da guerrieri instancabili e arcieri infallibili: esperti allevatori che vivevano a stretto contatto con i loro cavalli per tutta la vita. Ogni uomo libero, proprietario di almeno sette capi, raggiungeva una simbiosi tale con le sue bestie da non scendere quasi mai di sella e farsi addirittura seppellire in loro compagnia. Durante la cerimonia dell’ultimo addio ai guerrieri, quando i loro tesori più prestigiosi erano stati gettati sulle pire infuocate e i membri del clan bollivano le carni del banchetto nei calderoni, si brindava in onore dei morti svuotando coppe ricolme di latte di giumenta fermentato e pregando che i fidati destrieri sacrificati con essi li portassero sani e salvi nell’aldilà. Fu così che, al tramonto dell'Impero, mentre i delicati purosangue romani nati dall’incrocio di razze selezionate si estinguevano alla stregua dei loro padroni i tenaci Unni, seguiti dagli Ávari (VII-X sec.), lanciati a più riprese alla conquista dell'Europa in sella ad agili cavalli semiselvaggi portarono con sé tecniche d’equitazione ed equipaggiamenti sempre più sofisticati. Le prime preziose novità introdotte dai popoli dagli occhi a mandorla, ossia la staffa e vari tipi di briglie, trovarono i più sensibili estimatori nei biondi popoli germanici. Presto, perfino i capiclan goti, franchi, gepidi e longobardi sarebbero stati sepolti in compagnia dei propri destrieri.
Lo stesso Carlo Magno, imperatore dei Franchi, nell’issare i figli in sella con le armi in pugno, trasmise ai posteri quel senso di urgenza ancora genuinamente barbarica, tramandata da un proverbio carolingio: “chi senza montare a cavallo è restato a scuola fino a dodici anni, non è più buono ad altro che a fare il prete”.
Eppure, con l'avvento dei sovrani carolingi qualcosa cambiò radicalmente. All’alba della conquista dei regni barbarici le necessità di riordino amministrativo, portando alla creazione di grandi riserve curtensi e parchi recintati, causarono una mutazione profonda: sia nella gestione fondiaria, sia nello stile del vivere e intendere l’attività venatoria. Se nell'alto medioevo la caccia grossa non era stata ancora preclusa alle popolazioni rurali, d’ora in poi cacciare nel bosco di un feudatario non era considerato soltanto un furto, ma anche un vero e proprio gesto di sfida rivolto un’autorità superiore e alla sua proprietà privata.
Se è vero che la caccia, in quanto prodotto culturale, si è resa sempre portatrice degli aspetti militari, rituali, didattici ed agonistici di ogni tempo, è altrettanto fondato sostenere che, al sopraggiungere del basso medioevo, il ridimensionamento delle pratiche paganeggianti indotte da una società più laica portò inesorabilmente alla ribalta un aspetto prima trascurato: quello ludico, aristocratico e profano. Fu così che le scenografiche caccie regali presero l’aspetto di lussuose escursioni cortesi nel cuore di grandi riserve, popolate da superbe mute di cani di razza e cacciatori esperti, pronti a compiacere e impressionare ospiti d’alto rango.
Che dire, in questo frangente, del rapporto tra caccia e Chiesa? Nell’attività venatoria, il clero scorgeva soltanto l'esercizio gratuito di una violenza fine a se stessa, priva di ogni nesso con la morale cristiana; a nulla valse la regola di San Benedetto, che vietò ai suoi monaci di mangiare carni di quadrupede. Per di più, quando il cavalier cortese entrava nella foresta, gettava alle spalle la sua morale per riavvicinarsi, più o meno inconsciamente, a quella dimensione precristiana che la Chiesa aveva combattuto per secoli. Il morboso appagamento insito nella pratica della violenza compiuta nella foresta poteva perfino sfociare in altre forme di piacere nascoste, sospese tra magia ed erotismo: ecco perché il bosco, pur avendo perduto la sacralità di un tempo, si era tramutato in un tempio profano ad uso e consumo di signori feudali violenti e libertini. Questo ambiguo retaggio si palesa anche attraverso i personaggi letterari dei poemi di Chrétien de Troyes: i nobili Lancillotto e Yvain, vittime di amori proibito e autodistruttivi che li avevano portati sull’orlo della follia, scelsero proprio il bosco come luogo di espiazione. Che dire poi del famoso “Sonar bracchetti”, scritto alla fine Duecento da Dante Alighieri, che in linea con la mentalità guelfa del tempo rivelò di non amare l’eccessivo entusiasmo per la caccia, da sempre ad appannaggio della nobiltà del contado perché ritenuta una “selvaggia dilettanza”, incompatibile con la “leggiadria di gentil core”?
