L’intera area collinare e montuosa
che avvolge il bacino del lago Maggiore, comprendente Lombardia, Piemonte e
Canton Ticino ha da sempre svelato la presenza costante di fenomeni megalitici: cerchi di pietre e massi incisi e coppellati,
ossia scavati con fori circolari, allo scopo di consacrare sacrifici a base di offerte
liquide (latte, sangue, idromele o acqua) agli dei antichi della natura. Si
tratta di testimonianze remote, probabilmente lasciateci dalle culture
celto-liguri dei Leponzi e di Golasecca; un insieme di civiltà affini, accomunate da riti e credenze preistoriche, prima fra
tutte la “saxorum veneratio”: il
magico culto delle pietre, manifestatosi migliaia di anni prima di Cristo e
praticato perfino, come vedremo, anche in seguito.
La poco nota Val Veddasca,
situata tra la Provincia di Varese e il Canton Ticino, cinta da antichi monti
alti tra i 900 e 1800 metri, non è nuova a questi fenomeni, lasciati in eredità
da tribù senza un nome né una storia scritta. Nei pochi centri isolati,
costruiti in pietra e legno e circondati da fitti boschi, l’uomo moderno ha
quasi del tutto rimosso il ricordo dei Sacri Monti pagani, vere e proprie vie
crucis poste a precipizio sulle cime dei monti circostanti (Alpone, Alpe Corte
e Cortetti).
Chi abbia già sentito parlare del
Lago D’Elio, situato ai piedi del
monte Borgna (m 1158), equidistante 10 km tra la cittadina lacustre di Maccagno
e il confine italo-svizzero, credendolo erroneamente un bacino artificiale per
via della sua diga, dovrà ricredersi: la sua origine è invece naturale, di
escavazione glaciale. Solo l'intervento umano, con la costruzione di due dighe
di contenimento, agli inizi del XX secolo ne modificò l'aspetto originario. Nonostante gli affronti subiti, il lago
D’Elio resta un gioiello incastonato tra i monti, depositario di misteri
insondabili e leggende antichissime che a distanza di secoli increspano ancora
la superficie delle sue acque:
Lago d'Elio (Va)
“Una fanciulla stava bevendo al ruscello che alimentava allora il lago,
quando udì una voce provenire dalla fonte; essa le chiese, mormorando, se fosse
innamorata. La fanciulla si guardò attorno stupita e, non udendo altro, si rimise
a bere.
La domanda si ripeté ed allora la giovane rispose dolcemente che sì,
era innamorata, ma che ancora non sapeva di chi; sapeva solo di sentirsi un po’
strana, a volte, quando si sdraiava sui prati e il profumo dell’erba e dei
fiori l’avvolgeva, oppure quando il sole, accarezzando il suo giovane corpo la
riempiva di uno strano ardore che la percorreva tutta.
“Egli verrà” disse
l’acqua e, nel giorno più lungo dell’estate, egli arrivò. Era il Sole, che
l’aveva notata tra le capre dei pascoli e che l’aveva scelta come amante
nell’unico giorno, ogni cento anni, in cui poteva prendere forma umana e amare.
La fanciulla vide quell’uomo biondo dagli occhi chiari che, sulle ali del
vento, le suggerì qualcosa.
Seguendo il consiglio, la fanciulla camminò dal
ruscello fino alla sponda del lago e ancor più oltre, fino a che, diventando
lei stessa acqua, non scomparve dal mondo degli uomini per fondersi per sempre
con quello della natura e col Sole, suo amante…”
Banchetto degli dei. Apollo, eponimo greco-romano del celtico Belenos "lo Splendente"
Vecchie favole agresti come questa, se analizzate da esperti, svelano
informazioni sensibili: con un po’ d’immaginazione possiamo ancora udire il
sussurro delle anguane, entità
femminili fatate in grado di prevedere il futuro, che dimoravano presso i corsi
d’acqua, e con esse siamo perfino in grado di percepire la presenza divina di Apollo “Helios”, portatore del carro
solare.
