lunedì 25 settembre 2017

Pavia, Anno Domini 1525: "Scontro tra Titani"


Arazzo d'Avalos. Dettaglio dalla "Fuga dei francesi" (1526-31, Capodimonte, Napoli)

Pavia,  Anno Domini 1525:
Iniziato sotto i peggiori auspici, matura improvvisamente come una polveriera pronta a esplodere, rivelandosi l'inizio di un'era di svolta: una delle tappe più amare della nostra storia. Impero e Francia, col sostegno delle rispettive potenze mercenarie e alleate, si sfidano in un conflitto all'ultimo sangue. Il terreno di scontro privilegiato é la nostra frazionata Penisola; l'obiettivo finale, il dominio assoluto sull'Italia del tempo, ergo sul resto d'Europa.
Preludio alla battaglia: la contesissima Milano, "Chiave d'Italia", sembra cadere definitivamente nelle mani dei Francesi, che già di recente l'avevano strappata agli svizzeri durante l'epica battaglia di Melegnano del 1515, non a caso soprannominata "Battaglia dei Giganti". Un tale dominio non può essere accettato dalla maggiore potenza del tempo: la dinastia degli Asburgo che, cinta la corona del Sacro Romano Impero nella persona di Carlo V e dotata di un dominio territoriale talmente immenso da estendersi su tre continenti (Europa, Africa e America), pur provvista di infinite risorse si trova in una situazione confusa: numericamente inferiori sul territorio rispetto al poderoso nemico francese e momentaneamente disorganizzati, gli imperiali si trovano a dover ripiegare verso Lodi. 


Arazzo d'Avalos. Dettaglio con Pavia sullo sfondo (1526-31, Capodimonte, Napoli)

La nobile Pavia, però, non va assolutamente lasciata sguarnita; la Città Rossa, imbiancata dalle nevi, all'inizio dell'anno é presidiata da una guarnigione di 6.000 uomini: 1000 spagnoli e 5000 mercenari lanzichenecchi, formalmente agli ordini del governatore iberico Antonio de Leyva nel nome dell'Impero. Oltre a occupare una rilevante posizione strategica, l'antica capitale dei Longobardi e del regno d'Italia, in passato favorita anche dai Visconti in quanto strategicamente piazzata sul fiume Ticino, a controllo dei traffici acquatici presso il Po e quelli terrestri tra nord e sud d'Europa, in questo rinnovato contesto si conferma come seconda città più importante del Ducato di Milano.


Le rosse mura del castello di Pavia al tramonto

I francesi, in superiorità numerica, hanno organizzato un vero e proprio assedio alle mura: il grosso delle truppe di re Francesco I, sceso in campo di persona vone i grandi condottieri del passato, si é accampato a ovest della città, nei pressi della chiesa di San Lanfranco; le fanterie mercenarie svizzere al suo soldo e svariati altri nuclei di cavalieri si sono invece acquartierati a est. Un tale dispiegamento di forze contempla la presenza in campo di numerosi maestri francesi della guerra come Louis de la Trémoille, Francesco di Lorena, il comandante d'artiglieria Galiot de Genouillac e soprattutto, il maresciallo Jacques II de Chabannes de La Palice. Sorta di talismano vivente, il rude capitano cinquantacinquenne é stato protagonista di mille battaglie del tempo: a Marsiglia, sui Pirenei, nell'Artois contro Enrico VIII d'Inghilterra; in Italia a Fornovo, Agnadello, Villafranca, Melegnano e la Bicocca, e nonostante sia stato più volte catturato o gravemente ferito l'ha spuntata sempre. Eppure il suo mito, passato alla storia per una serie di proverbiali freddure del tipo "ahimé! La Palice è morto, è morto davanti a Pavia; Ahimè! se non fosse morto, sarebbe ancora in vita!", da attribuirsi alla tradizione popolare e ironicamente passate alla storia come "lapalissiane", si alimenta proprio a Pavia: come recita il famoso epitaffio, questo campo insanguinato costituirà un sanguinoso capolinea tanto per lui quanto per i suoi seguaci e alleati.

Jaques de La Palice eroe dei francesi, a cavallo

Immaginiamoci il tramonto senza sole del 14 gennaio 1525, al castello di Pavia.
I rintocchi dell'antico orologio astronomico, attutiti dalle nebbie esalate dai campi limitrofi, risuonano a malapena. Presagio di sventura: l'elegante torrione, edificato due secoli prima dal famoso scienziato padovano Giovanni Dondi a corredo della formidabile biblioteca del Castello pavese per volere del duca Giangaleazzo Visconti, al tempo costituì una meraviglia meccanica tale da richiamare studiosi da ogni parte d'Europa...