In Italia, un ruolo rivoluzionario nella pratica della caccia interessò dapprima i Normanni del sud, poi gli Svevi. Proprio nella prima metà del XIII secolo, durante la permanenza siciliana dell’imperatore Federico II di Svevia, massimo fautore dell’evoluzione ludica dell’attività venatoria, fiorì in via definitiva la tendenza a contrapporre alla guerra la nuova moda del “plaisir” o piacere della caccia, intesa come svago mondano riservato esclusivamente alle élite regali e nobiliari. In questo contesto, la tendenza ad avvalersi di tre inseparabili compagni di caccia come il succitato cavallo, il cane e l’uccello rapace conobbe nuovi e complessi sviluppi: l’elevato apprezzamento dei tre animali fece di essi emblemi virtuosi di tale rilievo che il loro valore affettivo spesso ebbe la meglio perfino sui legami familiari.
Con questa tendenza si inaugurò la grande epoca dei manuali e dei trattati venatori. Giordano Ruffo, uomo della corte di Federico II, dietro suggerimento del sovrano, patrocinatore di scuderie costosissime, compilò l’opera intitolata “De Cura Equorum”. Dopo secoli di citazioni occasionali di molossi e mastini impiegati dai barbari per la guardia e la caccia al lupo, la trattatistica “cinegetica” bassomedievale incensò il levriero come il più nobile e veloce tra i cani. Federico stesso si uniformò al parere del domenicano francese Vincenzo di Beauvais, che considerava il levriero indispensabile: Non per caso, la società cavalleresca dedicò a questo splendido cane emblemi araldici e ritratti tombali, ai piedi delle statue funebri dei nobili di cui incarnava la virtù cavalleresca della fedeltà.
Anche la caccia col falcone, complessa attività che richiedeva grande passione nell'addestrare i rapaci alla cattura di altri volatili, diventando col tempo esclusiva dell’immaginario tardomedievale cortese, ne oscurava le origini: essa era stata introdotta in Europa dagli ostrogoti attraverso il sodalizio con i popoli delle steppe. In seguito alla trasformazione della caccia in privilegio, anche i rapaci, da simbolo sacro e totemico quali erano stati un tempo, incarnarono nuove allegorie araldiche: in virtù della raffinata complessità delle tecniche di allevamento e caccia che la caratterizzano, la falconeria fu addirittura ritenuta la forma di caccia più idonea a incarnare il significato simbolico della nobiltà e del predominio.
Dopo essere stato educato alla falconeria da esperti arabi, Federico II fece stilare il suo capolavoro: il “De arte venandi cum avibus” (“Sull'arte di cacciare con gli uccelli”): il più importante trattato d’arte venatoria della storia, tra le cui pagine miniate era illustrata la differenza tra falconeria “di alto” e “basso” volo, a seconda del tipo di rapace impiegato e dell’ambiente di caccia che ci si prefiggeva di battere. Federico, convinto che la falconeria fosse la più nobile tra tutte le “venationes”, vi impiegò capitali ingenti e studi talmente approfonditi, al punto da tramutare tale pratica in un connubio tra attività venatoria e studio della moderna “etologia”: disciplina scientifica che studia il comportamento animale nel suo ambiente naturale.
Il trattato di Federico II non solo rimase incompleto, ma anche incompreso: la sua opera si manifestò da subito troppo geniale e moderna per poter ricevere il meritato riconoscimento presso i posteri. In questo insuccesso, qualche studioso volle scorgere il riflesso dell’intera politica del re detto “stupor mundi”, talmente lungimirante da patire la condanna di non poter raccogliere frutti del suo operato se non nel lungo termine: ossia, fino a più attenti e approfonditi studi, inaugurati soltanto nel XX secolo.