In molti miti alpini è imprescindibile
l’ideale di una valle che racchiude un lago fatato, circondato da pascoli. Presso
i popoli indoeuropei esso è visto come passaggio per l’Aldilà, dove gettare
vittime e offerte sacrificali: superficie in cui il sole si specchia, il lago
era un portale aperto verso l’Altro Mondo, cui potevano accedere solo i più
puri.
La leggenda del lago D’Elio ne è
un valido esempio: proprio perciò è sulle
sue sponde, le cui acque simboleggiano l’unione sessuale e la fertilità, che
avviene l’episodio; nelle sembianze delle figure di un dio presentato come l’Apollo
classico e di una fanciulla si consuma il rituale rapporto nuziale e carnale
tra Sole e Terra: un rapporto interpretabile anche come la ripetizione
liturgica di un sacrificio umano, praticato occasionalmente a scopo
propiziatorio da quei popoli, mediante soffocamento e annegamento della vittima
predestinata,
Peraltro, il mai chiarito toponimo del lago D’Elio, corrotto nel tempo
in Delio, denuncia l’antica dedicazione dello specchio d’acqua non tanto ad
Apollo, ma al suo eponimo celtico, poi romanizzato: siamo nella terra dello
splendente Belenos, dio solare degli antichi celti.
Ma chi praticava i riti antichi?
In molte culture indoeuropee, ai giovani pastori che avevano trascorso tutta
l’estate ai pascoli e che avevano incamerato energia procreativa nutrendosi di
latticini, durante le feste del solstizio autunnale, con cui si chiudeva la
stagione della transumanza, era concesso accoppiarsi con qualunque donna
volessero. Durante le danze i “pastori fecondatori” mimavano i loro armenti nei
versi, nelle movenze e nel travestimento, contraddistinto da lunghe corna e
pellicce. Era un rito antichissimo, in cui umani e caprini si fondevano: solo
così l’elemento divino scendeva sulla terra svelandosi agli uomini.
La presenza del divino in una
particolare località era solitamente segnalata da qualche particolarità naturale;
un lago, un bosco di querce, ceppi secolari, un grande masso o tracce sulla
roccia segnalavano l’altare del dio, di fronte al quale celebrare riti
propiziatori. Spesso la bipolarità tra
mondo montano e mondo della società civile fu interpretata tramite il conflitto
“puro-impuro”: il mondo selvaggio e incontrollabile dei monti delimitava
una geografia simbolica destinata alla natura, una dimensione “altra” da quella
circoscritta del villaggio. La foresta era il territorio sacro per eccellenza,
dove l’agricoltura era impraticabile e dove d’estate pascolavano le greggi di
capre: proprio qui si consumavano e si offrivano agli dei le prede e i primi
latticini dell’anno, in cerca del loro consenso.
Nonostante l’aura di sacralità
che permea i boschi del lago D’Elio, nessuno prima d’ora vi aveva mai trovato
incisioni: infine, dopo lunga ricerca lo scrivente ne ha reperite ben due.
Entra qui in gioco il primo masso: non uno dei soliti blocchi incisi (coppellati,
cruciformi, alberiformi, balestriformi), in cui ci s’imbatte solitamente, ma una
rarissima figura antropomorfa.
Val Veddasca (Va): masso "delle croci"
Forse la pietra, situata com’è
nel cuore della foresta impervia, non dovette essere dedicata a una
collettività, bensì a pochi pastori, o cacciatori-raccoglitori. Guerriero, sacerdote o divinità?
Confrontando l’immagine con quelle camune, si potrebbe escludere la personalità
di un guerriero; niente spade, né asce, lance o archi: il soggetto non esprime
il proprio potere intimidatorio attraverso le armi. Potrebbe trattarsi di uno sciamano, forse di un dio: magari di
entrambi, visto che il primo deve presentarsi a immagine e somiglianza del
secondo per svolgerne le funzioni e stabilire le sue regole tra gli uomini.