Orologio astronomico di Giovanni Dondi a Padova (XV sec., Piazza dell'Orologio)

Quest'oggi invece, la sua mole, annerita dalla polvere da sparo dei cannoni non inaugura più voli di colombe, liete nozze tra sovrani, giostre e banchetti tra alleati e blasoni sgargianti, ma scandisce le terribili adunate dei mercenari lanzichenecchi, inaspriti dalle sortite fuori dalle mura: nella corte interna del castello pavese il rauco richiamo alla "gemeine" assembra una soldataglia composta di guerrieri dalle lunghe barbe bionde e rossicce e gli occhi chiari come ghiaccio. Brillano i fuochi nella gelida corte; brillano gli occhi dei fanti teutonici, famigerati per l'efficienza militare e la crudeltà verso i nemici, nonché per la violenza ostentata sulle popolazioni inermi. I "Landsknechten" o "servi della patria" sono armati fino ai denti d'armi ingombranti, ma letali: precisi archibugi a molla e alabarde, con cui amano tagliare le picche delle fanterie nemiche: soprattutto quelle, odiatissime, dei mercenari svizzeri, con cui competono da ormai troppo tempo. Ultima risorsa, una corta spada usata agilmente nel corpo a corpo: la tagliente "Katzbalger". Sotto le corazze rigide, i tedeschi indossano bizzarre vesti a sbuffo, multicolori: livree di gusto "barbarico" e gonfaloni svolazzanti che, é risaputo, non si portano mai dietro alcun tipo d'allegria: semmai, soltanto presagi di pestilenza, fuoco, stupro e morte.


Collezione di "zweihänder", lunghissime spade a due mani lanzichenecche da sostituire con le più corte "Katzbalger"

Al seguito dei soldati, all'ombra dei portici del castello si muovono sagome appesantite dalle vettovaglie. Sono le vivandiere: mogli e donne di piacere, aiutanti dei "lanzi", come si usa chiamarli a Firenze e dintorni. Più in là il boia, ignorato e disprezzato da tutti, tasta il bronzo di un cannone rimasto ancora caldo per via l'uso prolungato.
Nel frattempo, il governatore spagnolo don Antonio de Leyva attraversa irriguardosamente a cavallo l'ala settentrionale del castello visconteo: un'infilata di stanze gelide, affrescate con scene cortesi di caccia, giostre e feste, realizzate dal Pisanello in persona con profusione di foglia d'oro e argento allo scopo di impreziosire la materia pittorica: il suo é uno stile senza precedenti che i francesi, ammirati, chiamano  col nome di "ouvraige de Lombardie". Non curandosene affatto, il nuovo castellano imperiale fila dritto al trotto: ha ben altri pensieri per la testa. Affacciatosi al piano nobile del castello di Pavia, la puzza di polvere da sparo degli archibugi investe lui e il suo cavallo. 


Pisanello, torneo-battaglia di Liuverzep (Inizi '400, palazzo ducale di Mantova)

Facendosi scudo col cappello piumato, il de Leyva scruta con preoccupazione le esercitazioni dei lanzichenecchi, attraverso le quadrifore alla veneziana della galleria superiore. Quelle squadracce, in verità, non sono per davvero ai suoi ordini. Lui gestisce soltanto il suo migliaio di connazionali, ma il comandante effettivo delle cinquemila unità di famelici teutoni é Eitel Friederich, figlio del secondo conte di Hohenzollern e terzo erede in linea di discendenza del ducato di Brandeburgo: il lontano avo del nucleo fondatore del futuro e potente regno di Prussia per ora é soltanto uno tra tanti figli cadetti. 
Ed eccolo lì, "l'oberkommander": vestito di tutto punto, con barba e pizzetto scuri, é quel che si potrebbe definire un tedesco atipico. Impeccabilmente educato insieme a un ancor giovane Carlo V a Bruxelles, poi primo consigliere segreto e grande maestro di corte sotto l'imperatore Massimiliano I, a soli trentun'anni Eitel Friederich von Hohenzollern dispone di un curriculum invidiabile. Eppure il de Leyva si chiede: come mai un tale damerino, uno studioso e diplomatico di sangue blu, sarebbe stato spedito alla testa di una soldataglia di lanzichenecchi, presso il più pericoloso avamposto del ducato di Milano? Chi gli vuole così male? Anche di ció si preoccupa l'acuto castellano spagnolo di una città sotto assedio.
Resistere.