Box 1: LE ARMI DELLA CACCIA
Fin dagli albori dell'età del Ferro, l’arma per eccellenza del duello fu la spada; prediletta già dai celti, essa da sempre riflette le virtù tipiche del guerriero: coraggio, nobiltà e virilità. Tuttavia, altre armi da mischia e da getto come asce e lance garantivano maggior successo nella caccia. Il rapporto con l'arco, invece, rimase ambiguo per secoli. Se presso i popoli orientali e delle steppe esso era l'arma della caccia eroica per eccellenza, tale riconoscimento in Europa fu ottenuto tardi e solo in misura parziale; i popoli barbari, ritenendolo un’arma da vigliacchi, preferivano delegarne l'uso ai seguaci. Solo nel basso medioevo l’uso dell’arco fu rivalutato: tanto nella pratica, quanto dal punto vista simbolico, come emblema d’astuzia e destrezza a discapito della forza bruta.



Box 2: L’AQUILA MISTICA, REGINA DEL CIELO
“Allora l'aquila, ubbidendo all'Altissimo, discese sulla terra ingravidando una donna, dalla quale nacque il primo sciamano. Per questo si suole dire che gli sciamani si adornano delle sue sacre piume, perché la loro anima possa salire in cielo o discendere negli inferi”.
Agli albori del Medioevo, a contatto con la falconeria unna i goti accolsero aquile e falchi come massimi emblemi tribali di coraggio e saggezza. I loro orafi, sbalzandone i fieri profili e le forme stilizzate su gioielli aurei, ne diffusero il gusto barbarico in tutta Europa.
Uccello iniziatico, simbolo solare e delle quote celesti sul cui becco sono incise rune mistiche, l'aquila odinica che mai distoglie lo sguardo dinnanzi al sole è l'emblema del fulmine e del fervore guerriero. Anche il cristianesimo, accostandovi allegoricamente san Giovanni Evangelista che profetò con acume l'Apocalisse, le attribuì il ruolo preminente di messaggera del Signore. Il testo biblico dei Proverbi, riferendosi proprio al re degli uccelli afferma chiaramente: “mia è la via del cielo”.



Box 3: LA CACCIA SELVAGGIA
Fra i paurosi racconti diffusi tra le Alpi infuriava la credenza di un possente cacciatore selvaggio e del suo corteo infernale: tra Natale e Capodanno, 12 giorni all’anno il dio Odino, abiurato dai cattolici, si dava ciclicamente ritrovo su questa Terra con gli spiriti inquieti di eroi del passato come re Teodorico e Artù, presso tombe profanate dagli elfi oscuri. In quelle notti, creature risorte dal mito ingrossavano le fila di un esercito di orchi e dannati che, spinto dai soffi del folle vento alpino “Föhn” e dal suono agghiacciante del corni da caccia, sulla scia di una muta di segugi fantasma turbinava follemente sotto la luce della luna. “La corsa e la caccia fanno impazzire il cuore dell'uomo” ricordava un filosofo orientale, indicando il nemico peggiore proprio nelle pulsioni dell’inconscio.