Effettivamente, la frenesia dell’antropomorfo
ricorda il furore mistico dello stregone che corre del masso numero 35 di
Naquane. Il termine “sciamano” deriva dal tunguso “saman”, passato attraverso il russo alle lingue occidentali, con
cui ha preso a indicare un “uomo di conoscenza” appartenente a popolazioni
“pre-moderne”. L’uomo che aveva saputo
stringere un rapporto col caos e domarlo, era un soggetto provvisto di
leadership verso il clan: lo sciamano era il riflesso vivente della divinità:
un demiurgo.
Masso n. 35 di Naquane in Val Camonica
Lo sciamanesimo era un’attività riservata
a una ristretta categoria di eletti, “persone scelte” e legate a un’esperienza
di “estasi” (uno stato d’evasione dell’anima dal corpo e dalla condizione
fisica) e “instasi” (atto del rientrare in sé). Il sacerdote preistorico
inaugurava i riti con un copricapo cornuto sulla testa; per raggiungere il
contatto col divino, doveva immedesimarsi nella bestia, non prima di aver
superato prove dolorose e violente: riti cruenti, auto-inflizioni,
flagellazioni, lotte spesso mortali con bestie selvagge e spiriti malvagi
dell’immaginario. Erano riti di passaggio, necessari al fine di acquisire nuove
abilità e conoscenze.
Lago d'Elio: masso dello "sciamano"
Lo “sciamano del Lago D’Elio”, danzante e munito di corna risulta di
uno schematismo geometrico tipicamente preistorico e a suo modo ricercato;
nella tensione delle sue ginocchia, piegate come molle, si sprigiona la
presenza di una “follia divinatoria”: quel furore panico e incontrollabile,
giudicato indispensabile per l’efficacia del rito di evocazione degli dei: per
guarire un malato, fulminare un nemico o per salvare un’intera comunità da una
catastrofe. La posa dell’antico antropomorfo idoliforme, faunesca e quasi
rannicchiata, ricorda le posture dei celti, degli sciamani-cacciatori
dell’Africa nera e del celeberrimo “stregone” della grotta di Trois Frères:
figura umana in atto di danzare, coperta da una pelle di cervo e ornata di
corna.
La furia dello sciamano, con la
sua colorazione animale e la maschera bestiale, è garanzia d’efficacia, come lo
è quella dell’eroe epico. Per avere accesso alle energie della natura, il
mistico deve lasciare da parte la sua univocità umana e prendere contatto con
esse anche mediante un comportamento che evochi, nel contesto rituale, questa
animalità. A tal proposito la danza sfrenata esige la presenza di musica: la
musica sciamanica, che anima gli oggetti e fa palpitare il corpo, soprattutto
sotto effetto di sostanze psicotrope e allucinatorie; lo sciamano, per
raggiungere quel particolare stato di coscienza (o non coscienza) che si è
voluto chiamare trance o estasi, assume una certa quantità di sostanze
eccitanti: bevande fermentate, alcool, funghi. In Europa, soprattutto il fungo
amanita Muscaria, comunemente reperibile a quote sopra gli 800 metri e perciò
considerata “cibo degli dei”, costituì il più valido “aiuto” per questi maghi,
saggi e curatori.
Amanite muscarie in Val Veddasca
Amanita, idromele inebriante (le più antiche testimonianze di
idromele sono state ritrovate in un coccio a Castelletto Ticino presso Novara)
concedevano allo sciamano il dono della “doppia vista”. Il fungo in questione
era usato collettivamente, in occasione di cerimonie, oppure impiegato solo
dagli sciamani per favorire la trance durante le pratiche curative e
divinatorie o per contattare gli spiriti dei morti, ma anche come fortificante
nel corso dei lunghi spostamenti e della caccia.
Nel frattempo, le melodie
adoperate per produrre estasi ne aumentavano gli effetti. Doveva trattarsi di
musiche dalla melodia semplicissima e ripetitiva, ma in grado di produrre riso
o pianto, come i canti incontrollati dei cacciatori pellirossa: “Il cuore prese a battermi forte, cominciai
a tremare. Un canto usciva da me prima che lo potessi fermare. Molte cose mi
apparvero; enormi uccelli e altri animali che solo io vedevo e altri no”.