Ritratto di Eitel Fredrik III Hohensaufen (Josef Hofmeister, Sigmaringen museum)

Resistere fino all'arrivo di rinforzi: l'impresa congiunta di pochi tedeschi e spagnoli sembra una causa persa, che non lascia spazio a rosei presagi. Meglio andare a coricarsi, davanti al fuoco di un vecchio camino sforzesco la cui debole luce illumina l'emblema del biscione, ormai sbrecciato...e cercare di frapporre la massima distanza tra sé e i lanzichenecchi; questi ultimi hanno deciso di passare l'ennesima notte senza stelle nelle segrete del castello: vino, donne e mani di zecchinetta, un gioco d'azzardo tipo dei lanzi, al canto insistente di "unser liebe Fraue": "Nostra Amata Signora" é un inno di battaglia, dedicato niente meno che alla Vergine Maria. Una vera e propria bestemmia, riflette il governatore: scandita da assassini professionisti che non credono in nulla, per giunta eretici protestanti. Dopo i brindisi ha inizio una cena animata: i discorsi vertono su lettere di impegno, retribuzioni del soldo e mezzo soldo, eventuali bottini da spartire...insomma: si parla d'armi, ruberie e d'affari.


Cinque lanzinchenecchi (Daniel Hopfer, 1530)

A un certo punto qualcuno alza la voce. Vetri infranti. Presto in cantina divampa la rissa: tra i lanzichenecchi é una prassi all'ordine del giorno. Don Antonio finge di non udire nulla e si avvolge tra le coperte; uscire a quest'ora sul ballatoio, con un tale gelo potrebbe causargli una polmonite, se non una pugnalata alla schiena: la notte porterà consiglio.
Eppure, le ore notturne sono anche le predilette, si sa, dai traditori e dagli assassini...


Luci fantasmagoriche al castello di Pavia: dovette apparire così nella notte dell'omicidio?

All'orizzonte sorge un nuovo lattiginoso giorno. Oggi i fuochi torneranno a tuonare; i preparativi per un nuovo assalto francese, fuori dalle rosse mura, sono in corso: dalla resistenza del castello pavese dipendono i destini d'Europa!
L'orologio astronomico suona l'ora dell'adunanza mattutina; ma quando la nebbia si dirada, de Leyva comprende subito che non tutto quadra come dovrebbe: davanti agli occhi del castellano si para uno scenario del tutto inatteso. Radunatisi in cortile, lanzichenecchi cantano in coro una marcia funebre cupa e cadenzata.
Eitel Friederich von Hohenstaufen é morto: il suo corpo, gelido, giace nelle segrete del castello. Com'è accaduto?
I lanzichenecchi scuotono le braccia, negando ogni responsabilità: i testimoni raccontano di averlo visto semplicemente accasciarsi al suolo. in quanto servitori della patria, i fanti hanno giurato solenne obbedienza al loro "oberkommander": soldati di ventura,  apparentemente svincolati da ogni di regola se non a quella del saccheggio senza pietà, i mercenari tedeschi seguono una condotta sí rude ma fatta di lealtà personale, che li lega al proprio condottiero fino alla morte.
In effetti, il corpo del nobile non mostra ferite di sorta. Qualcuno espone i suoi sospetti verso un ufficiale fuori posto, che non fa parte del gruppo dei lanzi: un ispanico, un uomo arrogante e invidioso con cui il capitano avrebbe avuto uno screzio. Forse chissà, per via di una cortigiana che piaceva a entrambi, e aggiudicata ad Eitel giocandosela alla zecchinetta? Pace fatta, comunque, con un brindisi...di troppo.
Veleno.
A morte lo spagnolo!

Arazzo d'Avalos. "Invasione del campo francese (1526-31, Capodimonte, Napoli)

Presto il suo corpo impiccato penzola da un ramo in quello stesso cortile. L'indennizzo dovuto ai lanzichenecchi é stato presto pagato; eppure, don Antonio de Leyva sarà ossessionato per giorni anche da questo problema...
Se l'assassinio dell'Hohenzollern fosse premeditato? Forse l'omicidio, celato dietro la boria di un nobilotto senza nome, é stato commissionato proprio dai francesi, nella speranza di una sommossa interna sufficiente a ottenere la capitolazione prima dell'arrivo dei soccorsi. Per certo, l'accaduto rischia di fomentare l'animosità dei lanzichenecchi contro le stesse autorità che li hanno ingaggiati...
Al fine di placare le future e insistenti richieste di denaro degli avidi mercenari teutonici, nei giorni successivi lo scrupolo estremo del governatore si concentra nel racimolare quante più possibili risorse economiche...ma come? 
Con pretese di "contribuzioni straordinarie" ai pavesi: in particolare a categorie come "speciari, fabri, beccari e mastri legnaioli", che gli hanno fruttato oltre ventiquattromila ducati; con i prestiti imposti ai canonici del Duomo, inclusa la fusione degli arredi sacri delle chiese, delle mazze d'argento dei rettori dell'università e tutti gli altri oggetti preziosi di proprietà dell'ateneo.
Questo ed altro, per coniare il denaro dei «lanzi».