Donato Bramante, poliedrico genio - viaggiatore del Rinascimento





Pubblicato su "Arte della Marca" del 02/04/2018

Donato di Pascuccio, detto "Bramante", genio marchigiano nato nel 1444 a Monte Asdrualdo (oggi Fermignano) presso Urbino, non fu "solo" il più grande architetto del suo tempo, in quella fase a cavallo tra '400 e '500 che portò le corti del Rinascimento italiano alla loro massima fioritura; egli fu anche un grande disegnatore e pittore, cortigiano, intellettuale, teorico e perfino poeta.
Gli anni della formazione, piuttosto oscuri, vanno tracciati in primis attraverso un'attenta rilettura delle "Vite" del critico e artista Giorgio Vasari, che indicherebbe il primo maestro del Bramante in Fra'Carnevale, pittore studioso di prospettiva ed esecutore delle tavole Barberini. Proprio in quegli anni Federico da Montefeltro, principe – condottiero e intellettuale tra i maggiori del suo tempo, aveva trasformato la piccola Urbino in uno dei centri economici e culturali più evoluti d’Europa; un clima favorevole, che avrebbe certamente permesso al giovane Donato di instaurare contatti con artisti d'eccezione come Luca Signorelli, Melozzo da Forlì, Giusto di Gand e, soprattutto, Piero della Francesca. Bramante ebbe la fortuna di studiare le formulazioni pittoriche matematico - geometriche, quasi "metafisiche" di quest'ultimo, all’ombra del prestigioso cantiere del Palazzo Ducale di Urbino, che architetti di spicco come il dalmata Luciano Laurana e il senese Francesco di Giorgio Martini andavano portando a termine sotto la supervisione dell’illuminato duca da Montefeltro. Educato nella Mantova dei aggiornatissimi Gonzaga dall'umanista Vittorino da Feltre, il signore di Urbino cercò di introdurre nel suo ambiente quella particolare atmosfera respirata nella ricca Corte padana, coinvolgendo nel suo progetto uno stuolo di intellettuali principalmente attratti da sperimentazioni matematiche e prospettiche, tali da esprimere un nuovo corso storico e culturale. L’obiettivo coltivato da Federico da Montefeltro e dai suoi artisti migliori divenne quello, tipicamente umanistico, di ricreare in base ai testi letterari dell’architetto fiorentino Leon Battista Alberti uno spazio “in forma di palazzo”, che per tipologie architettoniche e geometrie infallibili divenisse il nucleo di una “Città Ideale”. Prima di diventare luogo fisico reale, la fondazione della “nuova Atene” doveva essere l’espressione intellettuale di un’aspirazione astratta che mirasse alla perfezione geometrica e armonica di un mondo perfetto. La sua concretizzazione, prima ancora di affermarsi nei progetti urbanistici concreti di Urbino, Pienza e Ferrara, vide la luce in un “trittico” di celebri ma anonime tavole prospettiche di produzione urbinate: rispettivamente definite come tavola di Urbino, di Baltimora e di Berlino e attribuibili alla stessa umano, esse rappresentavano scorci di città ideali, campionario delle possibili variazioni di un vocabolario architettonico derivato dal mondo classico, che il duca avrebbe desiderato realizzare nella sua città: Urbino, un centro relativamente piccolo da ricostruire ex novo, secondo i dettami di un’urbanistica rinnovata e di un’arte figurativa come quella di Piero della Francesca che, benché celebrativa, con le sue architetture immote e suoi silenziosi colloqui delineava uno scenario tutto sommato potenzialmente sfiorato dal rischio di restare utopia…

Bartolomeo di Giovanni Corradini detto Fra’ Carnevale Nascita della Vergine



...Ma Donato Bramante, dalle Marche, come giunse a Milano? Attraverso un viaggio formativo che lo portò dapprima a visitare Ferrara, Padova, per l'appunto Mantova e Bergamo. Se escludiamo un certo numero di opere urbinati di incerta attribuzione, tra il 1474 e il 1477 l'ancora ignoto artista esordì proprio a Bergamo, in qualità di “pittore prospettico” con un ciclo per la facciata del Palazzo del Podestà: l'idea di integrare personaggi entro scene architettoniche prospetticamente definite, soluzione incredibilmente innovativa, presto avrebbe aperto all’artista urbinate, allora già trentasettenne ma  ancora ignoto, le porte di Milano.
Il fatidico ingresso nella capitale del Ducato Sforzesco, forse agevolato dal Montefeltro per curare i lavori di un palazzo ricevuto in dono dagli alleati milanesi, avvenne tra il 1478 e il 1480.
In cosa differiva la Milano da Urbino, sogno utopico del centro Italia lasciato alle spalle? Essa era una grande, chiassosa e gaudente metropoli dell’alta pianura Padana, a stretto contatto con i mercati l’Europa del nord attraverso i valichi alpini. Pur non essendo possibile dire se avesse davvero "misurato le fabbriche antiche" , come poeticamente scrisse Vasari, sicuramente l'urbinate si presentò a Milano aggiornato sugli studi di geometrie dell'Alberti, del Brunelleschi e Piero della Francesca, nonché sulle prospettive illusorie del Mantegna e di Melozzo.
La presenza, in città, di notevoli vestigia paleocristiane e del cantiere del duomo, ancora privo del tiburio, proiettarono l'artista forestiero a diretto contatto con il mondo stimolante e variegato degli architetti e degli scultori lombardi: un ambito nuovo e diverso, ancora legato a una pratica progettuale tutta medievaleggiante, pronta al confronto con il nuovo linguaggio prospettico e illusionistico, teorico e progettuale, portato da un forestiero solitario e genialoide.
Dietro la città monumentale, infatti, i più nobili monumenti lasciavano rapidamente spazio a un impianto urbanistico prettamente medievale, dove un’infinità di chiese, navigli e osterie dalle insegne fantasiose e colorate come tarocchi avevano avuto la meglio su un primo timido programma del fiorentino Filarete di ricreare anche qui una città ideale, a partire dall’avveniristico ospedale Maggiore circoscritto da un’affascinante quanto improbabile pianta stellare.  Milano necessitava per davvero di accogliere tra i suoi artisti un vero innovatore dell'architettura italiana, acclamato come "il più grande inventore di nuove idee architettoniche che dai tempi antichi fosse apparso".

