La sagrestia della chiesa ambrosiana di
Santa Maria Segreta, ignota ai più, custodisce un capolavoro del tutto inatteso:
una pala d’altare di scuola aragonese. L’opera, capolavoro del suo genere,
raffigura l’Incoronazione della Vergine, celebrata con tono elevato e aulico da
Dio Padre e Cristo in persona, entrambi rivestiti di sfarzosi paramenti di
broccato e oro; ai lati, la composizione è circoscritta dalle monumentali
figure di San Gerolamo e San Giovanni Battista. Sul gruppo pittorico incombe
la colomba dello Spirito Santo, attorniata da una corona di cherubini musicanti.
Gli stessi motivi ricorrono anche in
maestri più noti come Colantonio del Fiore, che appartenne alla generazione
precedente e che, tra le altre cose, fu anche il maestro di Antonello da
Messina. Non a caso, l'esempio dei due pittori citati convive con la luminosità
avvolgente del francese Jean Fouquet e con il senso plastico e monumentale
della grande scultura gotica francese. Lo studio analitico, sottilissimo nei
particolari delle vesti, si staglia su un fondo aureo con fluenti e flessuose
pieghe spezzate.
L’Incoronazione è stata attribuita a
Pietro Befulco detto “Pietro Buono”: un artista di origine salernitana ma
residente a Napoli, dove la sua attività fu documentata tra il 1471 e il 1506.
L’opera potrebbe collegarsi a un documento del 5 ottobre 1492; a quella data il
priore della chiesa di S. Maria delle Grazie a Caponapoli, lo spagnolo fra’
Martino Frexinal, aveva offerto 50 ducati d’argento al pittore, per una pala
d’altare raffigurante l’Incoronazione della Vergine e, nella predella, la
Flagellazione di Cristo e l’Andata al Calvario: queste due tavolette, oggi
smembrate, sono ancora miracolosamente conservate al Museo della Certosa di San
Martino a Napoli, mentre la tavola principale parrebbe essere proprio quella
misteriosamente finita in S. Maria Segreta...
L’opera milanese si colloca nel momento stilistico più felice di questo pittore misterioso (per alcuni critici Pietro Befulco e Pietro Buono non sarebbero nemmeno la stessa personalità…) quando Alfonso II d’Aragona stava riqualificando dal punto di vista artistico la capitale del suo regno.
Sul finire del secolo, infatti, il nuovo
re stava perseguendo, proprio come Ludovico il
Moro, una politica di prestigiose committenze artistiche, sebbene sulla
scia di gusti in parte diversi: quelli della pittura di gusto catalano-fiammingo.
Nonostante la vivacità culturale della
corte aragonese, accompagnata dalla presenza di importanti umanisti e
letterati, i numerosi influssi fiamminghi e iberici che s’incrociarono a Napoli
non riuscirono a sintetizzarsi del tutto in un linguaggio stilistico originario
e unitario, come invece andava accadendo a Milano in quegli stessi anni, per
via dei gusti ancora “feudali” del re straniero: riflesso di una sostanziale
indifferenza verso le nuove istanze della pittura rinascimentale italiana. La
chiamata a corte di artisti forestieri di provenienza disparata, come il
maiorchino Guillermo Sagrera, il dalmata Francesco Laurana e il lombardo
Domenico Gagini per il rinnovamento del Maschio Angioino, a tal proposito,
parla chiaro.
Ippolita Maria Sforza
Indagando tra le pagine della
storia veniamo comunque a scoprire che re Alfonso II di Napoli era alleato degli Sforza
di Milano: già nel settembre 1465, quando era ancora duca di Calabria, Alfonso
sposò con una cerimonia fastosa Ippolita Maria Sforza, figlia di Francesco
Sforza. Più tardi, nel 1479, un giovane Ludovico Sforza duca di Bari, non
ancora detto “il Moro”, non si creò problemi a persuadere il sovrano aragonese
sulla possibilità di dargli una mano per ottenere il controllo di Milano ai
danni del fratello Galeazzo Maria, in cambio di un matrimonio spregiudicato tra
suo nipote Giangaleazzo e la figlia Isabella d’Aragona: episodio interessante,
quanto poco noto. Lo stesso Alfonso, con quel matrimonio, covava torbidi sogni
di conquista del ducato Sforzesco...