Arazzo d'Avalos. "Invasione del campo francese (1526-31, Capodimonte, Napoli)

Tutti gli escamotage dello spagnolo sono comunque destinati ad esaurirsi in breve tempo; presto i mercenari daranno segnali di crescente insofferenza. L'assenza di una guida si percepisce sempre più...lo stato d'anarchia é prossimo, e quando i tedeschi abbandoneranno il campo, facendosi largo con la rapina e il saccheggio verso la via del ritorno a casa...Pavia cadrà in mano ai francesi.
Situazione di stallo, si prolunga fino all'inizio del febbraio del 1525: ed ecco giungere in soccorso del governatore un tesoretto, inviato a Pavia dal campo imperiale!
Grazie ad esso, il de Leyva riesce a corrispondere una parte delle paghe dei soldati e a trattenerli finché il gioco inizia a farsi davvero duro: il loro contributo sarà fondamentale a reggere l'urto dell'armata di Francesco I.


Il governatore e comandante spagnolo Antonio de Leyva (Napoli, piazza del Plebiscito) 

25 febbraio 1525.
Ventimila uomini agli ordini di importanti capitani appena sopraggiunti come Carlo di Lannoy, viceré di Napoli, Carlo di Borbone e l'avido Fernando Francesco d'Avalos, marchese di Pescara, portano il loro sostegno decisivo agli assediati; l'esercito imperiale si accampa ad est di Pavia, proprio di fronte alle truppe francesi. Per tre settimane i due eserciti si fronteggiano trincerati nell'antico parco visconteo di caccia: l'attuale parco della Vernavola, a nord del castello, dove i guastatori imperiali si aprono una breccia nella cinta del parco, sorprendendo le linee francesi. Superato lo shock iniziale, Francesco I reagisce schierando personalmente la sua famosa cavalleria pesante contro quella spagnola; il micidiale tiro dell'artiglieria francese realizza un'abominevole strage sulle dense file dei mercenari lanzichenecchi. I francesi sono in vantaggio.

Dopo un aspro scontro in bilico tra ragioni militari e follia, aprendosi la via a colpi d'alabarda sotto la guida del famigerato capitano Georg von Frundsberg, l'uomo che presto minaccerà d'impiccare papà Alessandro con una corda d'oro, i tedeschi riprendono il controllo della situazione. 



Arazzo d'Avalos, dettaglio della cavalleria francese alla battaglia di Pavia (1526-31, Capodimonte, Napoli)

É giunta infine l'ora dei "Tercios": innovativa tattica d'organizzazione militare spagnola che prevede l'attacco congiunto di picchieri e moschettieri armati di archibugi. Nel momento in cui imperiali atterrano i cavalieri francesi superstiti che li stanno caricando, gli esiti della battaglia si sono ormai totalmente ribaltati: questi, impacciati dalle pesanti armature, non possono difendersi dall'arrivo dei lanzichenecchi che a sangue freddo li massacrano da vicino con pugnalate crudeli mirate a colpire tra un interstizio e l'altro delle loro pesanti corazze. Jacques de la Palice si arrende, eppure non basta: dopo la cattura non viene semplicemente ucciso, ma conteso tra i fanti rabbiosi e letteralmente fatto a pezzi. Presto la sua vedova, Marie de Melun, gli farà edificare una magnifica tomba nella cappella del castello omonimo: proprio in tal luogo la sua brigata comporrà per lui in epitaffio destinato a diventar tormentone fra le soldataglie del tempo.


Arazzo d'Avalos, dettaglio: "Tercio" spagnolo alla battaglia di Pavia (1526-31, Capodimonte, Napoli)

"Ci-gît monsieur de la Palice. Si il n'était pas mort, il ferait encore envi" vuol dire "qui giace monsignor de la Palice. Se non fosse morto, farebbe ancora invidia". Fin qui nulla di sorprendente, se non fosse il deteriorarsi nel tempo delle lettere scritte sulla lapide a portare, ironia del destino, il testo a recitare  "se egli non fosse morto sarebbe ancora in vita"...questo malinteso porterà perfino a paradossali testi poetici, e con essi al mito sconcertante dell'aggettivo "lapalissiano".