Incisione Prevedari 1481 Castello Sforzesco


La presenza dell'artista in città è immediatamente documentata dal successo riscosso dalla famosa incisione Prevedari (1481): sorta di "lasciapassare" con il quale il Di Pascuccio desiderava presentarsi ai suoi nuovi committenti non solo come disegnatore aggiornato, ma anche in veste di esperto di novità architettoniche di ascendenza classica maturate nell’ambito dell’umanesimo centro italiano. Il disegno originario, riprodotto attraverso un gran numero di copie che andarono presto a ruba presso pittori e artigiani di tutto il ducato come nuovo modello prospettico di riferimento, traccia la visione di un grandioso interno all'antica, con membrature possenti: un capriccio architettonico, descritto come veduta “cum hedifitijs et figuris” da intendersi come organismo "vivente".
Nel 1486-7 Bramante continuò la sua attività di pittore prospettico di successo con il ciclo degli "Uomini, Arme e Filosofi" per una sala del palazzo di Gaspare Visconti (poi Panigarola): nasceva un nuovo spazio architettonico classicheggiante, prospetticamente ornato da nicchie semicircolari volte ad ospitare svariati personaggi, in posa di statue dell'antichità.
A parte poche altre eccezioni, come l’incredibile Cristo alla Colonna, ad olio e tempera su tavola (1490) e “Argo”, strabiliante personaggio mitologico erroneamente quanto insistentemente attribuito al seguace Bramantino, simbolicamente affrescato a  guardia della torre del tesoro del Castello Sforzesco, presto Bramante rivolse la sua attenzione all'architettura: la sua principale aspirazione, quella di sperimentare soluzioni innovative intorno al motivo della pianta centrale, trovò un interlocutore privilegiato nel duca Ludovico Sforza detto “il Moro”, che intendeva a sua volta aggiornare la sua corte seguendo l'esempio di Federico da Montefeltro, dei Medici, dei Gonzaga e dei pontefici romani.
A differenza del Montefeltro, simile sotto molti versi al padre del Moro ossia quel Francesco Sforza, anch’egli uomo della vecchia guardia, capitano di ventura acclamato perfino dal Machiavelli e fondatore di una dinastia potenzialmente padrona dei destini d’Italia, Ludovico Sforza dovette regnare per esprimere tutte le contraddizioni di un’era al tramonto: terzogenito salito al potere per mezzo dell’inganno, l’ultimo vero duca di Milano alternò la “grandeur” derivata da feste, banchetti e libertinaggio spudorato con la passione per la nuova arte portata da Bramante e Leonardo da Vinci.
 L’incontro tra Donato e Leonardo in continuo rovello progettuale e altri artisti, come il frate - matematico Luca Pacioli, autore di quel trattato chiamato “De Divina Proportione” che influenzò cosi  tanti artisti, contribuì a fare della corte del Moro, gravitante attorno al castello sforzesco, un ambito artistico e culturale di portata internazionale aggiornato sulle maggiori novità provenienti dall’Italia centrale. La figura stessa del Pacioli, enigmaticamente ritratto in una  famosa tela, oggi a Capodimonte, in compagnia di Guidobaldo da Montefeltro, figlio di Federico in presenza di un solido archimedeo noto come “rombicubottaedro”, oltre a rinviare alla coeva collaborazione con Leonardo nella redazione del "De Divina Proportione", con la sua stessa presenza pare quasi segnare il presente e il futuro dello stesso Bramante.
Il toscano Bernardo Bellincioni a tal proposito, nel 1485 scrisse "venite, dico, ad Atene, oggi Milano!"