L'invasione d’Italia da parte del dinasta francese Carlo
VIII, scatenata, per uno scherzo del fato, proprio dalla politica spregiudicata
del Moro, mise fine ai sogni di gloria di Alfonso II nel 1495.
A quale motivo va imputata la presenza
di una pala del Rinascimento napoletano alla corte Sforzesca? Forse al mecenatismo
dei due dinasti, o a uno scambio di artisti, tanto di moda alla fine del
Quattrocento? Pietro Befulco detto “Buono” era un maestro ben inserito nel
gusto catalano della corte partenopea, tanto da giustificare l’ipotesi di un
viaggio di studio in Spagna; forse, chissà, anche a Milano, presso la corte
Sforzesca?
Visto lo
smembramento dell’opera, sarebbe più credibile pensare che la tavola principale sia
stata acquistata, se non addirittura rubata nel corso del XIX secolo su commissione
di qualche intenditore d’arte, e rocambolescamente finita a Milano? O forse,
più semplicemente, si tratta di un deposito esterno della Pinacoteca di Brera,
pressoché obliato nel corso degli anni?
Castello Sforzesco
Ai tempi scrissi che "il grande
interesse per l’opera e la sua eccentrica collocazione avrebbero potuto
alimentare nuovi studi e magari chissà, una tesi di laurea"...aggiunsi anche che chiunque un giorno avesse desiderato approfondire il mistero di Pietro
Buono attraverso gli archivi ambrosiani e napoletani era caldamente pregato di
comunicarci le sue nuove scoperte.
Manco a saperne: tocca ancora a me, attraverso restauratori dell'accademia braidense scoperti all'opera in loco, svelare questo mistero dopo anni e anni: correva il 2013 dal giorno della mia segnalazione: da allora nessuno se ne
interessò più. Quest'oggi sono tornato in loco, ho parlato con il don e ho assistito
ai restauri in corso di un'opera che, evidentemente, ignorata dalla "Milano da
bere", non era poi così ignota agli studiosi del campo...e cosa scopriamo? Troviamo un'equipe in piena attività di restauro sull'opera: la pala non é stata scordata! Scopriamo anche che la pala avrebbe fatto parte della dote della nuova "sposa - giocattolo" voluta dalla crudele macchina dei matrimoni combinati e per procura del tempo, voluti dalle dinastie regnanti: unire Sforza e Aragona, nord e sud, comportava obiettivi così ambiziosi che nessuna delle parti poté realizzare per davvero. La pala apparteneva alla giovane pruncipessa Isabella d'Aragona,
figlia di Alfonso di Calabria e di Ippolita Maria Sforza, ricevuta alla corte sforzesca più che altro per via di un debito che Ludovico il Moro aveva contratto a inizi carriera.
Vesti aragonesi: Pietro Buono a Milano, S. Maria Segreta
Le fonti infatti testimoniano come Ludovico il
Moro dovette ripagare il sovrano di Napoli di numerose prove di fedeltà
ricevute, come il giovanile titolo di duca di Bari, senza il quale egli non
sarebbe stato nessuno e che in seguito gli permise per vie trasversali la
scalata al potere nella lontana Lombardia. Lo scotto da pagare fu un matrimonio
combinato tra due giovinetti: il nipote del Moro, il bellissimo e biondo crinito ma freddo
Giangaleazzo e la calorosa e sensibile e olivastra Isabella d'Aragona, che prima del fatidico
incontro mai si era stancata di ammirare e baciare l'immagine del fanciullo lombardo...inizio
di un idillio fiabesco, come tutti aspetteremmo? Macché!
Dopo tante cortesie affettate la
giovine, dai modi squisiti ma troppo sofisticati per i gusti
spartani della corte sforzesca, divenne presto oggetto della crudeltà di corte stessa.