Francobollo commemorativo del generale La Palice

Ed ecco concludersi una storia affascinante e terribile, quanto decisiva per la storia d'Italia.
Ho desiderato narrarla a partire da Pavia, l'Omaha Beach del XVI secolo, ispirato dalle vicende di due personaggi del tempo, il celebre maresciallo di Francia e dell'assai meno noto antenato del regno di Prussia: due personaggi dal differente peso specifico, schierati su fronti opposti, eppure accomunati da un comune destino: il La Palice e l'Hohenzollern.


Carlo V sconfigge a Furia (1549, Leone Leoni, museo del Prado)

Due uomini, due lapidi.
Entrambi furono personalmente coinvolti dalla grande battaglia; entrambi traditi dalla fiducia verso le care vecchie regole della cavalleria e accomunati dallo stesso destino di morte e, tutto sommato, ingenerosamente obliati da un tempo che niente e nessuno ha potuto fermare. Se Lapalisse ebbe il privilegio del riposo eterno nella sua terra d'origine, non si può dire lo stesso per Eitel Friedrich: il conte tedesco, deceduto senza aver nemmeno avuto il tempo per compiere grandi imprese, qui morì e qui rimase.
Sebbene l'orologio astronomico e l'ala nord del castello, quella affrescata dal Pisanello, dal 1527 siano spariti dalla storia per via della furia iconoclasta degli spagnoli, oggi Pavia resta in ogni caso una bellissima, e finalmente tranquilla città d'arte e di studi. E se, per duplice scherzo del destino, la lapide dell'oberkommander Eitel Friedrich é stata riportata come testimonianza storica nello stesso luogo in cui egli fu avvelenato, ossia gli attuali musei del castello, la sua salma, prima sepolta in Duomo, ora riposa murata in san Pietro in Ciel d'Oro, in compagnia dei resti simbolici d'uomini del calibro di re Liutprando, Sant'Agostino e Severino Boezio...

Il rampollo di casa Hohenzollern si sarà davvero meritato un tale privilegio?

Marco Corrias

Arazzo d'Avalos. "Fuga dei francesi e diniego degli svizzeri" (1526-31, Capodimonte, Napoli)




lunedì 4 settembre 2017

Alle radici di Luino: un antico portale, una storia infinita


Luino, Il portale rinascimentale del santuario di S. Maria del Carmine (1487)


Spesso scordiamo che la storia, grande o piccola che sia, è passata anche per di qui: a Luino, terra di frontiera sulle rive del lago Maggiore. Accogliente e piacevole cittadina turistica dotata di nuove infrastrutture di recente realizzazione in riva al lago, sede di una rinnovata movida come non se ne vedeva più dai tempi della Belle Époque, Luino non è solo quella “terra di matti e artisti”, così soprannominata per aver dato i natali a scrittori come Piero Chiara e Vittorio Sereni, a comici e letterati del Calibro di Dario Fo, “premio Nobel di Sangiano” o a più recenti e talvolta discutibili protagonisti di fiction, trasmissioni e commedie. 

Dove cercare l’essenza più profonda di Luino, città che può vantare l’unicum della prima statua dedicata a Giuseppe Garibaldi, nel 1868, quando “L’Eroe dei due Mondi” era ancora vivente?

Vista sul Verbano dai colli a nord

Proviamo ad andare più indietro nel tempo. Non tutti ricordano che l’antica sede plebana è ancora srgnalata dallo strepitoso campanile romanico di San Pietro in Campagna, o al Cimitero: un poderoso fusto di cinque piani d’altezza (il basamento è inglobato dalla casa canonicale) in pietrame misto, sulle cui specchiature “s’inerpicano” sottili feritoie e strette monofore, presto sostituite da eleganti bifore binate chiuse da un tetto rustico a piode scure. Rara testimonianza medievale sopravvissuta, quasi dimenticata dopo il decentramento voluto nel 1574 da San Carlo Borromeo, a favore della nuova prepositurale dedicata ai SS. Pietro e Paolo. 

Campanile del S. Pietro in Luino (XII sec.).