Uomini Arme e Filosofi di Casa Panigarola – Uomo con la Mazza


La prima concretizzazione scultoreo-architettonica dell’incisione Prevedari fu applicata al celebre finto coro della chiesa di S. Maria presso San Satiro (1478-83): “mirabile artificio” nato dalla richiesta di Ludovico il Moro di rinnovare l’antica rotonda paleocristiana entro i limiti angusti di un’area addossata alla via retrostante, al punto da impedire la costruzione di un’abside proporzionata alla navata e al transetto. Sfruttando le potenzialità della prospettiva, Bramante sostituì allo spazio reale una cavità emisferica a finti cassettoni, rivestita da estrose decorazioni illusorie in stucco e nicchie scultoree a conchiglia: avvalendosi di una vera e propria camera ottica ante litteram che inscenava dal vivo il fondale della Pala di Brera di Piero della Francesca con un “finto coro”, Bramante realizzò l’impresa apparentemente impossibile di riportare alla terza dimensione un fondale piatto.
La seconda grande impresa architettonica fu la tribuna di Santa Maria delle Grazie, già importante centro di devozione ambrosiana. L’impresa ebbe inizio quando, a pochi metri dal refettorio dove in quegli stessi anni Leonardo, ispirando allievi e seguaci, dipingeva l'Ultima Cena, con gran dispendio di energia e denari il Moro nel 1492 ordinò l’abbattimento della cupola appena conclusa dal lombardo Guiniforte Solari per innestare nel corpo tardogotico superstite una nuova struttura a pianta concentrica: una tribuna, costituita da corpi geometrici a sostegno di una grande cupola emisferica a sedici spicchi, proiettata nello spazio circostante. Intorno a questo nucleo principale si articolano tre corpi absidali semicilindrici due dei quali, i laterali, si collegano direttamente alla cupola; il terzo invece, bilanciando visivamente la profondità delle due cavità laterali, prolunga l’area del coro.
Il risultato ottenuto è uno spazio armonioso e dilatato, in cui le absidi si dispongono in ordine decrescente intorno al tiburio in una fusione di volumi, ottenuta all’interno mediante una decorazione tenue che alterna motivi ornamentali curvilinei e ruote raggiate, senza rinunciare all’esterno ai tipici elementi decorativi e policromi della tradizione lombarda: lesene, capitelli, ruote raggiate e medaglioni di imperatori in marmo su un fondale in mattoni rossastri.
Il tema della pianta centrale, di derivazione antica, resterà una costante dell'architettura bramantesca, con ulteriori è più maturi e sviluppi nella successiva attività romana.
 