A tal proposito, sarà inevitabile
scomodare anche l’inflazionato Cernunnos: divinità ultraterrena delle fiere e
dei morti, preposta alla conservazione delle specie animali e alla loro
elargizione agli uomini, in un’epoca in cui la caccia che non costituiva ancora
violenza e furto verso la Natura, ma scambio e rito.
Secondo lo scrivente, il “Masso dello Lo Sciamano” del lago D’Elio trova
un diretto confronto con l’antropomorfo di Bissogno di Beura Cardezza, situato
dall’opposta parte del lago: si tratta di un ibrido antropomorfo-cruciforme, che
mostra particolare interesse perché racchiusa in un cerchio di micro-coppelle,
se non addirittura in un cromlech.
L'antropomorfo di Beura Cerdezza (Vb), cinto di coppelle
L’attribuzione cronologica di questa
immagine, dibattuta, andrebbe datata al primo Medioevo, per via dell’esecuzione,
praticata per mezzo di uno strumento di ferro e non di quarzite. Eppure, se
così fosse, l’incisore non aveva scordato i misteri dello sciamanesimo e le sue
simbologie ancestrali. Il contesto stesso dell’incisione, posta su un masso al
centro dell’abitato, di fronte ad una cappelletta, rivela un tentativo di
esorcismo nei suoi confronti. Per le stesse ragioni, con la supervisione del
dott. Gaspani, noto archeostronomo, anche “Lo Sciamano del lago D’Elio”, è
stato cronologicamente datato agli inizi del Medioevo. Eppure ciò non toglie
importanza alla scoperta e alla sua valenza magica di segnacolo simbolico.
Ancora nel primo medioevo Cesario di Arles e papa Gregorio Magno (secolo VI) si
lamentavano di feste pagane in cui gli abitanti delle campagne usavano ancora indossare
travestimenti da cervi e altri animali. La pantomima del cervulum facere derivata dalle celebrazioni dei Celti, secondo il
letterato Simmaco, costituiva una festa venatoria dedicata a un Signore degli
animali con corna di cervo sul capo, la cui immagine inquietante, circondata da
animali selvatici, ornava pietre votive e coppe. La sua più celebre
raffigurazione è quella mirabilmente sbalzata sul bellissimo calderone di
Gundestrup.
Calderone di Gundestrup - Dio Cernunnos (I sec a.C - I s.C)
Il “masso dello Sciamano” si tratta indubbiamente di un simbolo, che mi
piacerebbe chiamare “icona”: un’icona preistorica che perciò va rispettata, con
la pena di incorrere nella violazione di qualche grave tabù.
Esso ci ricorda anche una scoperta ben più antica e importante: la "Balma dei Cervi": Impressionante complesso pittorico
al riparo di una ampia ed imponente balma che ne ha protetto e garantito per
millenni la conservazione. Chiamarla “Balma dei Cervi” venne spontaneo agli
scopritori, viste le tracce che indicavano la frequentazione abituale di
ungulati sparse in tutta la zona (sulle rocce segni di sfregamento delle corna
degli animali durante le mute stagionali). I cervi: incarnazione vivente del
dio celtico Cernunnos, proprio come sul Calderone di Gundestrupp, ritrovato in
Danimarca. L’intera parete sotto roccia ospita una fitta serie di immagini,
iconogrammi e ideogrammi tra loro associati a costituire un discorso a senso
compiuto per coloro che le hanno realizzate, in una presumibile contemporaneità
di azioni-interventi rituali, quindi non estemporanei e casuali. Le
rappresentazioni dominanti del complesso pittorico sono antropomorfi schematici
dalle linee morbide e arrotondate, del tipo “orante”, tra loro associati a
ideogrammi puntiformi, quasi sicuramente realizzati coi polpastrelli,
organizzati in linee, doppie linee, gruppi geometrici e “recinti” (aree
sacre?). Un groviglio intricato di simboli e significati.