Eppure, l’essenza più intima di Luino non va cercata nemmeno così presto: nel XII secolo la dominatrice della sponda orientale del Verbano, infatti, era ancora Germignaga, un tempo protetta nientemeno che da un “vallo” romano dotato di baluardi imponenti (torre Fuga e Torre Claudia, in frazione Voldomino), da un “castrum sgiavorum” di origini longobarde e da una “domus” adibita al primo culto cristiano della valle (Domo Valtravaglia, poi sostituita dalla Canonica di Brezzo). Germignaga, infatti, doveva essere protetta da una grande fortezza ("il Castellaccio") in cui, nel IX secolo si sarebbero rifugiati Berengario II re d’Italia e i suoi figli, in fuga dall’ira dell’imperatore Ottone I.  Ancora dopo il 1000 il nobile casato de Sexa (da Sessa) del ramo della Valtravaglia, accresciuto il proprio patrimonio, continuò ad accentrare il suo dominio tra Germignaga e Domo.

Perché proprio Luino, a un certo punto, fu destinata a un ruolo di egemonia nell’area, e come accadde?

Battistero carolingio di Domo Valtravaglia (IX-X secc.).

Solo il santuario rinascimentale della Madonna del Carmine, i cui riti solenni legati alla Madonna di Luglio furono sí cari ai popoli della Valtravaglia, ma anche ai paesi rivieraschi della sponda opposta del lago, può offrirci risposte da tempo obliate ai più. Siti in posizione panoramica sulla riva orientale del Lago Maggiore, chiesa e convento furono fondati nel 1477, sotto la signoria dei Conti Rusca: le coscienze di questi ultimi sarebbero state spinte, pare, dalla santità di vita e dai prodigi di un converso dell’ordine dei Carmelitani, il beato fra’ Jacopo della nobile casata dei Luini; il destino vuole che quest’ultimo fosse sepolto proprio nella summenzionata San Pietro al Cimitero e raffigurato con tanto d'aureola in un affresco attribuito a in suo omonimo: il ben più noto Bernardino Luini, gran pittore originario del luogo (Dumenza), aureolato e in compagnia di Maria e dei Magi, con il lago e la città a fare da sfondo.

Adorazione dei Magi (Inizi XVI sec., San Pietro di Luino)



Un bellissimo portale, quello appartenente al Santuario della Madonna del Carmine: quasi incastonato di fronte al lungolago, incarna il momento storico più favorevole del nuovo capoluogo di un’antica contea: gli stemmi feudali scolpiti e le dedicazioni incise sugli stipiti d’arenaria rossa testimoniano il gusto aggiornato per l’arte posseduto dai committenti...
...ma i Rusca, chi erano?

Como, S. Abbondio - Armigeri lombardi (XIV sec.).

Tra i casati il cui nome risuona più e più volte nei secoli tra Lario, Ceresio e Verbano, sarebbe impossibile ignorare i Rusca, detti anche “Rusconi”: famiglia ticinese che da Bellinzona già dal 1100 si trasferì a Como, assumendo a più riprese il titolo podestarile: vassalli "minori ma non troppo", favoriti nelle ambizioni espansionistiche da una discendenza assai ramificata, per tutto il medioevo i Rusconi diedero filo da torcere ai loro avversari, fino ricoprire ruoli di prestigio nel Malcantone, a Bellinzona e perfino a Milano e Lucerna, con ruoli di primo piano in campo politico ed ecclesiastico.

Beata Beatrice Rusca Casati col figlio Giovanni (affresco di G. A da Montonate, fine XV sec.).


Entriamo nello specifico. Sempre presenti nelle dispute per il predominio su Como, capoluogo del Lario, ed esiliati nel 1302 dagli odiati Vitani (o Vittani), nel 1311 i Rusconi rientrarono in possesso del governo cittadino. Il loro ritorno decretò il definitivo tramonto delle istituzioni comunali comasche: Franchino I, assunto il titolo di signore di Como, instaurò un governo dispotico ma, finché i commerci erano floridi, tutto andò a gonfie vele. Eletto nientemeno che vicario imperiale dall’imperatore Lodovico il Bavaro, vinta un’ostica partita tutta giocata tra potenze avverse per il dominio dei passi alpini Franchino I, nuovo signore feudale di spicco, iniziò a battere moneta per conto proprio. Missione compiuta: la sua discendenza avrebbe generato un numero incalcolabile di capitani del popolo e arcipreti.

"Pegione" di Franchino II Rusca con Sant'Abbondio sul verso (1408-12):


Eppure, solo con la vittoria di Ottone Visconti sui Torriani e il suo conseguente beneplacito, i Rusconi ottennero il diritto di occupare Como in via ufficiosa.