"Gli stomachi dei melanesi abituati
a sostanziosi mangiari settentrionali, non gradiscono le "raffinatezze
napoletane, a base di dolci e di spezie e troppo leggere per i loro
gusti" riferì un cortigiano crudele.
Ed ecco le prime angherie psicologiche, poi tramutatesi in vere e proprie privazioni, che dovette patire Isabella, che dopo aver attraversato tutto il Tirreno per nave subendo il mal di mare, aveva sognato ad occhi aperti: per contratto, ma anche per amore oltrepassó il ruvido appennino e sperimentò il gelo sferzante della valle Scrivia, prima di acquartierarsi a Tortona (Per i tempi un clima del genere era mortalmente foriero di polmonite).
Ed ecco le prime angherie psicologiche, poi tramutatesi in vere e proprie privazioni, che dovette patire Isabella, che dopo aver attraversato tutto il Tirreno per nave subendo il mal di mare, aveva sognato ad occhi aperti: per contratto, ma anche per amore oltrepassó il ruvido appennino e sperimentò il gelo sferzante della valle Scrivia, prima di acquartierarsi a Tortona (Per i tempi un clima del genere era mortalmente foriero di polmonite).
L'aspro paesaggio appenninico della valle Scrivia
La fortuna non fu mai amica di Isabella; nemmeno
tra le coperte. Il giovane Giangaleazzo, pur bello ed elegante, non riuscì mai
a soddisfare la giovane aragonese: non perché ella fosse meno attraente rispetto
alle dame bionde e opulente della corte sforzesca, bensì per un problema
intrinseco...
"Il duca è di natura debole e reclinata,
come una serpe sorpresa dal gelo". La notizia fece il giro in un baleno.
"Ma perché farne un dramma?" disse lo stesso Ludovico il Moro, sorridendo ironicamente. Il giovane duca
poteva essere stato paralizzato dalla timidezza o dall'inesperienza! In fin dei conti poteva capitare a tutti,
"durante una partita di caccia, di fallire il primo colpo di
balestra"...
Dame lombarde, polittico di Treviglio (Bergamo, B. B. Zenale e Butinone)
Il giovane erede aveva diciannove anni e
del resto, con tutta una vita davanti a sé, si sarebbe potuto rifare di quel
piccolo infortunio...oppure no?
In tale contesto, il polittico di Pietro Buono si svelerebbe quindi come uno dei dei numerosi doni preziosi portati da Isabella aragonese fin da Napoli...e tutto il resto? Come andò a finire?
Per saperlo vi invito a seguire
Medioevo Monumentale, Wunderkammer e il loro amministratore, Corrias, che
intende organizzare una triade di visite guidate tra Pavia longobarda,
Viscontea e Milano sforzesca: ne vedremo delle belle!
Le bombarde del Castello Sforzesco (Como, museo Giovio)
Foto e testo: Marco Corrias
(P.s: S.Maria Segreta non é più la stessa chiesa edificata nel Settecento da Giulio Galliori presso l'omonima via del centro città, ossia tra il Cordusio e l’inizio di Via Meravigli: questa fu demolita per fare spazio alla Milano dei grandi palazzi pubblici di fine Ottocento. L'attuale e omonima chiesa é infatti una ricostruzione novecentesca, rielaborata ex novo presso via Mascheroni con il reimpiego della facciata smembrata del San Giovanni alle Case Rotte presso Piazza Scala: unico resto di un edificio progettato da Francesco Maria Richini nel primo quarto del '600).
(P.s: S.Maria Segreta non é più la stessa chiesa edificata nel Settecento da Giulio Galliori presso l'omonima via del centro città, ossia tra il Cordusio e l’inizio di Via Meravigli: questa fu demolita per fare spazio alla Milano dei grandi palazzi pubblici di fine Ottocento. L'attuale e omonima chiesa é infatti una ricostruzione novecentesca, rielaborata ex novo presso via Mascheroni con il reimpiego della facciata smembrata del San Giovanni alle Case Rotte presso Piazza Scala: unico resto di un edificio progettato da Francesco Maria Richini nel primo quarto del '600).