La Balma dei Cervi, antichissimo pittogramma in Valle Antigorio (Vb)
Il masso del lago D’Elio potrebbe
verosimilmente rappresentare anche un segnacolo funerario o un simbolico
cenotafio sacro di buon augurio indirizzato al viandante, al cacciatore, al
pastore. Fra gli esseri soprannaturali documentati nelle religioni dei
cacciatori si distinguono gli “spiriti guardiani” del bosco, che proteggono sia
l’animale cacciato, sia il cacciatore. L’incontro inatteso con l’immagine dello
sciamano, anche di quello inciso su pietra, doveva sicuramente incutere paura
e, allo stesso tempo, confortare il giovane cacciatore o il futuro guaritore
coinvolto in un rito d’iniziazione nel cuore della foresta.
L'incantatore della grotta di Trois Fréres, in Francia
La seconda scoperta connessa,
ossia il masso dell’Ascia, testimonia come la zona non fosse mai oggetto
d’insediamenti umani ma solo di culti venatori: lo sciamanesimo è intimamente
legato a “culture di caccia”, caratterizzate dalla credenza negli
spiriti-animali, nella magia identificatoria del cacciatore con le sue prede e
da un rapporto ambivalente di venerazione/conflittualità con un’entità super-umana,
come Cernunnos, “ padre” degli animali.
In una società primitiva in cui i
raccolti erano insufficienti a garantire la sopravvivenza della specie, la caccia
determinava la divisione del lavoro: l’incessante inseguimento e uccisione
della selvaggina finirono per creare tra il cacciatore e la vittima uno
speciale rapporto di “solidarietà mistica. Quest’ultima svela il rapporto di
parentela tra società umane e mondo animale: il sangue versato era, sotto ogni
punto di vista, uguale a quello dell’uomo. Abbattere l’animale cacciato
equivaleva a un “sacrificio” in cui le vittime potevano anche essere
interscambiabili.
I cacciatori primitivi vivevano
nella convinzione che gli animali fossero simili agli uomini, ma dotati di
poteri soprannaturali: credevano che l’uomo potesse trasformarsi in animale e
viceversa. Lo stesso Signore degli Animali non desiderava che il cacciatore
uccidesse più di quanto gli fosse necessario per nutrirsi, né che il cibo fosse
sciupato. Il pericoloso compito di entrare in contatto col dio spettava allo
sciamano del clan che, tra le altre cose, era anche il “mago della caccia”.
Solo agendo nella duplice veste di divinatore e incantatore di animali, costui
poteva entrare in contatto col Signore degli Animali per barattare la quota di prede
destinate ai cacciatori, permettendo la sopravvivenza del gruppo.
Dall’altra parte del lago D’Elio,
sulle pendici del monte Borgna, lo scrivente ha ritrovato un masso con una
rozza scure incisa, simile a quelle abbondantemente ritrovate nei vari ripostigli
tra Como e Varese, dal Neolitico all’Età del Bronzo. Il masso dell’ascia è un grande blocco con una rudimentale punta di
scure incisa sul culmine; testimonianza simbolica, ricorda che le culture dei
cacciatori-raccoglitori sopravvivevano grazie a una regola: “uccidere per vivere”.
La rappresentazione di armi come
segnalava il sacro permesso di cacciare caprioli e camosci e chissà quali altri
animali allora. Il simbolo dell’ascia viene anche attribuito al dio della
Folgore e degli eventi atmosferici, Taranis.
Eppure, per dovere di correttezza mi pare giusto sottolineare che, come il dott.
Gaspani, anche la dott.ssa Poletti abbia fatto notare che talvolta basta cambiare
prospettiva per leggere altri significati, come una croce su piedistallo
stilizzato, affiancata da due lettere CC. Motivo molto comune tra i segni
incisi d'età storica, il cui senso può essere compreso solo analizzando
attentamente il contesto...