L’idillio fu di breve durata: nonostante il favore ricevuto, pur di accaparrarsi anche il Sottoceneri i Rusca osarono sfidare il potente casato alleato: nel 1395, la prevedibile disfatta ruscona portò all’accorpamento del basso Ticino nelle terre ducali. Nel 1402, quando Gian Galeazzo Visconti morì di peste, lo sbando del ducato causato dai sommovimenti interni e dall'inesperienza dei suoi eredi (Giovanni Maria e Filippo Maria), ancora troppo giovani, permise ai Rusca di riprendere la personale politica d’espansione territoriale, ma il tentativo di rientrare a Como da parte di Franchino II, nipote omonimo del primo Rusca, incontrò per la seconda volta l’opposizione del clan dei Vittani. 
Dopo la morte di Franchino II, il 1416 fu l’anno del compromesso: Lotario Rusca, ultimo signore di Como, rinunciava al governo della città a favore dei Duchi di Milano. Inaugurata una guerra di riconquista del Ducato sotto buoni auspici, Filippo Maria, nuovo degno erede di casa Visconti, fondò ex novo una contea e la donò ai riottosi Rusca: era la “Val Lugano”, ambito premio la cui assegnazione, dietro tacito accordo, era però subordinata alla riconsegna del Sottoceneri.
Forse a quel punto sarebbero stati proprio i Rusconi, inconsapevolmente, a gettare i primi semi per la nascita del futuro Canton Ticino?

Torre Rusca di Redde (XV sec., Canton Ticino)

Nel frattempo, chi credette che la disputa ruscona avesse avuto il suo epilogo dovette restarne deluso: aspirando da sempre anche alla Signoria su Locarno, dopo un lungo conflitto con i napoletani Sanseverino, nobili forestieri o meglio capitani di ventura assetati di guerra, introdotti da Filippo Maria Visconti al fine di instaurare un regime di terrore in provincia, dalla prima metà del XV secolo la famiglia Rusca aveva rinunciato definitivamente a Como ed al Sottoceneri: su pressione di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, Franchino III cedette il dominio su Como e il Mendrisiotto in cambio di una terra ricca ma strategicamente più defilata: così ottenne la conferma della signoria su Locarno, più la “varesotta” Valtravaglia con Luino, con il titolo di conti: (1438-9).

Arca funebre di Franchino I Rusca (1339, maestri campionesi)

In cambio di tali pesanti rinunce, la famiglia Rusca riuscì a confermare il suo dominio sullo stupendo castello di Locarno e sui suoi traffici lacustri; nel frattempo, Luino diveniva così capoluogo del tratto di terra esteso tra Maccagno, in mano agli alleati Mandelli, e Laveno: la necessità tra le due località rivierasche di intrattenere rapporti commerciali diede a Luino quel ruolo d'importanza che in passato era spettato a Germignaga.

In seguito alla morte di Filippo Maria Visconti e alla proclamazione della breve Repubblica Ambrosiana, nel 1447 i Rusca azzardarono ancora una volta: forse il crollo del ducato avrebbe permesso loro di riappropriarsi una volta per tutte dell’avita Bellinzona…


Como, Palazzo Rusca (facciata del XIV sec.).


Malgrado il sostegno di truppe mercenarie svizzere, più precisamente urane e dell’ambizioso Enrico de Sacco, signore “ticinese” della Mesolcina, il fortilizio resistette. Fu così che il rovescio militare spinse i Rusca a contrattare con Francesco Sforza, fresco sposo di Bianca Maria Visconti: grazie al matrimonio combinato, il più grande condottiero dell’Italia del Rinascimento salvò la vecchia dinastia e ne ereditò il blasone della serpe. Lo Sforza concesse ai Rusca quanto già avevano, più la val d’Intelvi: alla ricchezza materiale accumulata da generazioni, i feudatari comaschi di un tempo ora potevano assommare un invidiabile peso politico nel gioco degli equilibri tra potenze maggiori e signorie locali. Da allora ai giorni della dominazione svizzera, sotto Franchino III (1466 †) e i figli, Pietro Antonio (1492 †) e Giovanni Nicolò (1508 †) i possedimenti dei Rusca conobbero un periodo di tranquillità, buona amministrazione e sviluppo artistico, improntato sui canoni del Rinascimento lombardo.