Bramante Cristo alla colonna Tempera su tavola 1490 Pinacoteca di Brera



Lungi dall’esaurirsi, l’attività di Bramante si sviluppa felicemente anche nei due chiostri del monastero di Sant’Ambrogio, dorico e ionico, (1497-8) dove l’artista elabora spazi retti da snelle colonne, in una mirabile purezza di linee che porta al superamento tecnico del più sfarzoso cortile di Palazzo Ducale a Urbino, e quello della Canonica, dalle quattro colonne a tronco d’albero a rami recisi, che alludono ai templi lignei delle origini, con citazioni dotte delle Metamorfosi di Ovidio. Numerosi furono anche i palazzi privati e gli edifici attribuiti al grande architetto sorti fuori città: per citare una sola invenzione tra le meno note, riserviamo un cenno allo spettacolare chiostro a doppio nartece di Abbiategrasso.
Se Bramante avesse avuto un motto, quello sarebbe stato “preservare le tradizioni per protendersi verso il futuro”. Di conseguenza, il suo esordio e la maturazione costante nel campo dell'architettura influenzarono una moltitudine di "magistri inzigneri" locali, primo fra tutti l'acerrimo rivale Giovanni Antonio Amadeo, autore di alcuni monumenti di spicco del Rinascimento lombardo.
Eppure, la novità bramantesca non fu immediatamente recepita. Arrivato in una città come Milano dove gli artisti locali, influenzati da mezzo secolo di scambi con la Firenze medicea e la raffinata cultura padovana, Bramante vi trovò un centro culturalmente già ben orientato sulla scia di predecessori come Filarete e Michelozzo in campo architettonico, Mantegna e Foppa in pittura.
L’urbinate stesso, artista universalmente noto per la sua capacità di adattamento ad ogni contesto, preferì agire all’interno di una tradizione già codificata, in continuità con modelli preesistenti.
Va anche aggiunto che, nonostante le numerose architetture a lui attribuite, il Bramante appartiene a quella schiera di grandi architetti del Rinascimento dei quali ci restano le opere ma non testimonianze progettuali per la loro realizzazione, come schizzi o modellini. La cosa è resa ancor più complessa dal fatto che i lavori di edificazione di grandi opere si protrassero per decenni, cosicché difficilmente l'autore del progetto poté seguirne personalmente lo svolgimento o presenziare fino alla loro effettiva conclusione. Di conseguenza il nome del Bramante, forse anche in quanto avversato dall'Amadeo e dagli altri maestri locali che pur traevano ispirazione da lui, paradossalmente appare con maggior frequenza, più che nei contratti dei lavori di fabbrica, nelle lettere di Lodovico il Moro e nelle altre missive ducali: indubbiamente il raffinato marchigiano, al polveroso cantiere popolato da scultori, scalpellini e ingegneri gelosi del proprio mestiere a contatto con la pietra preferì lo studio e la speculazione intellettuale nel protetto e raffinato circolo degli intellettuali di corte.
In assenza di altre notizie il ruolo di Bramante, intellettuale d’élite, spicca soprattutto attraverso la giocosa allusione che egli fa di se stesso e dell'amico e collega Leonardo da Vinci in un pannello, parte del ciclo pittorico degli "Uomini, Arme e Filosofi" di casa Panigarola di fine anni '80, dove i due campeggiano in veste di filosofi dell’antichità: Eraclito - Leonardo e Democrito - Bramante, protagonisti di un’accademia virtuale dove il fiorentino piangente e l’urbinate ridente incarnerebbero, ciascuno reagendo a suo modo, gli opposti stati d’animo dei due artisti di fronte alle condizioni e alle sorti del genere umano, in melanconico distacco dalla gente comune. Donato di Pascuccio sarebbe altresì stato un gaudente autore di sonetti burleschi, molto apprezzati dall’ambiente cortese, abituato a lavorare di salaci metafore e ad essere a sua volta oggetto di scherno.
Non essendo ancora compresa dal punto di vista più rigorosamente architettonico, nei primi anni la lezione bramantesca sarebbe stata impiegata dagli artisti locali più come ricco repertorio da cui estrapolare motivi ornamentali a piacere, al fine di attualizzare spazi e composizioni con una patina di antichità. Nonostante l’apparente incomprensione, fu proprio così che l'innesto della cultura decorativa aggiornata di stampo classico del Bramante in quegli stessi anni portò i lombardi a sviluppare una fioritura delle arti decorative senza precedenti, con l’inaugurazione di un nuovo linguaggio: un linguaggio certamente desunto da fonti classiche, ma sdoganato come "lombardo". Il decoro architettonico della Certosa di Pavia e della Cappella Colleoni di Bergamo, i cui cantieri furono affidati all'autoctono Amadeo, genero di quel Guiniforte Solari a cui Bramante aveva demolito la tribuna delle Grazie, videro presto affastellarsi ricche decorazioni composte da elementi classici quali candelabre, paraste, tralci d'edera e di vite, angioletti, ovuli, foglie d’acanto, vasi e fogliami, trabeazioni, fregi, ghirlande e  decorazioni vegetali:  un tripudio di elementi indubbiamente d'ascendenza classica, dove però i fusti di colonna a grottesche e i capitelli appartengono ad uno stile composito, esuberante e del tutto anti-classico.