Il "Masso dello sciamano" letto alla rovescia, rivelerebbe un altarino cristiano e delle iniziali
Ciò significherebbe che questo
fosse simbolo ormai cristiano, talvolta
ritrovabile su rocce a segnare il confine tra due territori, proprietà (di cui le lettere rappresentano le iniziali, a ricordo di un lutto avvenuto in quel luogo o del morto) o ancora può essere un segno inizialmente pagano e solo successivamente esorcizzato.
Dio - sciamano, emblema alchemico o semplice cippo di confine?
Interpretazione affascinante, come quello delle corna, simbolo "mercuriale", che però non fa per nulla parte del bagaglio culturale dello scrivente.
Proprio per necessità di un'analisi
complessiva del segno nel suo contesto, in assenza di altri dati archeologici o storici di supporto si consiglia sempre grande
cautela nel proporre datazioni di segni isolati...
Una seconda leggenda riguardante il lago D’Elio narra di San Silvestro che, durante l'evangelizzazione della zona, salì fino alla cima del Monte Borgna, in un villaggio i cui abitanti adoravano il Dio Elio. Il santo fu accusato dai bellicosi abitanti di portare sventura e fu perseguitato. Una notte, mentre gli davano la caccia, dal monte si staccò una frana e l'acqua sommerse l'intero paese: punizione divina per i pagani.
In presenza di antichi cascinali abbandonati, la Val Veddasca è un ricettacolo di massi incisi: puro caso o continuità insediativa?
Dalle leggende e dalle incisioni, a qualunque epoca appartengano, otteniamo in ogni caso preziose conferme: se non proprio abitata, anche l'area del lago, magari agli albori dell’età cristiana era già frequentata da locali adoratori di un dio indoeuropeo legato al culto del sole. I primi cristiani fecero di tutto per distruggere o esorcizzare massi come questo:
In attesa che la Soprintendenza, che ha da poco identificato e schedato il masso dopo miei reiterati richiami, dia il suo responso, noi possiamo ancora sognare uno sciamano protettore del monte, da secoli nascosto sotto coltri di foglie salvo "balzar fuori" come un fauno, ma solo per chi sia in grado di scovare le sue vie segrete, con il ciclico ritorno della bella stagione.
Marco Corrias (alias Marc Pevèn)
Calco dello sciamano del masso della pineta di Montegrino (Va), prossimo alla sparizione
BIBLIOGRAFIA
Atto de Convegno di Studi 2-5 ottobre 1997 Darfo Boario
Terme – Archeologia e arte rupestre, L’Europa, le Alpi, la Valcamonica.
AA.VV – Guerrieri principi ed eroi fra il Danubio e il Po
dalla Preistoria all’alto Medioevo
Barozzi – Tracce celtiche. 2000
Biganzoli – Il territorio segnato, incisioni rupestri nel
Verbano
A. S. Cacopardo, Natale pagano. Feste d’inverno nello Hindu
Kush
Copiatti, E. Poletti, Messaggi sulla Pietra – Censimento
e studio dele incisioni rupestri del Parco Nazionale Val Grande, 2014
Dalbosco, Brughi – Entità fatate della Padania 1993
De Giuli, Priuli, Le pitture parietali
della “Balma dei Cervi” in valle Antigorio – nota preliminare, in Oscellana
XLII, 2012, Ed. Oscellana, 2012
De Giuli, Oltre l’antica soglia, 1995
De Giuli, Storie di pietra, 1999
Rubat-Borel, Crodo. Balma dei Cervi, in Quaderni della Soprintendenza Archeologica del
Piemonte, 2013
Frigerio – Storia di Luino e delle sue valli
Galloni - Il dio cornuto. Alcune metamorfosi di una
divinità paleolitica
Eliade – Storia delle Credenze e delle idee religiose
vol. 1
Eliade – Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi
Priuli – Incisioni Rupestri nelle Alpi
Rossi - Orco Anthropologica 1, Religiosità popolare e
incisioni rupestri in età storica