Jakob Tschachtlan, Bellinzona assediata


Nel 1487 il vescovo Rolando consacrò il Santuario della Madonna del Carmine di Luino, che divenne uno dei punti di riferimento della vita e della storia quotidiana della città: ed ecco spiegato il senso del portale d'’ingresso della chiesa, intagliato nell’arenaria rossa: in stile rinascimentale con gli stemmi dei Rusca, feudatari dell’epoca in compagnia del biscione un tempo visconteo e poi sforzesco che concedeva loro privilegi sulla valle, rappresenta appieno le tendenze estetizzanti della famiglia Rusca, ispirata dal buon gusto del casato sforzesco.

Luino, Santuario del Carmine, Cappella del Crocifisso (1544)

Con la caduta sforzesca e il breve ma cauto passaggio delle terre lombarde, quando Bellinzona fu conquistata dagli svizzeri (1500), Locarno divenne il baluardo estremo del ducato di Milano. Con la pressione espansionistica dei cantoni confederati, la sua vocazione bellica fu inevitabilmente accentuata: espressione più evidente di questa situazione fu l’aggiunta del rivellino settentrionale, recentemente attribuito a Leonardo da Vinci. Sotto il controllo del Giglio di Francia, nel 1502-3, di fronte a una calata di 15.000 svizzeri il governatore alla testa delle truppe francesi diede ai Rusca il suo sostegno. Con la Pace di Friburgo del 1516 la vita illuminata di casa Rusca dovette cedere il passo ai secoli del cupo baliaggio elvetico: la caduta degli Sforza estromise i Rusca anche dal numero dei confederati Svizzeri.



Codice atlantico di Leonardo - Probabile rivellino di locarno


Detto questo, la storia dei Rusca e della loro eredità non termina qui: anzi!
I potenti signori di un tempo, ora in possesso della Contea di Luino, lungi dal deprimersi riuscirono a realizzare un vecchio progetto già delineato fin dai tempi dell’inaugurazione del portale dei carmelitani: ad un primo tentativo, operato dall’avo Giovanni Rusca, di ottenere l’apertura di un mercato in Luino con conseguente ostilità dei maestri sforzeschi delle entrate ducali, proprio nell’epoca apparentemente più buia, ossia sotto il dominio spagnolo, il piano si poté infine realizzare.

Non avendo mai perso i contatti con i Mandelli, signori del piccolo feudo di Maccagno che a quel tempo, con il conte Giacomo, stavano ottenendo la concessione di un mercato settimanale per buoni uffici presso l´Imperatore Carlo V, tra il 1535 e 1541 i Rusca di Luino convinsero i governatori spagnoli a estendere anche al loro borgo un uguale privilegio. Statuendo che il suddetto mercato si tenesse a settimane alterne tra Luino e Maccagno, con l’appoggio del conte Giacomo Mandelli  il 5 settembre 1541 l’imperatore decretò che anche a Luino si potesse tenere mercato di bestiame, cereali e prodotti vari.

Bellinzona: sogno di grandezza ruscona ed ultimo baluardo ducale


Il benessere di casa Rusca al tramonto della sua storia è ancora una volta immortalato dalle nuove imprese eseguite nella Chiesa del Carmine: per volere di questi signori al tramonto, nel 1544 la chiesa luinese fu ampliata con una nuova cappella oggi chiamata “del Crocifisso”, affrescata da una bottega itinerante in uno stile in parte ancora goticheggiante, in parte aggiornato sulle moderne istanze pittoriche tardo rinascimentali del valsesiano Gaudenzio Ferrari: sulle pareti sfilano l’Annunciazione, la Natività e sull’arcone figure di Profeti. Attorno al 1655 vi sarebbe stata aggiunta una nuova Cappella, dedicata alla Madonna del Carmine, ma nemmeno le innovazioni barocche sarebbero riuscite ad alterare del tutto il senso dei volumi rinascimentali.

A. Ortelius (Anversa, 1528-1598). Antica mappa del Verbano, Ducato di Milano


Il 1671 fu l’anno dei legni preziosi: la chiesa vide l’installazione di un organo, di confessionali, di un pulpito e di una cantoria, notevoli per la ricchezza degli intagli, recentemente restaurati e restituiti alla loro primitiva bellezza.

Testo e foto: Marco Corrìas

Bibliografia di base
Corrias, M, Il Grande Atlante del Verbano e del Canton Ticino, 2016
Frigerio P., Tracce di sistemi difensivi verbanesi nell'alto medioevo 1979
Frigerio, P., Paesaggi e paesi del lago Maggiore, 1998
Frigerio, P., Storia di Luino e delle sue valli, 1999
Pessina, C. Frigerio, P., Il gran libro del lago Maggiore, 1994
Vismara, G, Cavanna, A Vismara, A, Ticino medievale, Storia di una terra lombarda, 1990