Santa Maria delle Grazie – Tribuna dall’esterno (1490-1500)
                  
Gli ultimi studi del pupillo del duca riguardarono il tiburio del duomo di Milano: Intorno al 1487- 1488, in occasione dell'invito di Ludovico il Moro ai maggiori ingegneri ed architetti per trovare una soluzione all'irrisolto problema, Bramante fece un modello, poi perduto, e scrisse una relazione tecnica e teorica, la cosiddetta “Bramanti Opinio super Domicilium seu Templum Magnum”: il suo unico testo tecnico d'architettura pervenutoci, dove l’urbinate consigliava di terminare il Duomo con un tiburio a pianta quadrangolare in stile gotico, anziché imporvi una cupola rinascimentale, e suggerendo ai colleghi di evitare il tiburio ottagonale affinché l'ordine dell’edificio non venisse meno. L'Amadeo seguì in parte le direttive: attorno al 1499-1500 sorse un tiburio gotico d'impensabile audacia…da tradizione lombarda non quadrangolare, bensì ottagonale!
Perso terreno nell’ambito di alcune commissioni, in cui il Moro gli preferì l’Amadeo, ai primi segni di cedimento del Ducato Sforzesco Bramante aveva già preparato le valigie per Roma.
Anni di stravizi e rischi ispirati da una politica funambolica, sempre sul filo del rasoio, portarono Ludovico il Moro a una rovinosa caduta, tale per cui lo stesso Leonardo di lui scrisse “il duca perse lo stato, la roba e la libertà e nessuna sua opera si finì per lui”, incluso il gigantesco monumento equestre per il padre Francesco Sforza che il da Vinci era prossimo a fondere, ma il cui modello in terracotta  fu distrutto per sempre dagli arcieri francesi.
Viaggiatore eclettico e multiforme dalle inconsuete capacità d’adattamento, nel 1502 Bramante fu convocato da papa Giulio nella Città Eterna per una nuova avventura all’insegna di nuove sperimentazioni prospettiche e della pianta centrale. In sua assenza, da quella data fino agli anni Venti del Cinquecento nel ducato di Milano conteso tra Francia e Spagna sarebbe fiorita una fervida attività di maestri impegnati in numerosi cantieri, che seppero comprendere con maggiore coerenza l’eredità del maestro, seppur riletta e interpretata in quel continuo scambio di idee tra maestranze di architetti, scultori, pittori e perfino artisti del legno: uno scambio che, se fin dalle origini aveva caratterizzato il modus operandi della Veneranda Fabbrica del duomo milanese in chiave nordica, ora andava diffondendo in tutto il ducato infinite reinterpretazioni di un gusto poi orgogliosamente definito col nome di “bramantismo”.



BIBLIOGRAFIA

C.R. Frommel, L. Giordano, Bramante milanese e l'architettura del Rinascimento lombardo, Marsilio 2002
S. Guagliumi, Donato Bramante : pittore e sommo architetto in Lombardia e a Roma, Silvia ed., 2014
L. Patetta, Bramante e la sua cerchia a Milano e in Lombardia. Skira, 2001
L. Patetta, Bramante architetto e pittore (1444-1514), Caracol, 2009
AA. VV, Bramante a Milano: le arti in Lombardia 1477-1499. Skira, 2015

Foto.
1 Bartolomeo di Giovanni Corradini (Fra Carnevale). Nascita della Vergine - (1480-2. Già Tavole Barberini. New York, Metropolitan Museum of Art)
2 Incisione Prevedari, su disegno di Bramante (1481, Civica raccolta di stampe Bertarelli)
3 Bramante, Uomini Arme e Filosofi di Casa Panigarola - Uomo con la Mazza (Milano, pinacoteca di Brera)
4 Bramante, Cristo alla Colonna (1480-90, Milano, Pinacoteca di Brera)
5 5 S. Maria presso S. Satiro, trompe loeuil (1482-86)
6 S. Maria presso S  Satiro, pianta con tipica forma a “Tau” (T) (1482-86)
7 Piero della Francesca, Pala di Brera (1472, Milano, Pinacoteca di Brera)
8 S. Maria presso S. Satiro, sacrestia a confronto con Piero della Francesca (1482-86)
9 Santa Maria delle Grazie - Tribuna dall’esterno (1490-1500)
10 Santa Maria delle Grazie -Tribuna dall’interno (1490-1500)
11 Santa Maria di Abbiategrasso - doppio nartece (1488-90)